Romulus è la serie tv ideata da Matteo Rovere che in dieci puntate su Sky in novembre e dicembre 2020 ha reinterpretato il mito della nascita di Roma tra storia e leggenda (prodotta da Cattleya e Groenlandia).
Romulus è un racconto di virtù romane e di scontri di sangue, un grande affresco epico, con ricostruzione realistica, in parte anche liberamente reinterpretata, degli eventi che hanno portato alla fondazione di Roma e narra la storia di popoli (tribù) alle prese con elementi archetipici in un mondo complicato dal quale si devono salvare e nel quale cercano lo spazio della loro felicità, in coerenza col loro destino.
Romulus è un prodotto italiano, a suo modo stupefacente per contenuti e qualità delle immagini e ambientazioni.
Romulus ha il valore aggiunto, non scontato e molto suggestivo, di essere recitato in protolatino (sottotitolato) e così andrebbe visto.
Questi i pregi.
Tra i difetti Romulus sconta la primitività delle fogge di alcuni protagonisti e di certe pratiche, come già accaduto nel Primo Re, e l’occhiolino al politicamente corretto nell’attribuire due ruoli apicali, guerrieri e cultuali, a figure femminili.
Infine, Romulus non è l’antefatto de “Il Primo Re” del 2018 (vedi: https://www.saturniatellus.com/2019/02/primo-re-accende-la-luce-manca-qualcosa-roma-ce) ma è un’ambiziosa operazione industriale dove il film fa da apripista, rende noto il marchio, crea una proprietà intellettuale e fa conoscere uno stile visivo con cui raccontare quell’epoca; la serie poi lo capitalizza. È dunque un modello per il quale le serie italiane più importanti e internazionali vengono sempre dopo il grande schermo: Romanzo Criminale, Gomorra, Suburra sono figli dei rispettivi film e ambientati in una sorta di universo alternativo, non portano avanti la medesima storia della pellicola ma la riraccontano diversamente. Stupisce che il regista Matteo Rovere sia riuscito a realizzare una produzione simile, ma di natura storico-mitologico-identitaria, in Italia.
Ciò detto in premessa, per gettare subito un inquadramento.
Ma cosa ci lascia Romulus?
Al sottoscritto, al netto dei difetti che non inficiano il tutto, ha consegnato la coerenza dei personaggi a un sentire e a un volere arcano, il buon sapore di una rassegna delle virtù romane, la costante guida del divino nelle azioni dei protagonisti e nella ricerca della Pax deorum, la presenza un pantheon di divinità essenziali sostanzialmente coerenti, una simbologia tradizionale e una proposizione di usanze romano-italiche non imprestate, in gran parte accertate e, soprattutto, il tentativo di rappresentare per immagini l’essenza della Romanità.
E veniamo ora al dettaglio e ai contenuti.
Trama della serie tv
Intorno all’VIII secolo a.C. nel Lazio antico, trenta popoli facenti parte della Lega Latina erano guidati da Numitor, re di Alba Longa. Dopo un lungo periodo di siccità e carestia, la guida del re viene sottoposta al giudizio degli Dei, che ne sanciscono l’esilio. I suoi nipoti, i fratelli gemelli Yemos ed Enitos sono i suoi diretti successori, ma Amulius, fratello minore del re, spinto anche dalla sete di potere, organizza in segreto l’assassinio dei gemelli. Enitos resta ucciso dallo stesso Amulius, ma Yemos riesce a fuggire e a nascondersi nella foresta. Amulius diventa re e capo della Lega Latina dei Trenta incolpando Yemos dell’uccisione del fratello. Nella sua fuga nella foresta, Yemos si imbatte nei Luperci, giovani di Velia mandati a svernare nella foresta per dimostrare di essere uomini. Fra questi vi è un giovane schiavo di nome Wiros, che sringerà un patto di ferro con Yemos. Una tribù che vive nei boschi e che venera Rumia, la dea dei lupi, cattura Yemos e Wiros. Inizia così un loro sodalizio con la tribù. Nel frattempo, la figlia di Amulius, Ilia, exaugurata