Nel mese di marzo durante la quaresima, di quelle serie, fatte di privazione di cibo e preghiera, il fanatismo religioso colpì senza remora le carni bianche e delicate di una donna colta e famosa, chiamata Ipazia. Siamo nel 415 d.C in una Alessandria cristiana, megalopoli dell’Egitto tardoantico che, per statura culturale, politica ed economica dominava le città della valle del Nilo.
Ipazia era la figlia del filosofo Teone, che educando la sua erede come si conviene ad un maschio aristocratico colto seppe ottenerne in cambio successi nel campo letterario e scientifico, al punto che pur donna superò tutti gli altri filosofi del suo tempo. Filostorgio nella “Storia ecclesiastica” (Hist. eccl. VIII, 9) afferma che era somma, superiore addirittura al padre nell’astronomia e Damascio per la geometria la contrappone al dotto Isidoro.
Neoplatonica per convinzione e professione si era abbeverata alla fonte culturale di Platone e Plotino e la loro filosofia spiegava ai filosofi, che da lontano arrivavano ad Alessandria per ascoltarla, tra questi il severo Sinesio, il più affezionato degli allievi.
Ad un amico di nome Ercoliano, proprio Sinesio fa merito in una epistola di avergli fatto conoscere in quella città un “miracolo che egli conosceva solo di fama, rendendolo spettatore e auditore di quella donna straordinaria che altrui apriva i misteri della vera filosofia”.
E di Ipazia e delle sue opere perdute possiamo sapere grazie anche agli scritti dell’allievo affezionato, nonostante la sua fede cristiana, convinto filosofo, pregno di neoplatonismo. Nella lettera 127 Sinesio evidenzia la fama e l’influenza che Ipazia riusciva ad esercitare su allievi e seguaci: “Se l’oblio avvolge i mortali, di là dall’Erebo — così scriveva da Tolemaide assediata dai barbari — là pure io mi ricorderò ancora d’Ipazia; poiché io me ne ricordo qui, in mezzo alle miserie della mia patria, schiacciato dalla vista dei disgraziati che soccombono, e respirando il fetore dei cadaveri ammonticchiati, nell’attesa di partecipare alla loro sorte. (Poiché chi v’è ancora che possa sperare, se l’aria stessa ci è nemica e oscurata dagli uccelli rapaci che agognano alle carogne?). Pure a questa mia terra sono inchiodato. E come nol sarei, se son Libio e di qui sono i miei maggiori, onde veggo le inclite tombe? — Per te sola, credo, oblierei anche la patria e, appena potessi, la lascerei”. Non ha assistito alla sua fine che arrivò nel 415 e che ci ha raccontato con dovizia di dettagli lo storico Socrate, coevo ai fatti, autore di una Storia ecclesiastica in cui al libro VII ( capp. 13 – 14) tratta la vicenda di Ipazia, pur scomoda.
Chiama direttamente in causa Cirillo, vescovo spregiudicato, nemico di Oreste Prefetto della città, quanto degli ebrei e dei filosofi pagani. Cirillo, secondo la fonte di Socrate, strumentalizza la morte della filosofa per far accettare la beatificazione di Ammonio, un monaco bandito, che Oreste, in seguito all’ennesima aggressione, aveva fatto arrestare e giustiziare.
Cirillo infatti provò subito a redimerne la memoria ma – precisa Socrate – «le persone equilibrate (οἱ σωφρονοῦντες), quantunque cristiane, non approvavano tale eccessivo zelo di Cirillo nei confronti di costui» (VII, 14).
Nel capitolo 15 Socrate riferisce i dettagli del linciaggio ad opera dei parabolani capeggiati dal lector Pietro: “catturata per la strada, denudata, lapidata, fatta a pezzi e bruciata”. Senza pentimento né ripensamento Cirillo con quel gesto macchiò la chiesa e non esita la nostra fonte a ricordarlo: “questo misfatto procurò non poco biasimo (οὐ μικρὸν μῶμον) a Cirillo e alla chiesa di Alessandria”. Se la fonte di Damascio può risultare tarda e di parte possiamo consultarne una terza con Filostorgio, già ricordato per i suoi elogi al sapere della donna, contemporaneo ai fatti e citato da Fozio come l’eretico, perché di confessione ariana: “L’empio a questo punto dice che, al tempo del regno di Teodosio, quella donna fu fatta a pezzi dai sostenitori della consustanzialità» (ὑπὸ τῶν τὸ ὁμοούσιον πρεσβευόντων).
Con l’espressione “sostenitori della consustanzialità” Filostorgio voleva riferirsi appunto a Cirillo e ai suoi seguaci, che presidiavano ad Alessandria la chiesa e la piazza.
La storia di Ipazia è stata a lungo studiata e se anche la fonte diretta di Socrate da una certa storiografia cristiana è stata squalificata è lei il simbolo incarnato del risultato dell’oscurantismo fanatico del cristianesimo di quel periodo.
Sul Dizionario ecclesiastico di Angelo Mercati e Augusto Pelze si legge che la morte della filosofa sia dovuta ad un linciaggio popolare in seguito alle sue avversioni provocatorie al cristianesimo fatte pubblicamente da Ipazia stessa.
Eppure il suo pensiero, la sua professione e il suo stesso cenacolo non furono un focolaio di sedizione pagana e pratiche magiche, altrimenti Sinesio stesso non avrebbe potuto accedervi.
Sono gli eccessi di un giustificazionismo che non riconosce l’atrocità commessa nei riguardi di una donna colta e avvenente, che disponeva di una cattedra retribuita grazie alla quale aveva portato la cultura ad ergersi al di sopra delle parti in causa.
La sua fama riportata dalle immagini della folla che si accalca dinanzi alla sua abitazione, le sue amicizie influenti come quella con il Prefetto Oreste nonché la sua superiore cultura che la portava a non disdegnare né temere la presenza maschile esacerbarono l’animo del cristianissimo Cirillo di una fiammata d’odio tale da indurne la morte, comprensibile solo se ci si immedesima nella logica del conflitto che concerne la città di Alessandra in quegli anni bui.
Marina Simeone