Verso il misticismo Neoplatonico: un percorso filosofico (I)
Non mi ricordo per quali vie abbia conosciuto la Teologia Platonica di Proclo. Mi trovai con quel corposo volume forse per caso, forse per destino, o forse per la volontà di qualche demone. Leggendo una dopo l’altra le pagine del tomo mi meravigliai di fronte a una mirabile costruzione logica che mi svelava la grande metafisica divina, rivelando aspetti filosofici di ogni divinità del mondo classico nell’ambito della mistica neoplatonica. Era un sapere antico che mi rapiva e mi inebriava, come il vino buono. Purtroppo, dopo la lettura, ebbi anche la sensazione dei postumi di una sbronza: amnesia, confusione, poca chiarezza. Che cosa era successo?
Ammettiamolo una volta per tutte, i testi di Proclo e compagnia non si prestano generalmente a una lettura serale e rilassante. Mentre i dialoghi di Platone ci conducono dolcemente per mano al cuore del pensiero attraverso i dialoghi, gli scritti neoplatonici abbondano di termini astrusi come “sostanza”, “partecipazione”, “potenza”, “caratteristica”, “causa formale”, rendendo la lettura quantomeno ostica ai non addetti ai lavori. La difficoltà cresce anche per la presenza di parole che nel mondo odierno sono usate in contesti differenti. Per esempio se si interpreta la “potenza” di Proclo con la definizione della fisica moderna, ossia come la “capacità di un sistema di compiere un lavoro” (fisica), travisiamo l’intero discorso. Non si tratta quindi di essere pedanti, ma di usare la corretta definizione e di comprendere a fondo ogni singolo termine. Solo così si può gustare l’immensa costruzione logica delle grandi menti di Plotino, Porfirio, Giamblico, Proclo e Damascio.
Il neoplatonismo in realtà è la sintesi di secoli e secoli di ricerca di pensiero svoltasi dalla Siria a Roma, dalla Fenicia all’Egitto, divenendo il sommo compendio filosofico di tutto il mondo antico. Per questo motivo il suo vocabolario ed i suoi concetti richiedono preparazione. Per fare un parallelismo matematico, studiare Proclo senza conoscere le “puntate precedenti” è come cercare di risolvere gli integrali senza sapere le tabelline.
Avendo compreso la lezione, mi accingo a compiere una riflessione sulla filosofia classica, con semplicità ed umiltà, proponendomi di individuare i grandi temi che sono utili nella comprensione della metafisica neoplatonica. L’impresa è ardua, le mie conoscenze filosofiche sono inadeguate, ma spero di riuscire a svolgere la matassa passo dopo passo. Se mi volete accompagnare, sarà un piacere avervi accanto come compagni di cammino. Premetto comunque che si tratta di una divulgazione sommaria e non approfondita, probabilmente inutile per chi conosce già bene la filosofia neoplatonica: il lieve pendio del mio sentiero potrebbe far annoiare uno scalatore esperto.
TUTTO CAMBIA? NIENTE CAMBIA?
Il neoplatonismo è popolato di mondi, strati di realtà, l’uno sopra l’altro, disposti in verticale. Com’è nata questa visione? Qual è stato il primo strato?
Prima di Platone, due grandi filosofi presentarono posizioni apparentemente inconciliabili.
Eraclito di Efeso, il filosofo dal linguaggio oscuro, che visse tra il VI e il V secolo a.e.v e che dimorò nel meraviglioso santuario della dea Artemis a Efeso, e che studiando la natura ne osservò l’eterno mutamento e divenire. Celebre è la sua frase: “Non si può discendere due volte nel medesimo fiume”. L’acqua scorre e viene costantemente rimpiazzata, così come tutta la realtà: tutto scorre come un fiume (πάντα ῥεῖ ὡς ποταμός).
Eraclito estrapolò il valore delle sue osservazioni (tutto cambia) e lo promosse a principio cosmologico. In realtà non si tratta di una pura osservazione ma di una vera e propria estrapolazione poiché per le conoscenze del tempo c’erano esempi in natura di oggetti che non seguivano questa regola, come per esempio le costellazioni nel cielo che, nell’arco di una vita umana, sono fisse. È paradossalmente più facile supportare il principio di Eraclito ai nostri giorni che in passato, giacché oggi grazie alla scienza identifichiamo cambiamenti su scale temporali molto vaste rispetto alla durata della nostra vita, su ere geologiche o su scala cosmologica (miliardi di anni). Il Sole stesso, un tempo simbolo di unicità e eternità per eccellenza, oggi si è rivelato seguire un processo evolutivo tipico di una stella con nascita, vita e morte.