dalla condizione di vestale e diventa una guerriera, consacrando il suo destino alla vendetta della morte di Enitos che ha amato in segreto. La caccia aperta a Yemos da parte di Amulius e dei suoi alleati inizia con l’uccisione del re ribelle di Gabi si sviluppa per diverse puntate e alterne vicende sino alla cattura e allo sterminio di gran parte della tribù dei Ruminales. Da qui inizia la riscossa di Yemos, che, affiancato da Wirios e dai resti dei Ruminales, si riunisce al nonno Numitor, esiliato, e svela progressivamente ai Trenta, alleati di Amulius, la verità sull’assassinio del fratello. Il destino lo porterà sino alle porte di Alba Longa e alla resa dei conti finale, dove tuttavia non si consumerà lo scontro tra l’esercito di Amulius e quello dei trenta re, ormai capeggiati da Yemos, ma si giungerà ad una sorta di riconciliazione propiziata dall’apparente assassinio di Amulius da parte della figlia Ilia, ormai al corrente che è il padre il responsabile della morte dell’uomo che amava. L’ostilità dei Trenta ad assecondare la consacrazione di Alba Longa alla divinità ferina Rumia porterà Yemos e Wiros, ormai fratelli di destino, ad abbandonare la capitale insieme a diversi altri Latini per una nuova avventura, scritta nel fato (ma non presente nel film, quindi ci sarà un seguito): la fondazione di una città tutta loro: Roma (per approfondire in dettaglio: https://it.wikipedia.org/wiki/Episodi_di_Romulus).
Coerenza con le fonti
Ebbene, dal momento che Romulus è la trasposizione in chiave realistica del mito, sarebbe miope pretendere una adesione completa e totale ad un impianto mitologico. E infatti qualcosa cambia rispetto alle fonti conosciute perché qui si assiste ad una parziale destrutturazione del mito, che tuttavia ha il suo fascino che si svela negli elementi dello stesso mito che si nascondono dietro i diversi personaggi.
Per restare ai fondamentali, l’impianto generale della leggenda è conservato, i pezzi principali del mito sono tutti presenti. Abbiamo due fratelli, il buono (Numitor) e il cattivo (Amulius), due nipoti gemelli (Yemos ed Enitos), un passaggio di potere cruento, i trenta popoli albensi, una vestale (Ilia) che a causa di una sua mancanza viene condannata ad essere sepolta viva, miti minori come quello della dea Rumia, la lunga guerra di riappropriazione della verità negata, la sconfitta finale del cattivo Amulius, la decisione dei due vincitori, ormai affratellati (Yemos e Wiros), di andarsene comunque da Alba Longa per fondare un nuovo spazio vitale insieme ad una comunità di raccogliticci, uniti dalla volontà comune di darsi un un nuovo Ordine.
Fuori dal mito e dalle fonti tramandate sulla storia del Latium vetus sono gli innesti reinterpretati di alcuni miti minori, come quello della dea Rumia e dei popoli della foresta, la circostanza che i due protagonisti non sono Romolo e Remo, fratelli di sangue, ma Yemos e Wiros, fratelli di lotta e di destino e, soprattutto, la vicenda e il ruolo della vestale/guerriera Ilia.
Religione e costumi
Diversi sono gli elementi culturali riproposti ed appartenenti al Latium vetus.
Innanzitutto la costante e onnipresenza del divino nelle azioni dei personaggi e nelle conseguenze unita alla ricerca della Pax deorum e alla maledizione per chi tali pratiche rituali contrasti o cerchi di volgere a proprio favore.
Ciò accade soprattutto con la complessa figura di Amulius, assetato di gloria, in questo istigato dalla moglie, la regina Gala, che per il potere finisce con il trascurare i segni dell’invisibile, tanto da rendere gli dei muti all’auspicio e di bruciarne, impazzito, nel focolare le loro rappresentazioni (i Penati?), tanto poi da finir sacer (errante e in balia degli dei), come bene emerge nella scena finale a sorpresa della serie.
