Il culto del fuoco a Roma: Vesta, il Tempio entro il Pomerio e Vulcano

GREECE OLYMPIC TORCH RELAY ACROPOLISIl culto del Fuoco è peculiare, anche se non esclusivo, dei popoli indoeuropei e, a parte non pubblicizzate sussistenze in Occidente, sopravvive oggi nella religione dei Parsi, Faris = Persiani, nella regione di Bombay, dove conta qualche milione di aderenti (1).

Originarli della Terra Iperborea, i progenitori Arya degli Indoeuropei trasmisero a questi ultimi, in tutt’uno con la liturgia, la cognizione di una orientazione sacra legata al punto cardinale, il Nord, riferibile all’aspetto luminoso e risplendente del Fuoco, opposto all’aspetto tellurico del Fuoco del Sud: la luce apollinea contro all’ardore vulcanico.

Il Monte Mehru, ergentesi con la sua sagoma triangolare, nella mitica sede degli Arya. Diventa il simbolo stesso del Fuoco (^) e della sua sede fisica, il cuore che, misteriosamente, inverte quasi del tutto la sua posizione (v) man mano che la migrazione allontana quelle genti dalle loro tanto remote quanto antiche sedi.

Insieme con il ricordo del giorno luminoso della Terra iperborea e del Dio supremo Dyeus, risplendente di quella luce, viene trasmessone negl’Indoeuropei, lungo i millenni, il senso della centralità del Fuoco. Ed attorno al Fuoco essi stanno, per meditarne la luce e per trattenerne nel cuore una scintilla – per alimentarla ed alimentarsene.

Quel Fuoco centrale, portato nel luogo del Cuore, è i1 seme medesimo della divinità nell’Uomo, giacché vir deus mortalis.

Plutarco, allora, potrà spiegare ai suoi contemporanei (I sec. d.C.):

“In effetti non c’è nulla più del fuoco che assomigli ad un essere animato. Egli si muove e si nutre da se stesso. Con la sua fiamma brillante pone, così come lo fa la nostra anima, tutte le cose in luce. Illumina tutto. Ma è soprattutto quando la si spegne e la si annienta ch’egli dimostra tutta la sua potenza. Certo, non è privo di un vero principio vitale: egli grida, parla, si difende come una creatura vivente che si vuole uccidere con violenza e che si giunge ad assassinare”.

E nelle “Questioni Romane” si domanda perché a Roma non si spenga mai una lampada e la si lasci consumare. Risponde:  “La fiamma è Perenne; perché non si fa sparire una cosa che è animata e non nuoce; perché distruggere il Fuoco o l’Acqua o altro elemento significa nuocere agli altri col privarli del loro uso. La lampada è l’immagine del corpo che avvolge la nostra anima. La fiamma luminosa la raffigura; essa si trova all’interno. Deve dimorarvi vigile e perspicace; e anche prudente perché non deve mai lasciarsi ricoprire o estinguere con il soffio” (2).

La leggenda di Achille, narrata da Apollodoro, pone in rilievo il potere immortalante del Fuoco: “Teti immergeva, di notte, il corpo di Achille nel fuoco e di giorno lo ungeva di ambrosia”.

Il suo potere catartico è attestato dal rito romano dell’Armilustrium (15 ottobre), quando si bagnavano di sangue sacrificale dei fasci di paglia, cui si dava fuoco e í giovani guerrieri, passando attraverso le fiamme, si impregnavano del vigore magico del sangue e del fuoco (Ovidio, “Fasti”). I riti delle Parilie (21 aprile) e le lustrazioni di Febro (la Candelora dei cristiani) ne attestano la virtù purificante.

Il Pernety afferma essere il Fuoco a “concedere la forma a tutti gli esseri … li anima, li vivifica” ed alla luce di ciò si può ben intendere la leggenda alternativa della nascita di Romolo e Remo: i gemelli sarebbero stati generati da un falco apparso tra le fiamme del focolare. Questa leggenda ha una sua giustificazione nella più antica tradizione Arya per la quale Agni (= Ignis) usa le fiamme come organi genitali.

