Che cos’è il Templum lo spiega Dionigi d’Alicarnasso in Antiquitates Romanae (III, 60 e IV 60): nel libro terzo descrive la fondazione del tempio di Giove Capitolino e il noto vaticinio dell’aruspice etrusco che spiega ai Romani il significato della testa mozzata ritrovata nelle fondamenta; nel libro quarto racconta delle intuizioni del giovane Nevio, aruspice in pectore, nel ripartire la vigna e nell’individuare i segni degli uccelli per trovare il grappolo più grande da donare agli dei. In entrambi gli episodi il Templum è lo spazio diviso e consacrato – disegnato nell’orizzonte (e riportato in terra) ove sono raccolti e interpretati i segni, cioè le indicazioni che vengono dal mondo ultraterreno. Per estensione, in seguito, il Templum diverrà il tempio che conosciamo noi, cioè la costruzione che si edifica sul luogo in precedenza augurato e consacrato.
Il Templum è dunque una divisione spaziale e temporale praticata in una determinata area, secondo concetti etruschi quali l’assialità e l’orientazione – concetti estranei, ad esempio, al mondo greco.
Le fonti antiquarie ci hanno consegnato i noti passi di Varrone ove si spiega la quadripartizione spaziale del Templum con orientamento a Sud, la quale prevede che l’Augure unisca i punti cardinali con due assi, il nord sud/cardo e l’est ovest/decumano. Postosi all’incrocio tra i due assi, schiena rivolta a nord, chiama lo spazio alle spalle pars postica e quella davanti pars antica. Dopo divide in altre due parti, quella alla sua sinistra pars familiaris, cioè quella propizia, mentre quella a destra pars hostilis, sfavorevole.
Un’altra nota fonte antiquaria, Livio, ci parla di un’analoga quadripartizione secondo le direzioni cardinali, ma con orientamento rivolto all’Est.
In entrambe le fonti, ogni settore è presieduto da una divinità tendenzialmente positiva o negativa e i quattro spazi sono poi scissi in dieci, con sfumature di positività e negatività. I segni del cielo da cogliere sono dettati dal volo degli uccelli da una zona all’altra del Templum, con le loro valenze faste o nefaste dettate dalla provenienza geografica del volo, dal tipo di volatile, dal canto del volatile. Altri segni possono essere fulmini o fenomeni naturali.
Anche l’ora della divinazione e l’abbigliamento hanno la loro importanza: le ore migliori sono naturalmente l’aurora o il tramonto, quando gli uccelli spiccano il volo, mentre l’abito dell’Augure, come indicano diversi reperti archeologici e dipinti, è composto da una tunica bianca – senza lacci, nodi e stringhe e con un accenno di manica per non impedire i gesti, il cosiddetto cinto Gabino (da Gabi, scuola augurale antichissima) – e da una mantella; in capo l’Apex o Tutulus, berretto conico di lana animato con uno stecco di legno per puntare il cielo e fungere da catalizzatore di energie sottili. In mano, naturalmente, il lituo di legno senza nodi o di bronzo.
E’ tuttavia necessaria una particolare sensibilità per cogliere tutti i segni manifesti del mondo visibile, per avere l’intuizione: occorre, insomma, una sensibilità nata da allenamento costante, da uno stato psichico di apertura fuori dal normale e da una disposizione d’animo veritiera, non sporcata dal piano emozionale ed istintivo.
Illuminante è la descrizione dell’auspicio per l’elezione di re Numa descritto da Tito Livio (Ab Urbe Condita): “Inde ab augure deductus in arcem, in lapide ad meridiem versus consedit. Augur ad laevam eius capite velato sedem cepit, dextra manu baculum sine nodo aduncum tenens quem lituum appellarunt. E così fu condotto da un Augure sull’Arce e si sedette su una pietra rivolto a sud. L’Augure prese posto alla sua sinistra con il capo velato, nella mano destra reggeva il bastone senza nodi detto lituo. Inde ubi prospectu in urbem agrumque capto deos precatus regiones ab oriente ad occasum determinavit, dextras ad meridiem partes, laevas ad septentrionem esse dixit; Quindi, dopo aver abbracciato con uno sguardo la città e le campagne intorno, invocò gli dei e divise la volta del cielo da oriente ad occidente, con una linea ideale, specificando che le regioni a destra erano quelle meridionali e quelle a sinistra le settentrionali; signum contra quo longissime conspectum oculi ferebant animo finivit; poi fissò mentalmente, nella parte di fronte a sé, il punto di riferimento più lontano cui potesse giungere con lo sguardo; tum lituo in laevam manum translato, dextra in caput Numae imposita, ita precatus est: “Iuppiter pater, si est fas hunc Numam Pompilium cuius ego caput teneo regem Romae esse, uti tu signa nobis certa adclarassis inter eos fines quod feci”. Quindi, passato il lituo nella mano sinistra pose la destra sulla testa di Numa, rivolse questa preghiera: O Giove padre se è fas che Numa Pompilio, qui presente, la cui testa tengo, divenga re di Roma, mostrami segni sicuri entro i confini che ho tracciato”. Tum peregit verbis auspicia quae mitti vellet. Quibus missis declaratus rex Numa de templo descendit.. Poi specificò gli auspici che voleva venissero inviati e quando questi apparvero, Numa fu dichiarato re e scesero dall’Arce”.