Ma non solo Amulius, anche il protagonista buono Yemos è sempre alla ricerca della condivisione e della evocazione degli enti invisibili, a partire dalla divinità che lo ha salvato nel bosco, Rumia (che gli parla per mezzo di una giovane figura oracolare), tanto da abbandonare Alba, pur vincitore, perché i Trenta non vogliono onorarne la divinità sul suolo natio, la divinità che rappresenta il collante e lo spirito della comunità dei Ruminales che poi lo seguirà nella fondazione di Roma.
E così è pure per gli altri personaggi minori, per i quali mai esiste l’io, ma sempre il noi e il rapporto con il sacro.
Un sacro ben rappresentato dalla triade per così dire pre-arcaica (se per quella arcaica intendiamo quella tracciata dal Dumezil: Giove, Marte, Quirino): Giove, Marte e Vesta, tutte tre con i loro attributi tradizionali. Marte in particolare, che esce prepotentemente alla viglia della guerra con l’invocazione corale “Nobiscum Marmar”, pronunciata in coro dal re e dai generali di Alba Longa prima di ogni battaglia. Ma anche Giove, padre di tutti gli dei e del cielo luminoso, nonché dei fulmini, al quale si sacrifica, giustamente, uno splendido bue bianco. Per non parlare di Vesta e delle vestali, nella loro posa di oranti e nella punizione per sacrilegio, la sepoltura da viva, praticata in verità pochissime volte in Roma, ma di cui ci sono fonti certe
Ma anche le pratiche tradizionali sono rispettate.
La più incisiva è la vicenda dei Lupercali.
Qui la consuetudine è tratteggiata e descritta come una prova iniziatica per i giovani di una tribù (quella di Velia), da svezzare alla vita. I Lupercali erano una usanza praticata, poi divenuta cerimonia/festa annuale, tra le più antiche e le più longeve di Roma (vedi: https://www.saturniatellus.com/2017/05/lo-sconcio-sulla-grotta-della-nativita-roma-cosa-cela-la-rimozione-della-scoperta-del-lupercale).
Tante sono le sue interpretazioni: anche quella offerta da Romulus trova fondamento e sponda nella tradizione accademica.
Non da meno il rituale di esiliare e sacrificare la figura di un capo (il re Numitor) in relazione al perpetrarsi di calamità naturali e carestie per propiziarsi gli dei e tornare alla normalità delle stagioni e delle condizioni di vita è comunque presente nel costume del tempo.
Poi la presa degli auspici dal volo di uccelli, ben presente nella serie tv con il giusto rilievo. Qui tuttavia l’errore è attribuire il sesso femminile all’aruspice – insieme al peccato sicuramente veniale di affidare all’aruspice una pratica che tra i Latini era invece appannaggio dell’augure (l’aruspice, etrusco, si occupava di interpretare viscere, tuoni e fulmini).
Altra nota stonata sono i rituali dei popoli del bosco, i Ruminales. E ci riferiamo sia alle pratiche orgiastiche, un po’ eccessive, sia alla consuetudine di strappare il cuore ai nemici per mangiarselo e alle piramidi di cranii seminate per la foresta – che sembrano ammiccamenti ad Apocalypto e alle orride gesta dei popoli precolombiani, improbabili nel Latium vetus – sia infine alle scritture rupestri che compaiono nelle loro grotte (ma anche nella grotta dei defunti di Alba Longa), che ricordano piuttosto la Valcamonica e le incisioni dei Pueblo nello Utah.
Ambientazione, ricostruzioni, abiti e armi
Romulus è stata una produzione imponente e complessa che ha comportato svariati mesi di preparazione e svariati mesi di riprese nella natura selvaggia che ancora ci riserva l’Italia centrale, e spesso, soprattutto a causa delle condizioni meteorologiche, si è trattato di una vera e propria sfida. Emerge infatti in tutte le puntate un rapporto con il clima molto particolare, dove sembra quasi che sia questo a determinare il girato e non viceversa, soprattutto nelle scene nella foresta sotto la pioggia. L’effetto è una dose molto forte di realismo e un aiuto nell’immedesimazione nei personaggi.
