“… fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza …”
(Dante, Inferno, Canto XXVI, verso 119)
Se Julius Evola, durante l’ultimo conflitto mondiale, ideò e progettò una Rivista bilingue (italo-germanica) dal titolo “Sangue e Spirito”, che poi, a causa di vari impedimenti, non vide mai la luce, vi saranno state delle ragioni legate non solo al momento storico che il filosofo stava vivendo ma, essendo Evola spiritualmente platonico e romano, certamente sarà stato mosso, anche e soprattutto, da “qualcosa” di molto più profondo e sottile, quindi consustanziale alla sua visione metafisica e metastorica che gli ha sempre consentito di essere e di agire da autentica voce profetica, proprio nel significato etimologico del termine.
E questo “qualcosa” è, manifestamente, la alternativa complessa e radicale al principio “Blut und Boden” (Sangue e Suolo) ispiratore di gran parte della Weltanschauung tedesca ma, in una dimensione ancora più interna, è l’evocare quella polarità in quanto Azione magica, cioè fattrice e creatrice, quale Paradigma a cui l’Europa, in quella dimensione temporale, avrebbe dovuto guardare con spirito guerriero nonché asceticamente contemplativo.
E quale era tale Paradigma se non quello eterno del Fuoco che, quale Spirito, forgia, forma e governa il Sangue che è Vita e quindi Zoè che deve essere Bìos, se non il Mistero divino di Roma quale supremo Principio Fulgureo mondanizzato?
Ecco la potente e luminosa natura sapienziale di Evola, non del tutto “apparsa” a qualcuno, atteso che questi ancora osa grugnire sulla cosiddetta “attualità” del filosofo, come se il Sapere e la Gnosi fossero soggetti alle mode ed alle opinioni degli attuali e, purtroppo, dominanti ominidi.
I Greci per dire Vita hanno avvertito la necessità, nella loro straordinaria ricchezza spirituale, di usare due termini, Zoè e Bìos, i quali, semanticamente, hanno risposto e quindi esaudito quel desiderio insito in quella Domanda filosofica fondamentale avente ad oggetto la differenza ontologica che sussiste tra la Vita quale Potenza cosmica (Zoè) e la Vita quale Atto, Forma (Bìos) e quindi, in senso proprio aristotelico, struttura organica e formalmente gerarchica di individuali realtà viventi; ciò vuol significare che l’Anima del Mondo che è, in Alchimia, il Mercurio e nel Timeo di Platone la Chòra, mentre nella meccanica quantistica è il campo gravitazionale relativistico di “qualcosa” che può essere (?) onde, corpuscoli o particelle ma non è alcuna di queste nello stesso tempo e nel medesimo contesto; ma che è, nella sua sostanza simbolica, la Donna, deve, per necessità cosmica e quindi divina, essere formata, in quanto deve essere fermata, come è fermata la vorticosità della Ruota dal Quadrato nel Mandala, dal Principio che effonde ed imprime in essa il Sigillo onde condurre sempre più in Alto quella Potenza-Dýnamis che di atto in atto, da grado a grado, deve passare da Zoè (Vita priva di Forma, irruente e senza limiti [àpeiron], scatenata, come quella rappresentata sui Sarcofagi romani di età imperiale…) a Bìos che è già Vita individuata (principium individuationis) formata, fissata, coagulata e pronta alla Ascesi verso l’Alto cioè verso il più-che-vita che è lo Spirito quale metavita, l’oltre vita, in quanto eternità della stessa perché suo concetto (direbbe Hegel) quindi la sua sublimazione nell’Idea.
Pertanto, parlare, evocare o, quantomeno, invocare la polarità Sangue e Spirito è entrare in una dimensione dell’Essere talmente alta ed onnicomprensiva da dover essere simbolizzata solo dal Cielo e quindi dal Divino, poiché essa è l’Opera eterna quale Legge dello Spirito, come ordine necessario (Anànche ) dell’Universo e nei tempi dello stesso, che governa e forma il mondo dei Viventi tanto nel succedersi dei giorni e delle notti come delle stagioni, quanto nel succedersi delle Civiltà e delle Vite così come nello sbocciare del fiore nel tempo e nella forma dovuti: è lo Spirito, è l’Alto, è l’Intelletto quale Nous cosmico, Mente di Zeus che rinnova in eterno il Rito primordiale con il quale il Demiurgo ordinò cioè diede Forma alle Potenze dell’Essere; e se la Mente è la sede delle Idee, quali Archetipi dell’Essere, allora il Mondo dei Viventi che è il Sangue quale simbolo della Vita medesima, come base, “corpo elementare terrestre” o “materia bruta”, non può che essere la Madre dalla quale si nasce ma dalla quale l’Eroe si emancipa come si emancipa dalla Terra dei Padri e dalla sua Legge onde conoscere, esperimentando, la Legge del Cielo in una Ascesi che non è più la Via dei Padri e del Sangue ma la Via degli Dei e dello Spirito! Ed in tutta la complessa e diversificata epifania del vivente uomo su questo pianeta, quale sublime Forma, quale divino Mistero ha realizzato nel senso di incarnato questo eterno Archetipo cosmico se non Roma?
Chi ha creato ex nihilo, con un Atto d’imperio di natura magica, simile a quello del Demiurgo platonico, l’Ordine dello Spirito cioè dell’Intelletto e quindi dell’Eterno, che pur viaggia e si muove nel tempo ma fuori dal tempo e nonostante lo stesso e che impone il suo Arché come Principio, Comando sopra la Legge della Vita, del Sangue, dei Padri, della Madre e della Terra, se non Romolo, quale Pontefice (facitore di ponti) della Virtus solare nella sua corrispondenza magica Nume-Astro-Metallo, che irrompe nel Mondo, operando in guisa tale da imitare, qui sulla Terra, il Rito Cosmico, affermando così la Legge del Cielo e negando quella del Sangue?