Questa capacità che abbiamo visto di cogliere i segni del cielo rivela la sua natura significativa anche grazie all’altra divisione che opera l’Augure, la divisione temporale.
E che significa divisione temporale?
Qui prendo a prestito il grande Platone. L’Augure è lì nel campo, all’aurora, dopo una notte d’attesa, e sta per delimitare lo spazio dell’orizzonte a lui visibile col suo lituo, per poi divinare cercando i segni del cielo. Ecco, nel momento in cui chiude il cerchio con gesto ampio maestoso e fissa col bastone ricurvo l’ultimo riferimento a sud, ha sacralizzato. E sacralizzando ha fissato l’istante, cogliendo l’Eterno, cogliendo l’Essere, entrando in frequenza di risonanza con le stelle fisse.
“Se il tempo, dice Platone, è l’immagine mobile dell’eterno e l’istante è l’eterno, dove futuro e passato non esistono, nell’istante in cui l’Augure contempla fissando il Templum diviene un tutt’uno col Dio, entra nell’Eterno, nell’Essere, il quale poi lascia segni indiscutibili di verità e presagio”.
“Se lo specchio è il divenire e il cadavere non si specchia, dice il filosofo Giandomenico Casalino ne “La conoscenza suprema”, io che guardo lo specchio chi sono in quell’attimo se non l’eterno? Ancora Casalino: “Il tempo è l’immagine mobile dell’eterno. L’istante è l’Intero”.
E allora, nell’istante in cui l’augure divina fissa l’eterno.
Provo a spiegarvelo con una pratica presa a prestito dalla sapienza d’Oriente che, nonostante la sua weltanschauung sostanzialmente dionisiaca, ha comunque dimestichezza con la il concetto di qualità del tempo. Lo riprendo dal blog “L’aquila e il serpente” dell’astrologo Domenico Coluccio dove parla della tecnica oracolare cinese pre-confuciana dell’I Ching. “La pratica dell’I Ching è legata all’istante in quanto l’istante osservato è il totale di tutti gli ingredienti. Quando si gettano le tre monete, tutti i dettagli casuali entrano nel quadro dell’attimo sotto osservazione. Inoltre, la risposta al quesito del consultante coincide con il momento del lancio delle tre monete non soltanto nel tempo, ma anche nella qualità, essendo il primo concepito come un indicatore della situazione prevalente nell’istante della sua origine. Le situazioni sono ogni volta uniche e sincroniche: non possono essere ripetute; si presuppone che la caduta delle monete sia proprio quale deve essere, necessariamente, in una data situazione, poiché ogni cosa che avviene in quel momento vi appartiene quale indispensabile elemento del tutto”. Ecco dunque il valore e la qualità del tempo nell’azione.
Queste due caratteristiche del Templum, spazio e tempo, non bastano però per familiarizzare con il rito di fondazione delle città romane, che era operazione molto complessa.
Abbiamo visto che il generico principio di assialità e gerarchia degli assi stradali basati su cardo e decumano maximi è stato assunto come figura del Templum celeste da trasporre sulla forma urbana.
Ma in termini pratici, come coniugare queste geometrie, abbastanza semplici, con il rito di fondazione vero e proprio?
Approfonditi studi condotti da archeologi dell’Università di Bologna, soprattutto Antonio Gottarelli – che hanno confrontato le geometrie sacre dei siti archeologici della città etrusca di Marzabotto (BO), della città osca di Bantia (PZ), “rifondata” in municipium romano nel I secolo, e del santuario di Meggiaro di Este (PD) – hanno acceso un faro su tecniche sinora solo abbozzate.
Queste ricerche dimostrano, innanzitutto, che Varrone e Livio non erano in contraddizione quando parlavano l’uno di orientamento a sud, l’altro di orientamento a est dell’Augure.
Già l’archeologo Mario Torelli nel 1969, studiando il Templum auguraculum in terris di Bantia aveva capito che verso Sud è la spectio dell’Auspicante, di colui che siede al centro del Templum e ha a sinistra le zone favorevoli e a destra le avverse, mentre verso est guarda l’Augure il quale, interprete dei segni divini e depositario della scienza deve leggere il significato del presagio.
Ma allora Augure e Auspicante dovevano essere spazialmente distanti e separati? E, quindi, si augurava in un luogo e si inaugurava in un altro? E’ proprio così: in alto, di lontano, cioè sull’Acropoli/Cittadella/Arce si augurava, mentre nel Templum, in basso, nella prospettiva visuale trasposta in terra, si inaugurava.