Quanto alla ricostruzione della città di Alba Longa, questa appare distesa e allungata, in ossequio alla sua natura federativa di piccoli centri, e appare dunque centrata.
Così pure le forme delle capanne, ispirate a quelle del Palatino in Roma, e le ambientazioni suggestive in grotte/cattedrali del popolo della foresta.
Ben curati anche gli interni delle capanne, con pareti colorate e mai spoglie, con larari arricchiti da statuette di Penati-Lari che appaiono villanoviane, suppellettili d’uso coerenti con le fonti e strumenti da lavoro realmente utilizzati all’epoca, come ad esempio il telaio verticale.
La reggia del re di Alba Longa poi è particolarmente suggestiva e resa in maniera ottimale con un trono etrusco-villanoviano coerente con i reperti e un grande svastica solare beneaugurante che accoglie il visitatore, simbolo ricorrente in centinaia di reperti archeologici ben cosciuti.
Le vesti del popolo sono sempre ben fatte e colorate (di rosso/Marte/Roma gli abitanti di Alba Longa), così come i gioielli della regina. Piange invece il cuore nel vedere invece la primitività cucita addosso al re e ad alcuni altri capi tribù dei Trenta i quali sfoggiano pellicce di lupo e collane di ossa che richiamano una primitività barbarica fuori luogo. Passi per il protagonista Yemos, che sopravvive nella foresta, ma non ci sta per i re.
Gli equipaggiamenti militari sono sostanzialmente corretti, sia le spade antennifere, sia i pettorali in bronzo, sia gli scudi di foggia rispettosa delle fonti. Continuiamo però a non capire come mai Rovere insista nel negare ai soldati l’uso degli elmi. Una scelta incomprensibile, posto che non può non sapere che se ne faceva uso già da secoli.
Personalità dei personaggi
Pur muovendosi in un’epoca lontanissima, “i personaggi – come afferma il regista in alcune sue dichiarazioni – sono molto vicini a noi nei loro desideri, nelle loro paure, nei loro sentimenti, nella loro voglia di emanciparsi da regole che sono state scritte per loro da altri, nel loro bisogno di salvarsi, di amare, e di cercare, e possibilmente trovare, il loro spazio nel mondo”.
E tutto questo accade nella naturalezza di un rapporto con il divino attraverso il quale i protagonisti cercano un costante condivisione delle loro azioni.
Qui il regista sembra essere riuscito ad “attualizzare” il numinoso: bravo, non c’è che dire. Ciò è molto evidente nei tre protagonisti, Yemos (Andrea Arcangeli), Wiros (Francesco di Napoli) e Ilia (Marianna Fontana), in particolar modo nel personaggio di Ilia, che all’inizio è una vestale, ma che poi diventa tante cose diverse.
Inoltre, secondo Rovere Ilia “porta in scena un femminile forte, contemporaneo, in grande conflitto con l’esterno ma anche ma anche con sé stessa, e rappresenta un po’ quello che io voglio fare con la cinematografia, cercare di portare i caratteri femminili a essere protagonisti, renderli personaggi in grandissimo conflitto, così come già avviene per quelli maschili”.
Ecco, secondo noi, invece, questa caratterizzazione di Ilia, che da vestale sacrilega diventa una guerriera comandante di uomini, se ci starebbe bene nella saga d’una eroina nordica (es. Budicca), non è verosimile in una vicenda italica o romana. E’ vero che Ilia ricorda la vergine Camilla dell’Eneide, l’amazzone dei Volsci che combatte a fianco di Turno contro Enea, ma Virgilio non si sarebbe mai sognato di metterla a capo dei Rutuli.
Molto interessante anche l’altra figura femminile, Gala (Ivana Lotito), la regina usurpatrice di Alba, istigatrice di Amulius (Sergio Romano), che gestisce il potere “al femminile” e richiama tanto alla mente la follia sentimentale della regina Amata, moglie di Latino, nell’Eneide.