Vulcano, museo di Thorvaldsen
Vulcano, museo di Thorvaldsen

Il Fuoco, dai Romani, venne collocato nel luogo del cuore della casa: il focolare domestico, attorno al quale sì riuniva la famiglia in venerazione e raccoglimento. Il sacerdote, unico, del culto del Fuoco Domestico era il padre di famiglia, capo della casa e delle sue componenti. A Roma, è bene notarlo in Fuoco ebbe una sola “religione” nel culto pubblico: la religione di Vesta, sotto la diretta potestà del Pontefice Massimo e la cura specifica del collegio delle Vestali.

Le fonti romane poco ci dicono sul .Fuoco, ma di ciò diremo avanti. Ci avvarremo, per colmare le nostre lacune, dello studio del Dumezil (3) sul Fuoco della religione vedica (IV sec. a,C,) che spiega quello di Roma in virtù del le comuni radici.

La corrispondenza tra i fuochi vedici ed i fuochi romani ci sembra, in effetti, ben più stretta e documentabile, ad esempio, della corrispondenza fra la dottrina pitagorica del Fuoco ed il Fuoco in Roma. La dottrina pitagorica è basata sulla testimonianza di Plutarco e su enunciazioni dei filosofi Ippaso ed. Eraclito (VI-V sec. a.C.), di molto posteriori alle testimonianze vediche (4).

Plutarco in sostanza afferma che Numa avrebbe dato al Tempio di Vesta forma circolare quale “figura di tutto l’Universo nel cui mezzo, pensano i Pitagorici, sia posto il Fuoco chiamato da loro Vesta o Unità”.

Poiché il culto del Fuoco è documentato a Lavinio, Alba e Preneste (Palestrina) e – secondo la tradizione riportata da Virgilio (5) – fu portato nel Lazio da Enea, non si vede perché proprio Numa  – supposto pitagorico – abbia istituito a Roma un culto preesistente presso i popoli Italici e, soprattutto, legato alla “gens” dello stesso fondatore di Roma, Romolo, figlio di Marte e di Rea Silvia, vestale di Alba Longa. Ciò va detto non per sminuire il valore della speculazione ellenica e pitagorica, bensì per mettere in tutta luce le radici italiche – e per li rami indoeuropei – del culto romano del Fuoco, radici non mediate da influenze fiorite in epoche posteriori.

I fuochi Vedici sono tre:

  • quello del Vaysia, Fuoco del Sacrificante, che rappresenta la Terra rotonda, collocato a Ovest e custodito non dal Vaysia stesso, ma da sua moglie;
  • quello del Brahmana, Fuoco delle Offerte, di forma quadrangolare e posto ad Est, a Nord del quale si collocano sia il Sacrificante che il Brahmana;
  • quello dei Kshatrya, Fuoco dei Guerrieri, semicircolare e posto a Sud, a guardia dei primi due contro le forze avverse.

Immediatamente a Sud del secondo Fuoco si trova il praticello erboso sul quale “si posano gli Dei”.

Analogamente – fa notare il Dumezil – davanti al tempio romano si trova l’ara in cui vie ne bruciata l’offerta; accanto all’ara si trova il foculus (focolare portatile) sul quale si bruciano l’incenso e il vino (Praefatio).

Se si considera l’Urbe come un’unica quanto vasta abitazione,

  • l’Aedes Vesta, con la sua pianta circolare, corrisponde al Fuoco dal Sacrificante (nel culto privato romano è il focus domesticus);
  • il Fuoco dell’ara di ogni altro Tempio urbano, entro il Pomerio, rappresenta il Fuoco delle Offerte;
  • Il terzo Fuoco, quello di Vulcano, il cui Tempio è fuori della città, è rapportabile al Fuoco dei Guerrieri.

IMG_1314Il Dumezil spiega la sua interpretazione del Fuoco romano riferibile a Vulcano con la considerazione che il dio è, come Marte, “distruttore”  e pertanto il suo “fuoco affamato” è posto  fuori della città, essendo un fuoco che distrugge per il bene e per il male (5). Come il terze Fuoco vedico è in rapporto ai Kshatrya, così al Fuoco di Vulcano si dedicano armi catturate e  nemici e le dedica anche il devotus sopravvissuto al rito della Devotio, con evidente riferimento ai Guerrieri.