Gottarelli nelle sue ricerche (“Contemplatio, templum solare e culti di fondazione, 1998-2013 ”), ci spiega innanzitutto che le relazioni topografiche tra l’Arce di Marzabotto e il sottostante piano del Templum in terris erano coerenti col passo di Festo secondo il quale le operazioni di inaugurazione richiedevano due sedi distinte le quali, attraverso una vera e propria stipulatio, venivano collegate ritualmente: in alto sull’Acropoli l’auguraculum con l’Augure rivolto verso est/sud-est poteva eseguire la sua spectio abbracciando con lo sguardo l’intera futura città e la sua chora (platonicamente parlando, il ricettacolo invisibile e senza forma dell’intero divenire). Successivamente, in basso, al centro del Templum in terris individuato dall’Augure, dove si sarebbero incrociati i due assi orientati e dove sarebbe stato infisso sul terreno il cippo con Decussis (la croce incisa su pietra secondo i punti cardinali), si sarebbe posizionato l’auspicante rivolto a sud, in quella che va considerata la sede inaugurationis. Quest’ultima operazione non poteva infatti coincidere fisicamente con il luogo in cui era richiesta, invece, l’ampia padronanza visuale che permettesse all’Augure di abbracciare con lo sguardo l’immagine della città futura, quale proiezione microcosmica del macrocosmo o Templum in caelo.
Quindi, se esiste una relazione di carattere topografico tra le funzioni rituali svolte sull’Arce e la descrizione sul terreno della figura della città, questa non può essere, come si è sempre creduto, da collegarsi solo ad un principio di assialità secondo le direzioni cardinali, ma va ricercata in azioni che si svolgono secondo una linea diagonale rispetto agli assi della città che parte dalla stessa Arce. Questa diagonale, a Marzabotto ha origine presso l’angolo di Nord Ovest, là dove fu insediata la sede auguationis e dove sorse l’Arce, ed è orientata in direzione Sud-Est verso quel punto in cui verrà impostata la sede inaugurationis, che coinciderà col centro topografico della città. L’esistenza di due sedi implica, infatti, che l’Augure pensi ritualmente uno spazio, cioè lo sacralizzi, e lo proietti sul terreno diagonalmente rispetto all’orientamento generale dell’impianto.
Ecco, dunque, la regola, sino ad allora sfuggita a tutti, che ha permesso a Gottarelli di legare la geometria della città al Templum celeste e di individuale le analogie tra la limitatio rituale di Marzabotto, il Templum augurale di Bantia e gli scavi condotti a Meggiaro di Este (PD).
L’approccio nuovo, ostracizzato da gran parte degli studiosi italiani, ma non dallo storico dell’architettura Joseph Rykvert e da Andrea Carandini, è poi arricchito dal procedimento che doveva proiettare sul terreno il Templum celeste: l’Augure concepisce e materializzava tre livelli cosmici discendenti che portano la figura dal livello celeste (che è rotonda) a quello terrestre e poi quello infero (entrambe ortogonali, cioè ad angoli retti).
Poste queste tre figure (vedi immagine 1), si concepisce un asse verticale che attraversa i tre centri delle tre figure, in evidente analogia con l’asse della rotazione cosmica, la cui proiezione sui piani è indicata dall’asse INord/Sud. Le basi concettuali di questo modello sono platoniche e implicano che la rotazione sia generatrice di separazione dei diversi livelli a partire da un centro primordiale, che è il fuoco o l’uno o il motore immobile del sistema, per passare al due, che è l’inizio del movimento generatore, transizione al molteplice. Avvenuta la separazione tra i diversi livelli cosmici, l’estensione spaziale dell’origine, o centro, definisce il concetto di Axis Mundi, quale elemento di congiunzione tra macrocosmo e microcosmo, tra Templum in caelo e Templum in terris. La proiezione ideale dell’Axis è il luogo in cui queste tre dimensioni entrano in comunicazione.
Ecco così le tre fasi del procedimento. L’Augure:
- individua e si rappresenta gli assi spaziali di orientazione del Templum solare, un cerchio (primo livello celeste);
- descrive il Templum in terris di forma quadrangolare con un sistema di proiezione diagonale (secondo livello terrestre);
- interra i cippi sugli angoli del quadrangolo così disegnato (terzo livello infero).
Il sistema rituale spiega l’enigmatico passo di Varrone che dice: “Templum è usato in tre modi, con riferimento alla natura, alla divinazione e alla similitudine: con riferimento alla natura nel cielo, alla divinazione sul suolo, alla similitudine nel sottosuolo”.
Ma quale principio connesso con un’idea di spazio/tempo, sintesi di tre livelli cosmici discendenti, deve presiedere all’azione dell’Augure tale che si possa coniugare la geometria radiale del cielo con la pianta ortogonale quadrangolare terrena?