Innanzitutto la serie Romulus è l’avvicendarsi di esempi di virtù romane che si ripetono e si accavallano a più riprese nelle azioni dei protagonisti “positivi” della vicenda.
La sapienza, intesa come capacità di essere consapevoli della propria missione nel mondo e della propria scintilla divina; la forza, la fermezza del proposito e l’attaccamento al proprio obiettivo ad ogni costo; la temperanza, non solo come frugalità stoica che ti evita d’indugiare nei piaceri, ma anche come armonizzazione della forza con la sapienza; la giustizia, intesa come l’applicazione in ambito sociale delle tre virtù precedenti, in famiglia, tra amici, nella società; la pietas, la relazione di reciprocità con il proprio genio e con gli dei immortali, instaurando e coltivando un rapporto con i propri antenati nella devozione al mos maiorum e nel rigoroso adempimento dei riti; la maestà, ovvero la dignità dello Stato come rappresentante del Popolo e anche la grandezza, in riferimento alla fierezza d’appartenere ad un Popolo che aveva fatto della prevalenza dell’interesse pubblico la sua cifra di civiltà; la gravità ossia la dignità e l’autocontrollo di fronte alle avversità; last but not least la virtus, ovvero il coraggio nell’attività politica e militare.
E poi nella serie tv c’è l’aspetto “politico” e la tensione a cogliere l’essenziale della grandezza eterna di Roma e della sua scaturigine.
“Romulus – ha detto Rovere – racconta la genesi del potere, su come il potere si crea e viene gestito, quindi siamo all’origine di tutto, del pensiero e dell’organizzazione dell’Occidente. In quel periodo, in quel mondo, inizia a nascere appunto il potere, e si vengono a creare dei leader che crescono in una determinata maniera, in vista di ciò che dovranno essere.”
Vero, ma è proprio in questa rappresentazione della genesi dell’Occidente che Romulus esprime l’intima anima della Romanità.
E’ un nocciolo che emerge nel crescendo rossiniano del finale e nella scelta, giovane, di Yemos, “inviato” dall’alto, di lasciare Alba per costruire qualcosa di nuovo e di grande insieme a Wiros e al suo manipolo di mistici “affamati” di futuro, una scelta che lo trasforma in un imperator, in un iniziatore di civiltà.
Roma, infatti, è la simbolica giovinezza del mondo.
Punto fermo nel tempo lungo alterne vicende di popoli, attraverso ricostruzioni e disgregazioni, in un indefinito ciclo di divenire, Roma è lo stacco dal quotidiano e da regole crepuscolari già scritte, prese per immutabili (come quelle della Lega latina), è l’uscita dall’oscurità, la ricerca di un’aurora nuova, il segno di luce e il segreto della potenza, “punto di partenza e d’arrivo – per dirla con Scaligero – dopo cui valeva la pena di vivere la vita oltre la vita stessa per tendere a un piano di serena immortalità”.
Paolo Casolari
Curiosità:
- Romulus è anche un dialogo tra forme espressive diverse: oltre alla serie tv l’esperto di fantasy Luca Azzolini ha vergato una trilogia che tenta un’operazione crossmediale innovativa per l’Italia dove il mondo del libro e il mondo delle serie televisive si parlano, arricchendo i contenuti. Pubblicata da HarperCollinsItalia, è così composta: Romulus vol. I “Il sangue della Lupa”, vol. II “La regina delle battaglie”, vol. III “La città dei Lupi”.
- La serie tv dedica ognuna delle dieci puntate a un lemma, che alla fine vanno a comporre la profezia di Anchise ad Enea (Virgilio, Eneide, VI, 853): Tu regere imperio populos, Romane, memento hae tibi erunt artes, pacisque imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos.
- Il titolo “Romulus” è reso efficacemente con caratteri runici; con pari efficacia e maggiore coerenza si sarebbero potuti usare i caratteri del protolatino, ad esempio quelli dell’iscrizione del Lapis Niger.