La partecipazione alla congiura contro Caio Giulio Cesare sul piano politico e gli studi filosofici rivolti a più correnti hanno nociuto all’immagine di Marco Tullio Cicerone più del giusto presso certi “tradizionalisti”, mentre presso e progressisti e “rivoluzionari” ha nociuto il suo esser stato un campione della legalità repubblicana ed un conservatore arrabbiato, nonché un assertore del mos maiorum in tempi calamitosi.
In vista d’un riesame di certe opere ciceroniane molto importanti ai fini della comprensione e dell’approfondimento di quella che è stata chiamata “formazione del Romano vero” tracciamo una biografia dell’Arpinate.
Marco Tullio Cicerone nacque il 3 gennaio del 100 a.C. ad Arpino (o a Sora secondo alcuni) da famiglia equestre. Stabilitosi a Roma vi percorse tutti i gradi del cursus honorum e pervenne al consolato, pur essendo un homo novus al pari di Catone e di Mario, di cui era parente ed ammiratore.
Studiò sotto la guida di L. Licinio Crasso e di Marco Antonio, due grandi oratori del tempo.
Dopo aver deposto la bulla (90 a.C.) studiò il diritto sotto Q. Mucio Scevola l’Augure e poi sotto l’altro Q. M. Scevola, il Pontefice Massimo.
Questi ultimi personaggi, imparentati, con gli Scipioni, lasciarono l’impronta delle loro convinzioni politiche in Cicerone, il che ne spiega la con dotta nella vita pubblica.
Come di consueto per coloro i quali intendessero far carriera politica, prestò il servizio militare agli ordini del console Gneo Pompeo Strabone e combatté contro i Marsi e i Sanniti insorti (Guerra Sociale).Fu poi in Campania agli ordini di Lucio Cornelio Silla, che al tempo era Legato del console L. Porcio Catone.
Alla fine del servizio, tornato A Roma oltre a continuare gli studi di diritto, studiò anche filosofia ed ebbe per maestri Filone di Larissa (dell’Accademia), Fedro (epicureo) e Diodoro (stoico).
L’aver studiato sotto insegnanti appartenenti a differenti scuole filosofiche fu , nel tempo, fatale all’immagine di Cicerone al quale fu affibbiata la qualifica di “eclettico”.
Scoppiata la guerra civile tra Mario e Silla, il Nostro si trovò diviso tra la sua formazione culturale di impronta “democratica” e la formazione famigliare che ne faceva un difensore delle vecchie istituzioni repubblicane, il che lo accosta_ va al partito degli aristocratici.
Passata la bufera, a soli 25 anni di età esordì nella carriera forense in difesa di Roscio accusato di parricidio .da un potente liberto di Silla. L’anno dopo (79 a.C.) si recò ad Atene ed in Asia Minore per completare i suoi studi e, probabilmente, per sottrarsi alle vendette dei sillani infuriati per l’assoluzione di Roscio. A Salirne incontrò l’esule P. Rutilio Rufo, che indirizzò gli studi di diritto costituzionale del Nostro.
Nel 78 tornò a Roma: Silla aveva attuate le sue riforme costituzionali; si era ritirato a vita privata; indi era morto.
Le lotte civili non erano, però, finite. Nel 77 Sertorio capeggiava, in Spagna, una rivolta ed il Senato gli opponeva Pompeo.
Cicerone- sposava Terenzia, dalla quale aveva i figli Tullia e Marco e, eletto questore (76), veniva posto agli ordini del propretore Sesto Peduceo, in Sicilia.
Dimostrò tanta onestà nell’amministrazione, da diventare il patrono di tutti i Siciliani. Questi, infatti, gli diedero il mandato (70) di accusare di concussione C. Verre, che aveva commesso ai danni degli Isolani furti, rapine e violenze.
Il partito aristocratico tentò di togliere la causa a Cicerone facendo muovere contro Verre una blanda accusa da C. Nigro, ma Cicerone dimostrò il suo diritto di accusatore e pronunciò due atti d’accusa (actiones),il secondo dei quali diviso in cinque discorsi (le famose “Verrine”). Com’è noto Verre fu riconosciuto colpevole e condannato.
Nel 69 Cicerone era stato eletto Edile Curule. In questa sua qualità fece celebrare ludi Cereali, Floriali e Romani. I Siciliani, poi, grati per l’avvenuta condanna di Verre, gli inviarono grandi quantità di prodotti alimentari che utilizzò per calmierare i prezzi di mercato.
Tra il 69 ed il 66 svolse vari processi e non cessò di attuare opera di mediazione tra le opposte parti politiche pro concordia ordinum, ossia per la concordia civile necessaria al supremo bene dello Stato. Nel 66 venne eletto pretore de re petundis.