Abbiamo visto che l’asse meridiano ed equinoziale sono determinati per via analitica. Vitruvio indica la tecnica: posizionato lo gnomone qualche ora prima della levata massima del sole a mezzogiorno, gli si traccia intorno una circonferenza con raggio pari la lunghezza dell’ombra. Segnato il punto in cui l’ombra tocca la circonferenza, si aspetta qualche ora, e l’ombra si accorcia verso Est. Superato il mezzogiorno l’ombra comincia ad allungarsi di nuovo; nell’stante in cui ritocca la circonferenza, si segna il secondo punto; tirando una corda tra i due punti avremo l’asse Est/Ovest, la retta che collega il punto mediano della corda con la base dello gnomone sarà invece l’asse Nord/Sud, l’Axis Mundi.
Ma questo ancora non basta all’Augure per congiungere, dalla sua posizione in Arce, gli assi ortogonali al cerchio del cielo. Per farlo occorre riconsiderare il significato degli assi Est/Ovest. Nell’introduzione al suo Trattato Igino di Gromatico afferma che l’origine della fissazione dei confini è di origine divina e la procedura è immutabile in quanto i decumani sono paralleli al corso del sole e i cardini hanno la stessa direzione dell’asse celeste. Plinio afferma che decumanus deriva dall’analogia con decem. La frase è, apparentemente, priva di senso perché il decumano è asse Est/Ovest. Ma se il decumano massimo è uno solo, perché uno è l’asse di rotazione cosmica, di decumani “semplici” ce ne possono essere tanti quanti la metà dei giorni dell’anno e due di essi sono molto significativi: si tratta dei due estremi delle levate e dei tramonti del sole nell’anno, i due punti solstiziali. Quindi, nella città fondata a immagine dell’ordine cosmico, all’unica linea a Nord/Sud (il cardo maximo) dovevano corrispondere tre decumani: uno a Sud, riferito al solstizio d’inverno, uno al centro, riferito agli equinozi, uno a Nord, riferito al solstizio d’estate. Se ora le tre linee Est/Ovest si mettono in relazione con i principali punti di levata e tramonto del sole sull’orizzonte nell’arco dell’anno, possiamo individuare le due diagonali del Templum celeste. Ecco allora il decem, la X di Plinio, dove le quattro stazioni solstiziali, punti estremi della X, sono: Alba solstizio d’inverno (ASI), Tramonto solstizio d’inverno (TSI), Alba solstizio d’estate (ASE), Tramonto solstizio d’estate (TSE).
Già Platone, in un noto ed enigmatico passo del Timeo, indicava la X come formula del principio costitutivo della dimensione spaziale: “Pertanto, divisa in due nel senso della lunghezza tutta questa composizione e adattata l’una parte sull’altra nella loro metà in forma di una X, le piegò in giro nello stesso punto, collegando ciascuna con se stessa e con l’altra dirimpetto alla loro intersezione e v’impresse un movimento di rotazione uniforme nel medesimo spazio e l’uno dei circoli lo fece interiore, l’altro esteriore (Timeo, 36, b-c)”. Il senso di questa affermazione ricorda proprio le ipotesi del Gottarelli sul significato delle due diagonali nella figura del Templum solare e la possibilità che in queste sia contenuto il principio unificante delle diverse sue rappresentazioni cosmiche. Quindi, solo concependo tre decumani e un cardo maximi, l’Augure, dal Templum solare a forma di cerchio, elabora e materializza un Templum in terris quadrangolare, in cui i quattro vertici della X sono i 4 gli angoli, mentre l’intersezione è l’Axis Mundi.
Non sfuggirà – e veniamo qui all’essenza della Romanità trasfusa nella tecnica augurale, che si distacca dalla Disciplina etrusca per assumere vita propria – che questa è la mitica quadratura del cerchio. E’ un atto riconducibile a tecniche che a Roma avevano anche a che fare con la magia, con il rapporto intercorrente tra i quattro elementi della fisica e i tre stadi citati del mondo (morte/divenire/essere), giacché il cerchio è sempre rappresentabile anche dal triangolo, e soprattutto con l’ermetismo: Venere/Cerchio e Marte/Quadrato. E qui ci soccorre ancora una intuizione di Giandomenico Casalino che, nel suo “Il Nome segreto di Roma”, nel dimostrare che fuori dalla Tradizione classica e romana non vi è Tradizione ermetica, individua la dimensione esoterica della Romanità nella dottrina alchemica culminante proprio nella quadratura del cerchio. “Il cerchio – scrive Casalino – rappresenta il tutto, la forza allo stato caotico, ma anche la ruota del destino, mentre il punto nel cerchio, ottenuto attraverso la sua quadratura, è la forza che avvinta è fissata, è l’asse della ruota, è il caos trasformato in cosmo, E’ Marte/Roma che domina, possiede e fissa le acque, ossia Venere/Amor, la sua sposa. L’atto divinatorio rituale dell’Augure rievoca tutto questo: quando interviene ritualmente nell’atmosfera, nel sottile, nell’invisibile, sacralizza e riverbera nel fenomenico visibile la Forma urbis. La potenza della parola pronunciata dall’Augure , dunque, crea, letteralmente, mediante la pronuncia delle formule rituali, trasmesse dalla Tradizione, sia il Templum in aere che il Templum in terris, le parole sono, pertanto, “parole di potenza” capaci di incidere lo spazio e modificarne la natura, imprimendo nello stesso la Forma, il Sacro quale sigillo, come ci chiarisce Varrone in questo straordinario passo (De Lingua Latina, VI, 53): “da qui [ossia dal verbo fari di cui sta parlando] deriva il termine effata riferito alle parole con le quali gli Auguri hanno definito (sunt effati) i limiti dei campi fuori dalla città per l’osservazione degli auspici celesti. Da qui deriva l’espressione effari templa, poiché gli Auguri ne definiscono i confini per mezzo della parola (effantur) “.