La valenza dell’affermazione di Eraclito vale anche dal punto di vista psicologico: tutti siamo consapevoli dell’eterna evoluzione della realtà. Anche le nostre cellule, il nostro pensiero, il nostro “io”: tutto evolve. Sembra una verità banale, ma se considero tutti i cambiamenti della mia vita rispetto a quando ero bambino, comprendo che tanta gente è scomparsa, gente nuova è apparsa, i nonni non ci sono più, ma adesso ci sono figli e nipoti. Ho cambiato idee, mode, opinioni, fisico, aspetto. La realtà è cangiante e secondo Eraclito è il risultato di una perpetua lotta di forze contrarie. Si tratta di un eterno divenire. Facciamocene una ragione ed accettiamolo.
Eraclito dunque non afferma una banalità, ma estrapolando le sue osservazioni identifica un principio cosmologico universale valido ancora oggi. La realtà è divenire.
Negli stessi anni un contemporaneo di Eraclito entrò in polemica con la concezione filosofica appena esposta, presentando un approccio totalmente differente: Parmenide di Elea. Ben prima di Eraclito la scuola di Mileto, con i suoi illustri esponenti Talete, Anassimene e Anassimandro, aveva investigato la natura per cercare un principio (ἀρχή) di tutte le cose, una sostanza fondamento di ogni cosa al di là dell’apparenza (sostanza, ossia ciò che veramente sta sotto ogni cosa, sub-sto, substantia, in greco ὑποκείμενον), una causa immobile di fronte a un cambiamento apparente delle cose. Per esempio Talete proponeva che l’acqua non fosse solo la sostanza dei mari, del ghiaccio e del vapore, ma che fosse la sostanza di tutto il cosmo, ossia che ogni cosa alla fine fosse riconducibile all’acqua.
Similmente Parmenide accetta un unico principio, in opposizione alla molteplicità di principi contrastanti di Eraclito, ma anche in opposizione con la scuola di Pitagora che immaginava come principio la pluralità dei numeri. Il principio unico di Parmenide non è una sostanza identificata dall’osservazione dei fenomeni naturali, ma nasce da una riflessione mentale, logica. Osserviamo nel mondo, in effetti, una grande diversità, ma ogni oggetto osservato ha in comune il fatto di essere, ossia di esistere, e come tale di essere pensato. Una mela è. Un tavolo è. Una nuvola è. Il comune denominatore risulta nel fatto che tutto “è”, “esiste”, o comunque “si può pensare”.
Parmenide è quindi il primo filosofo dell’essere, un “ontologo” (da τὸ ὄν, “ciò che è” o “essere”), ossia un filosofo che studia “l’essere in quanto essere”, e fa compiere alla filosofia un balzo in avanti verso l’astrazione. Il metodo filosofico di Parmenide quindi è per quel tempo completamente innovativo. Prima egli definisce logicamente il termine “essere” e poi attraverso una serie di deduzioni (con un grande uso della dimostrazione per assurdo) giunge a nuove conclusioni. Le quali possono anche essere in piena contraddizione con l’esperienza empirica. Con il metodo deduttivo separa nettamente la logica dell’“essere” da quella del “non essere”, nel senso che un ente o è o non è, senza possibilità di una posizione intermedia. Il filosofo, attraverso il ragionamento, giunge a formulare le proprietà dell’essere: l’essere è immutabile, immobile, indivisibile e unico.
Per fare un esempio sul tipo di ragionamento applicato, meditiamo sulla mutabilità o immutabilità dell’essere. Se immaginassimo che l’essere sia mutabile, ad un certo punto potremmo affermare che adesso l’essere è ciò che non era prima, e prima era ciò che non è adesso. Così gli si attribuirebbe sia la caratteristica di essere che quella di non essere, in violazione della disgiunzione assoluta tra i due stati. Quindi affermare che l’essere sia mutabile porterebbe an un assurdo. L’essere quindi è immutabile.
I sensi dunque passano in secondo piano rispetto alla verità logica, mostrandoci non la verità delle cose, ma offrendoci solo i mezzi per maturare un’opinione (δόξα), generalmente illusoria. Il divenire quindi è illusorio, così come la finitezza della nostra vita e la morte stessa. La verità risiede nell’eternità dell’essere, non nell’illusione del cambiamento.
Questo approccio non è lontano da quanto proposto dal buddhismo, e quindi possiamo affermare che ci sono oggi milioni di persone che troverebbero questa filosofia corretta.