L’analogia tra il Fuoco del Varsya e quello di Vesta non è sottolineato solo dal fatto che entrambi sono di forma circolare e che sono custoditi da donne, ma anche da un particolare che, apparentemente, ha il carattere di un “fossile cultuale” il 15 giugno era indicata, nel calendario romano, come il giorno Stercum delatum fas nel quale il tempio di Vesta era spazzato per liberarlo, simbolicamente, dalla sporcizia che vi si era accumulata durante l’anno. E’ chiaro il riferimento ad un tempo remoto in cui c’era la necessità di liberare il luogo del focus domesticus dallo sterco depositato dagli animali allevati in casa.

Ora, lo stesso fatto rituale si trova nel rito vedico: il luogo in cui si erigerà il focolare dovrà esser prima spazzato, poi il Sacrificante spargerà terra salina o sale che, dice il Dumezil, è “il bestiame e per il bestiame”.

L’analogia non si limita a ciò: il Fuoco e l’Acqua, sia nel culto vedico che in quello romano, stanno in mutuo rapporto. Così, mentre accanto ad ogni tempio romano dev’esserci l’acqua per le ablazioni, nell’analogo vedico si poneva un foglia di loto per simboleggiarla. Tuttavia nel tempio di Vesta l’acqua non ci deve essere, come non c’è nel Fuoco del Sacrificante. Infine a Vulcano vengono sacrificati pesciolini vivi e l’Agni vedico è nemico implacabile dei pesci.

Il Fuoco di Roma veniva rinnovato ogni anno il 1° di marzo, giorno iniziale dell’anno sacro. Era acceso per sfregamento di due pezzi di legno di arbores felices (alberi indenni) oppure – si dice – per mezzo di un raggio di sole concentrato attraverso una lente o con uno specchio ustorio. Il Fuoco si alimenta con la legna della pianta indenne sacra alla divinità nel tempio della quale viene acceso: la quercia per Marte, l’alloro per Apollo, il mirto per Venere, l’olivo per Minerva e così via. Occasionalmente il Fuoco veniva attinto da altro Fuoco e non era mai acceso irritualmente. A Roma era generalmente posto in un locale diametralmente opposto alla porta d’ingresso (ianua).

Servio (6) dice che “ara deorum penatium est focus” il focolare è l’ara degli Dei Penati, mentre Virgilio (7) usa il termine penates per focus. Secondo Catone (8) e Plauto (9) il focolare è da identificarsi, senza dubbio, col Lar Familiaris. Il domicilio dei Penati nel focolare domestico è attestato in un rito: prima di ogni pasto, quando la famiglia è riunita in silenzio attorno al desco, sul focolare è collocata una scodella (patella) piena di cibo; si getta nel fuoco parte del suo contenuto; il silenzio viene mantenuto fino a che lo schiavo addetto non si presenta al pater familias dichiarando “Gli Dei sono soddisfatti” (10).

In epoca più tarda i Penati ebbero una loro cappella nell’atrio della casa, pur continuando ad essere gli Dei della cucina nella ripartizione della casa fra le varie divinità, secondo quanto precisa Servio il quale stabilisce una sorta di generalizzazione però col dichiarare che “Penates sunt omnes de qui domi coluntur” ovvero “sono da chiamarsi Penati tutti gli Dei che sono venerati, con atti di culto, nella casa”.

Da quanto abbiamo detto sul culto del Fuoco a Roma, si deduce che esso era visto nella sua qualità di aspetto visibile della divinità e che il pater familias, sacerdote del Fuoco, era la figura centrale ed insostituibile del culto inerente, sopravvissuto alla dissoluzione di ogni culto pubblico.

Salvatore C. Ruta

(da La Cittadella n° 4, aprile-giugno 1985)

NOTE

  1. La religione dei Parsi, oggi, non ha la purezza del mazdeismo antico. I Parsi furono cacciati dall’Iran dai musulmani e migrarono in massa verso l’India, ben più tollerante.
  2. Si noti l’interpretazione ermetica che Plutarco dà del fuoco, in particolare nell’ultimo periodo del brano
  3. Dumezil, La religione romana arcaica, Milano 1977
  4. Fenili, “Focus Patrius” in Arthos 22, 23, 24, pag.149
  5. Virgilio, Eneide, II, 270 sgg.- P. Fenili, cit.
  6. L’Autore, evidentemente, non pone la questione in termini di morale.
  7. Servio, Aen, 11, 211.
  8. Virgilio, Eneide, I, 703
  9. Catone, Agr. 143
  10. Plauto, Trim.,139
  11. Servio, Aen,1,730.
  12. Ivi, 2, 514