“Tutto ciò evidenzia – conclude Casalino – che, in virtù di quelle “parole di potenza” di natura magica, i confini del Templum iniziano e sono già nella realtà fisica, in forza della pronuncia di quelle parole rituali, ben prima della loro delimitazione materiale che così è, in evidenza, una semplice “adesione” tecnica ad una realtà che è già stata “creata” (magicamente); i confini , pertanto, sono immediatamente nella materialità nel momento (istante) in cui vengono effati, cioè “dichiarati” dall’Augure con parole precise (conceptis verbis). L’effari è, quindi, un “parlare”, come in tutta la ritualità giuridico-religiosa romana che “crea”, “cinge”, “chiude” e “confina” nel noumenico affinché ciò si riverberi istantaneamente nel fenomenico, che viene così ad essere l’immagine del Cielo. Ecco dunque il Mandala, la quadratura del cerchio, dove il quadrato imposto nel fenomenico, il duro, lo spigoloso, diviene sinonimo di virilità e Romanità – anche a livello architettonico”.
Parimenti sorprendenti sono i collegamenti evocati da questo modello: le relazioni tra Umbilicus e Mundus, il rapporto tra solco primigenio, Pomerium e Roma quadrata, la coincidenza coi tre nomi dell’Urbe, il celeste Amor, l’infero palindromo Roma e il terrestre segreto Flora.
Non solo. Come bene intuisce anche Rykvert, il rito di fondazione rimanda anche al principio cosmogonico ed alla rievocazione drammatica della creazione del mondo, “che va compresa solo se riferita a una concezione qualitativa del tempo entro cui le diverse fasi esistenziali della nascita, della culminazione e della morte entrano in analogia con i grandi cicli temporali delle dimensione cosmica”. Non ultimo è momento fondativo della Pax Deorum hominumque.
Da ciò consegue che a Roma:
a) l’azione di fondazione viene “incorporata” nella Forma urbis, nella pianta dell’insediamento urbano e, successivamente, negli ordinamenti sociali e religiosi;
b) l’insediamento avviene mediante il parallelismo fra gli assi della pianta urbana e quelli dell’universo;
c) la cosmogonia di fondazione viene poi ripetuta nelle feste periodiche del Calendario romano e pietrificata nei (futuri) monumenti cittadini.
Volendo, dunque, impostare su queste basi il paradigma dell’inaugurazione rituale, è ora necessario soffermarsi anche su altri significati assegnati ai momenti dell’azione stessa.
L’alba e la nascita del nuovo giorno sono momenti carichi di significati rituali: la capacità di cogliere i segni rivelatori della volontà divina viene così collegata all’istante in cui l’astro solare solca, sull’orizzonte, la linea d’intersezione tra il cielo, la terra e il mondo infero. “L’istante in cui il sole tocca tutti e tre i mondi, il cielo, la terra e gl’inferi, nel quale cioè le tre dimensioni entrano in comunicazione – scrive Gottarelli – è una condizione di varco di soglia, di terra di nessuno in cui tutto si stringe in un abbraccio ed avviene il miracolo dell’unione dei Mondi in cui si aprono in terra i cancelli del cielo”.
L’Augure, dunque delimita l’area di fondazione nell’esatto tempo che intercorre tra la comparsa sull’orizzonte del disco solare e il suo completo passaggio nel cielo: la posizione del sole, infatti, va “fissata” sul terreno, consacrandolo, quando questo, uscendo sull’orizzonte dal “mondo dei morti” (il sottoterra) non è ancora passato completamente nel “mondo dell’essere e dell’immutabilità” (il cielo), ma è sospeso nello stadio intermedio, corrispondente al nostro mondo dei vivi, cioè al “mondo del divenire”. Questo è l’attimo fuggente da cogliere.
La nuova fondazione della città configurata sulle linee di questa figura, sorge così sotto l’auspicio del perpetrarsi dell’unione con gli Dei: “Oh Giove, assistimi mentre fondo la città, e tu padre Marte e tu madre Vesta, osservatemi tutti o dei che è pio invocare. Sotto il vostro auspicio abbia inizio questa mia opera. Abbia essa una lunga età e il potere sul mondo domato e sia sotto di lei il giorno che nasce e che tramonta” (Ovidio, Fasti, IV, 825-30).