Platone, tra il V e il IV secolo a.e.v. si trova quindi in una situazione critica. Da una parte una filosofia del puro divenire, quasi una filosofia del caos ante litteram. Dall’altra lo spiraglio dell’identificazione di un principio certo, un punto di riferimento, che se accettato fa interpretare l’intero mondo fenomenico come una fata morgana, un miraggio su cui è inutile perdere tempo.
Platone arriva alla soluzione per gradi, confutando un’opinione dei sofisti, i quali sostenevano che la ricerca della conoscenza non sia un percorso viabile in quanto:
- Se già si conosce l’oggetto che si sta cercando, ogni ricerca sarebbe inutile;
- Se invece non si conosce l’oggetto che si sta cercando, anche se lo si trovasse non lo si riconoscerebbe e quindi la ricerca sarebbe comunque inutile.
Platone confuta questa teoria con la teoria dell’anamnesi. Accettando la dottrina dell’immortalità e della reincarnazione delle anime (metempsicosi) procedente dalla religione orfica e condivisa anche dalla scuola pitagorica, afferma che gli oggetti di ricerca sono già conosciuti dall’anima immortale prima della nascita, e durante la vita il soggetto riconosce gli oggetti “dimenticati” riscoprendoli nelle profondità della propria anima.
La diatriba è di tipo gnoseologico, ossia riguarda la conoscenza, ma si trova ad avere riflessi importanti anche nell’ontologia. Infatti, nel processo cognitivo, la nostra anima ci fa ricordare forme (o idee) che sono incorruttibili, eterne, immutabili, ossia che sono molto più affini all’essere parmenideo che ai fenomeni del mondo delle percezioni. Queste forme rappresentano la verità assoluta, il bene assoluto, il bello assoluto. Come ha fatto la nostra anima ad apprendere le forme?
Quando l’anima è libera dalla gravità del corpo, quindi prima di incarnarsi, vola sopra la volta celeste, ossia nel mondo iperuranio (letteralmente “sopra il cielo”), dove dimorano le forme. Una volta incarnata, l’anima diventa prigioniera del corpo sensibile e delle percezioni, ma il ricordo delle forme le fornisce un abecedario per la conoscenza. Vedo un albero (uno in particolare, quello sotto casa mia, alto e frondoso, piegato leggermente verso est) e attraverso l’anamnesi riconosco che è un albero grazie al ricordo che ho della forma “albero” stampata nella mia anima.
Ma le forme non sono solo un alfabeto per le anime, ma sono la base con cui il mondo può essere. Un mondo sensoriale che quindi non è completamente illusorio, in quanto esso riflette in maniera temporanea e imperfetta l’eterna perfezione delle forme e ci serve da stimolo per ricordare le forme stesse, innate dentro di noi. Il mondo sensibile ci permette di costruire una conoscenza imperfetta basata sul ricordo delle forme, che comunque sono direttamente irraggiungibili in quanto dimorano nell’iperuranio.
In altre parole Platone combina ed armonizza il pensiero di Eraclito e Parmenide quando afferma – d’accordo con Eraclito – che nel mondo fisico non c’è un principio primo come quello ricercato dai filosofi milesi, ma tutto scorre in eterno divenire; tuttavia la realtà fenomenologica riflette forme atemporali preesistenti. La materia non si aggrega a caso per formare un gatto, ma deve seguire una forma di “gatto” prestabilita, una forma perfetta nel mondo spirituale dell’essere.
In questa maniera la molteplicità dei fenomeni del mondo materiale non è pura illusione ma è ricondotta alle forme dimoranti nell’essere. Ciò che vediamo nel mondo materiale sono molteplici imitazioni imperfette delle forme perfette. Queste ultime non possono essere viste con gli occhi o sperimentate con i sensi, ma si possono scorgere con l’intelletto.
Con Platone si delinea quindi il primo piano del della verticalità che poi si incontrerà nel neoplatonismo, con la materia al piano inferiore e le forme nel piano superiore, quello dell’essere, ed una fitta relazione tra i due mondi.
In estrema sintesi, il primo passo verso la cosmologia neoplatonica avviene quando Platone, superando la contrapposizione tra il divenire di Eraclito e l’essere statico di Parmenide, concepisce la teoria delle forme, legando e sottomettendo così il mondo sensibile alle idee eterne. Vedremo prossimamente come Aristotele, discepolo di Platone, cerca di risolvere alcuni problemi insiti in questa concezione.
Mario Basile