Roma, quindi, è lo specchio terrestre in cui si riflette lo stesso Ordine dei Cieli, dello Spirito (e nello specchio Amor è Roma…!) ed è l’unico ed eterno Paradigma, tra tutte le Civiltà del mondo, di questa totale, organica, definita e continua Opera di Alchemica lavorazione dell’Anima dei Popoli quale Vita e Sangue, Zoè e Bìos, costumi, tradizioni religiose, leggi e rituali nonché egoismi, violenze e superbie arroganti, madri dell’odio e della violenza, tutte sollevate ma non negate, conservate ma superate per giungere, associando le Genti al suo Destino, nell’ “oltre”, nell’ “aldilà”, nel più – che – vita dello Spirito, nel metafisico che è il Jus civile in quanto Rito giuridico-religioso che dal jus gentium, che è in sostanza il jus sanguinis e cioè il cosiddetto “diritto naturale”, crea magicamente, e cioè nell’Invisibile, per mezzo di Atti e Parole solenni, consacrate nei formulari pontificali, Forme universali quali tipicità giuridiche metarazziali che, essendo Idee, non sono passioni, abitudini, sentimenti, credenze irrazionali e quindi il mondo del “Sangue e Suolo” in quanto dimensione animico-emotiva, espressione delle potenze della Vita, ma sono, come già insegnavano sia Platone che Aristotele, impassibili, chiare, intelligibili, apollineamente luminose e, pertanto, in virtù della loro natura logica e cioè eterna in quanto frutto dello Spirito, “… la loro sovranità che è quella della Legge è simile alla sovranità divina ed è intelligenza senza passioni, mentre la sovranità dell’uomo concede molto alla sua natura animale…” (Aristotele, Politica, III, 16,1278a).
Roma così è, ancor prima di irrompere nel mondo, il Principio cosmico dell’Ordine e della Legge, Paradigma celeste, come la Repubblica di Platone, che deve essere presente e visibile, qui nel mondo degli uomini, e quale eghemònikon, creare e governare il mondo che è la Res Publica, in quanto Juppiter Optimus Maximus come Idea, con il fine di realizzare, nei limiti delle possibilità umane, la Felicitas in terra ad imitazione della beatitudine divina che è nei Cieli. E la Legge dello Spirito in Roma si afferma sulla Legge del Sangue sin dai suoi primordi: da Romolo che uccide il fratello, colpevole di aver infranto l’Ordine effettuale al Rito al Console Tito Manlio Torquato che, nel 361 a.C., nella guerra contro i Latini, fa giustiziare il figlio, poiché aveva violato la legge, sino a Decio Manlio Ausonio, retore e poeta gallo-romano che nel 360 d.C. scrive: “Sono nato in Gallia ma la mia patria è Roma!” e lo stesso Ausonio, sempre in virtù della Legge dello Spirito, da Quinto Aurelio Simmaco, patrizio romano, filosofo, giurista e retore, appartenente ad una grande ed antica famiglia, prefetto dell’Urbe e princeps Senatus, in una epistola indirizzatagli, è definito: “grande maestro di Latinità e Romanità!”; per giungere al poeta Rutilio Namaziano, gallo-romano anch’egli, il quale nella sua opera “De reditu”, dedicata a Roma, quale eterna Idea dell’Ordine, della Pace e della Giustizia, afferma e glorifica proprio ed esattamente la potenza dello Spirito della Romanità che “ha fatto una Città di ciò che era un Mondo!” e “di quelle che erano molte e diverse genti ha fatto un unico Popolo!”.
Questo è il Mistero di Roma, poiché è Verità ermetica e metafisica in quanto la vittoria dello Spirito sulla Natura, sulla Vita e sul Sangue, sublimandoli, governandoli, traendoli verso l’Alto è Opera divina, è ciò che gli Dei hanno affidato, quale compito divino, al Popolo Romano ed è ciò che lo stesso ha eseguito nel tempo e secondo necessità. Qui risiede la carica profetica di quel pensiero di Evola e della sua evocazione della polarità “Sangue e Spirito”; per la evidente ragione che nella stessa è manifesta la causa metafisica dell’odio e del terrore che il solo Nome di Roma provoca in coloro i quali hanno da sempre ideato e promosso la perversa ideologia del Mondialismo che è il capovolgimento satanico di quell’Ordine dello Spirito; e nella presente età assiale le sue Tenebre avanzano tanto velocemente da apparire inesorabili, quale dominio essoterico della Vita senza forme e limiti come del Sangue nella sua più animalesca espressione, il tutto con il fine dell’imbestiarsi definitivo ed ultimativo dell’uomo e della donna, sul quale “governerebbe”, nella dimensione esoterica, lo Spirito però nell’orientamento dello stesso verso il Basso, quale metafisica delle Tenebre.
Con quella evocazione pronunciata in quel fatidico “momento”, Evola non solo ci ha parlato non del passato ma dell’Eterno, che è Roma, ma ci ha indicato anche il nostro presente ed il futuro medesimo, nonché la necessità biologica e quindi immunitaria che la Vita ed il Sangue dei Popoli si rivoltino nei confronti di tale oscura ideologia che ha in odio la Forma e quindi la Luce, la quale ha per unico fine ciò che la stessa Natura rifiuta: impedire all’uomo di essere tale e cioè divino in quanto vivente al di là della Vita e Spirito oltre la stessa: l’Oro, che occheggia e luccica tra la feccia, vuole e deve essere visto, riconosciuto, pulito dalle impurità e restituito alla sua primordiale dignità, al suo essere Quello, ab aeterno!
Giandomenico Casalino