Ora però, riepiloghiamo il procedimento nella sua completezza (con l’aiuto dell’immagine 2)
L’Augure o il fondatore (o entrambi) si dispone in Arce sul punto alto d’osservazione detto sede augurationis, posto a in direzione del punto di stazione TSE – Tramonto del solstizio d’estate, e guardan in basso, in lontananza, verso il punto di stazione ASI – Alba del solstizio d’inverno, cioè verso l’area da fondare, a Est (ovviamente le zone non sono tutte uguali e per fondare occorre correggere il Templum solare, partendo dalla sua forma simbolica e generalizzata a 55°45’51’’ di longitudine). Sull’Arce, con l’ausilio del lituo, l’Augure traguarda (guarda attraverso) l’orizzonte delimitando un’area circolare di visuale e, ben attento a non “bucare” i sopracitati tempi, delimita il perimetro del nascente spazio urbano dal suo alto osservatorio (punto di stazione TSE), scoccando (o facendo scoccare) una freccia a colpire il punto del terreno più lontano che sia possibile raggiungere in direzione del citato spicchio di disco solare rinascente sospeso tra i tre mondi (punto di stazione ASI). Dopodiché calcola, tendendo virtualmente un grande elastico, il diametro del cerchio solare virtuale (Templum solare) tra il punto di lancio e il punto raggiunto dal giavellotto, specchiando così la nuova città nel cielo e fondendola con esso.
Fatto questo l’auguratio è terminata ed inizia l’inauguratio.
L’Augure scende, o manda qualcuno, dal suo punto d’osservazione a disporsi nel punto di stazione a metà del diametro precedentemente teso: in quel punto esatto del terreno, il Decussis, stabilisce che sia posto l’Umbilicus Urbis, il centro del Templum in Terris, e vi seppellisce la pietra incisa e le primizie. Da questa posizione, denominata “sede inaugurationis”, si rivolge questa volta a Sud e calcola, secondo la tecnica che abbiamo descritto dello gnomone, la linea del cardo (Nord/Sud) e del decumano (Est/Ovest). Rimanendo nella stessa posizione attende la sera; all’imbrunire, mirando il punto di tramonto del sole sull’orizzonte, cioè la stazione TSI – Tramonto solstizio inverno, individua la direzione della seconda diagonale. Si sposta poi nel punto di stazione ASI, già stabilito in precedenza dall’Arce, e individua nuovamente le direzioni cardinali in direzione nord e ovest fissando definitivamente i vertici ASI e TSI sulla linea delle due diagonali. Noterete che qui si definisce la X più volte citata. Completa, infine, la limitatio urbana fissando le ulteriori intersezioni del parallelogramma; traccia quindi gli assi principali della forma urbana il cardo e i tre decumani (equinoziale, solstiziale invernale e solstiziale estivo), delimitandoli con cippi interrati e/o pietre terminali agli angoli. Dopodiché l’area è pronta per tracciare il pomerium, cioè il limite continuo e quadrato entro cui poi edificare la nuova città.
Ecco i passaggi importanti del rito – a prescindere dalla circostanza che gran parte dei partecipanti non sono consapevoli:
1) Annuncio che il rito di fondazione si effettua in un giorno stabilito;
2) Salita su luogo elevato con ampia visione sull’orizzonte e sul piano di fondazione;
3) Passaggio dalla notte al giorno nell’attesa dell’alba;
4) Attenzione verso un preciso punto dell’orizzonte;
5) Fissazione su quel punto di un orientamento.
Anche le fonti antiquarie risultano tutte coerenti con questo percorso.
Utile a questo punto è il confronto con le fonti sulla fondazione di Roma.
Una prima concordanza riguarda la condizione iniziale per lo svolgimento del rito, lo stanziamento in un luogo elevato prima dell’alba. Ennio scrive che Remo e Romolo attendono gli auspici in monte. Ugualmente abbiamo visto che Numa viene fatto salire sulla cittadella sacra, l’Auguraculum sull’Arx, luogo sopraelevato del Campidoglio sul quale, secondo Varrone e Festo, si terminavano tutte le cerimonie e le processioni. L’Auguraculum è un’area quadrangolare, limitata originariamente da alberi, divisa in senso longitudinale da una linea mediana prolungata idealmente fino all’infinito (secondo Varrone l’asse Lo della spectio augurale correva verso il Monte Albano).
Altra concordanza riguarda sull’attesa del segnale all’orizzonte oggetto del’attenzione dei partecipanti alla contesa, Romolo e Remo: “Ed ecco la fulgida luce riappare raggiante, spinta fuori dal cielo e nello stesso tempo, lontano, dall’alto, volò un uccello bellissimo, di buon augurio, da sinistra (Cicerone, Div, I, 108). “Appena sorge l’aureo sole, scendono dal cielo dodici corpi sacri di uccelli, si posano su luoghi fausti e bene auguranti” (Ennio, Annali, I, 85). L’istante atteso è dunque effettivamente quello dell’alba in cui i tre mondi si parlano da vicini. Inoltre è evidente anche l’orientamento di Romolo e Remo, entrambi rivolti al sorgere del sole, a conferma delle premesse.
Altra concordanza proviene da Dionigi di Alicarnasso quando ricorda che Romolo si accinse a preannunciare il giorno in cui avrebbe preso gli auspici (Dionigi H. II, 5.1).
Le operazioni di fissazione dell’area da inaugurare con il lituo avvengono prima della presa degli auspici all’alba, compiendo quella comunione cielo terra che divenne poi l’oggetto della con-templatio dei successivi segni all’alba. E qui con le fonti torniamo a Numa, quando l’Augure delimita lo spazio prima di chiedere i segni.
Altre fonti ci soccorrono circa la successiva discesa dall’Arce, il passaggio cioè dal primo al secondo punto di stazione sull’area da inaugurare, la fissazione del Decussis e dell’Umbilucus, l’individuazione del cardo e dei tre decumani e la quadratura del cerchio.
Si narra, infatti, che Romolo, ottenuto l’auspicio favorevole – il colle Palatino è dunque il Templum in terris, inauguratus, terra sacra – offre il sacrificio, riceve dalle famiglie dell’abitato le offerte di terra e primizie e scava una fossa circolare (Mundus) davanti alla sua capanna (poi la Regia) e vi getta le primizie e un pugno di terra cui era simbolicamente legata l’anima degli avi, dando così inizio alla possente nuova vita della Terra Patrum, della Patria, ossia della terra cui sarà legato il destino della razza. E’ questo il rito che realizza l’eternità dell’Urbe. Poi, quasi a unificare le parti, edifica un’ara e accende un fuoco (culto di Vesta). Romolo pronuncia ritualmente il nome dell’Urbs: quello essoterico (noto a tutti) Roma, quello sacro e celeste, Amor e quello esoterico (segreto). In seguito traccia personalmente il solco primigenio, avendo a riferimento il pomerium quadrato in precedenza individuato (a abbiamo visto come), con un aratro trainato da un toro bianco all’esterno (la forza), e da una vacca bianca all’interno (la fecondità), muovendo da Nord Ovest a Sud Ovest, in senso antiorario. Alza il vomere solo per creare spazio alle porte della città (il solco quindi è spezzato, diversamente dal sacro pomerium, che è continuo). Finito il solco, i suoi uomini impastano la terra rovesciata dal vomere abbozzando un terrapieno, ove poi erigere le mura.
Piace anche ricordare che, secondo autori come Nicola Iannelli (“Sator”) e Pietro Meogrossi (Sovrintendenza Speciale di Roma) esistono anche alienamenti stellari significativi alla data del 21 aprile del 753 che potrebbero aver favorito gli auspici. Secondo il primo, a Roma, nel giorno presunto della fondazione, la stella Arturo sorgeva a Nord-Est, consegnando a Romolo l’auspicio fausto: Arturo è l’astro più luminoso della costellazione del Bootes, l’aratore, il Sator, la proiezione celeste di Fauno, che possiamo individuare in cielo in coda alle stelle del Grande carro o Aratro (che i Romani chiamavano Septem triones, i sette buoi, da cui il nostro Settentrione). Per Meogrossi, invece, l’auspicio favorevole sarebbe stato rappresentato dall’allineamento, nel cielo del 21 aprile, dell’Axis Palilie (le Palilia erano la festa della fecondità degli ovini celebrata il 21 aprile) un allineamento di sette pianeti che attraversa il futuro Colosseo, il Sacello di Streniae (all’estremo della Via Sacra), scorre accanto al tempio di Giove Statore (scomparso, appena oltre l’arco di Tito), arriva al cortile ottagonale (sotto cui sostiene esserci il Mundus), passa per la Domus Flavia e finisce al tempio di Apollo.
Insomma, comunque sia andata con le stelle, tutto questo complesso rituale descritto da diverse angolature ci spiega perché Roma, a detta di Ennio, viene fondata con «augusto augurio» e contiene, i motivi fondamentali che daranno senso d’eternità alla stirpe, alla città e al suo imperio. E’ dunque l’aspetto cerimoniale di una tecnica segreta mirante ad aggiogare gli eventi secondo un’unica direzione, quella dell’Urbe nascente. È l’iniziale vittoria di Roma sul fato, per un ciclo nuovo dell’Occidente. Tale sarà da allora il significato del Dies Natalis Urbis Romae. La fondazione di Roma è dunque un atto costruttivo che muove da un ordine di interiore necessità, causa di cause, punto di partenza di un organismo futuro. È un seme nel seno della terra che continere la forza della generazione.
E questo seme è deposto nel Mundus.
Ma cosa rappresenta dunque il Mundus?
Il Mundus, come noto è il Templum sub terris, consacrato agli dei inferi (Dis Pater, Mater Larum, Lares). Dovremmo ora chiederci se è “altro” rispetto all’Umbilicus, al centro/Decussis del Templum in terris appena inaugurato. A Marzabotto, ad esempio, il Mundus è nella prima sede rituale, cioè in Arce poiché è lì che si svolgono i riti augurali connessi alla divinità celesti ed infere. Quindi l’Umbilicus – che è il centro dei due assi ortogonali della città quadrata, diviene una trasposizione concettuale del Mundus, in proiezione sulla diagonale. La fossa del Mundus si connota così come il luogo in cui la dimensione infera e quella celeste entrano in contatto con quella terrestre, mentre il Decussis/Umbiliicus rappresenta una sorta di Mundus geometrico della figura urbana, l’Axis Mundi, che collega le diverse dimensioni della sfera cosmica.
E a Roma? Forse non sapremo mai, scrive Rykvert, in quale punto Romolo abbia scavato il suo Mundus, ma esso era connesso con il Decussis del cardo e del decumano massimi, anche se non è dato stabilire se si trovasse esattamente al suo incrocio (sappiamo però che quasi tutti gli archeologi lo collocano nei Fori, ad Est del Volcanal, accanto all’ara di Saturno).
Al di là dell’ubicazione coincidente o meno con l’Umbilicus, è però illuminante l’interpretazione che ne dà Scaligero nel suo “La razza di Roma”. “Nel rito del Mundus – scrive – si realizza il principio della eternità dell’Urbe, in quanto lo spirito si traduce in azione, in realtà gerarchica … È essenzialmente un’arte iniziatica: questa piccola fossa circolare, scavata da Romolo, accoglie un pugno di terra che egli ha recato con sé da Alba e accoglie la zolla che ciascuno dei suoi compagni ha recato dalla terra nella quale ardeva prima il fuoco sacro, cui era legata l’anima dei loro Manes. È dunque terra intrisa di forze, di anima di razze, la terra cui è attaccata la dinamica del Genius loci, dello spirito della stirpe. Non è poesia. È la creazione di un possente condensatore di forze adunate secondo un procedimento la cui modalità è ignorata dai molti, così come il nome segreto della città, il Nomen sacrum, la parola seminale, il Logos spermaticòs, il verbo segreto che corrisponde alla virtù del nume della città. La stessa forza del rito promuove un nuovo legame tra anima e materia, tra lo spirito e il suolo prescelto per la fondazione. Il Mundus è dunque un luogo sacro, il punto centrale in cui il fato viene per forza rituale vincolato alla terra: l’aspetto spaziale del divenire è dunque dominato e avvinto per virtù di una vicenda che contiene in sé già il superamento del tempo (e qui potremmo tornare alle lezioni di Casalino): se alla terra – continua Scaligero – è legata la forza dello spirito e se lo spirito dell’avo divinizzato è immortale, la terra s’impregna di una virtù metafisica, diviene centro mistico d’eternità. Mundus significa, nell’antica lingua esoterica, la regione dei Mani, moundos (Plutarco, Festo, Servio); e poiché il culto dei Mani è ininterrotto grazie all’ardere della sacra fiamma innanzi al larario domestico, si chiarifica anche il senso del fuoco. Sulla fossa fatidica si accende il sacro fuoco della città, che sarà il fuoco di Vesta perennemente acceso nel tempio: esso non sarà un elemento della natura divinizzato, come la critica storica ha sempre creduto, ma rappresenterà il simbolo terrestre di una forza divina a cui, nel piano celeste, sempre simbolicamente, corrisponderà il sole e, nel senso della fisiologia umana, il cuore, sede dell’intelligenza superumana secondo l’antico spiritualismo (Cicerone, Plotino, Giamblico, Giuliano Imperatore). Così, come nel cuore dell’eroe e dell’asceta arde una perenne fiamma di divinità, nell’interno del tempio arderà il fuoco di Vesta. Ma chi per primo in Roma accende questo fuoco? Romolo.
Egli dunque è il fondatore, ma è anche il Lare primigenio della città, il capostipite spirituale della razza romana: ed essendo già divino nella vita umana, la sua morte non sarà che una ricongiunzione con il piano divino. E dunque l’elemento divino costituente parte essenziale della nascita di Roma non è che l’aspetto religioso di un dominio degli eventi ottenuto attraverso il possesso di energie trascendenti. E poiché tale sapienza metafisica con Roma tende a tradursi in organicità civile e guerriera, si può senz’altro affermare che con la fondazione di Roma si è iniziato il ciclo che costruirà l’Impero, si è preparato l’avvento dello spirito gerarchico, segnando la nuova aurora del nostro Occidente”.
Paolo Casolari
Intervento al convegno organizzato da Ereticamente e Il Cervo Bianco, in collaborazione col Movimento Tradizionale Romano, “Le Vie al Sacro della Tradizione Classica”- 8 novembre 2014, Galleria delle Arti “l’Universale”, Roma