E’ importante ,a questo punto, bene inquadrare la posizione politica del Nostro, il quale era anzitutto un conservatore geloso delle libertà repubblicane, amante dell’ordine civile, nemico di tutti gli eccessi: per sua formazione famigliare e culturale si opponeva tanto all’oligarchia aristocratica, corrotta, faziosa ed arrogante, quanto ai democratici sovversivi e non meno violenti della controparte. Tale posizione gli fruttò l’elezione a Console, cui concorsero i moderati dei due partiti: come Console egli mantenne la sua posizione di equilibrio. Poté combattere e sconfiggere, quindi, sia L. Sergio Catilina sia Antonio Ibrida, i quali con mezzi diversi intendeva_ no sovvertire gli ordinamenti dello Stato. Ottenne il sommo onore di esser proclamato “Padre della patria”, anche se gli venne rimproverato di aver permesso l’esecuzione capitale senza processo, dei capi della rivolta catilinaria.
Coerentemente, quando nel 60 si formò il primo triumvirato, invitato a farne parte da Giulio Cesare, rifiutò e si avvicinò sempre più alla posizione di Pompeo.
Gli effetti della- scelta fatta da Cicerone non si fecero attendere. Il cesariano Clodio, uomo corrotto e violento passato alla plebe, divenuto tribuno della «plebe fece approvare una legge che comminava l’esilio a chi avesse fatto giustizia re cittadini romani senza processo. Cicerone fu, per ciò, esiliato, la sua casa venne distrutta ed i suoi beni confiscati. Pompeo tuttavia “:non lo abbandonò e un anno e mezzo dopo gli fu permesso il ritorno.
Reintegrato nei suoi beni, riprese l’attività politica e rimproverò al Senato la sua ostilità verso Pompeo, che per questo veniva spinto alla riconciliazione con Cesare. Non fu ascoltato e da quel momento cominciò il suo declino politico: subordinarsi alla volontà dei triumviri.
Nel 52 difese senza successo Milone, l’uccisore di Clodio, poi fu mandato da Pompeo (eletto console sine collega) a governare la Cílicia e fu buon generale contro i Pindeniniti.
Nel 50 tornò a Roma dove cercò, in tutti i modi, di pacificare gli animi. giunse fino al punto di sostenere che si concedesse a Cesare tutto pur di evitare la guerra civile. Ma quando questa scoppiò, pur con qualche tentennamento si schierò con Pompeo, che raggiunse in Epiro. Dopo Farsalo consigliò ai pompeani di deporre le armi e di por fine alla guerra civile, ma fu insultato e minacciato di morte. Passò allora a Brindisi dove rimise fino al 47 in attesa delle decisioni di Cesare (Pompeo era stato ucciso l’anno avanti). Graziato, fu accolto affabilmente da Cesare e forse gli fu consigliato di condurre vita ritirata. Scrisse l’elogio di Catone, cui Cesare oppose il suo “Anticato”. Invocò la clemenza di Cesare in favore di Marcello e di Ligario e l’ottenne. Malgrado avesse chiesto ed ottenuto, seppur non per sé, favori a Cesare, andò convincendosi della necessità del tirannicidio (ma lo stato di necessità non è invocato dai tiranni?) e di ciò furono informati i congiurati, sicché, sul cadavere di Cesare, lo stesso Bruto alzò il pugnale insanguinato gridando il nome di Cicerone, quasi a designarlo capo del partito repubblicano.
Risorsero in Cicerone le speranze d’una restaurazione repubblicana, ma fu deluso dalla irresolutezza dei congiurati, mentre si rendeva conto che Marco Antonio mirava al potere. Scoraggiato lasciò Roma e decise di recarsi in Grecia con l’intenzione di non tornare finché fosse durato il mandato di Antonio.
Davanti a Siracusa, fu sospinto da una tempesta sulle spiagge calabresi, dove apprese che la situazione a Roma era migliorata e che vi era reclamata la sua presenza. Tornò ma non prese parte alla riunione del Senato presso il quale era stato convocato da Antonio. Vi si recò il giorno dopo, assente Antonio, e vi pronunciò la “Prima Filippica” che, pur essendo moderata, irritò il console. Non si presentò neanche alla seduta del 19 settembre e rispose più tardi al discorso di Antonio, che lo attaccava, con la sua “Seconda Filippica”, violentissima requisitoria con la quale investiva la vita pubblica e privata di colui il quale, al momento, era divenuto il suo capitale avversario.
Più tardi sostenne la causa di Ottaviano e del Senato e pronunciò altre dodici “Filippiche”. Propugnò la necessità di non venire a patti con Antonio e di dichiararlo, anzi, “nemico della patria”. Quando a Modena Ottaviano vinse Antonio esultò ed i popolo con lui, che fu portato in trionfo fin sul Campidoglio. La vittoria di Ottaviano non costituì la disfatta di Antonio con il quale sia il Senato che Ottaviano – impadronitosi del consolato – vennero a patti. Venne costituito il secondo triunvirato (Ottaviano, Antonio, Lepido) per la lotta comune dei “cesariani” contro i “repubblicani”. Sia per vendetta che per necessità di denaro furono preparate nuove liste di proscrizione che comprendevano 2000 cavalieri e 300 senatori: tra i primi era elencato Cicerone. Ottaviano non potè o non volle far nulla per salvarlo.
Cicerone fuggì da Roma e s’imbarcò su una nave, sempre respinto dai venti contrari a terra. Stanco, si fece portare a Formia, nella sua villa e lì attese il suo fato. Raggiunto dai partigiani di Antonio non volle esser difeso dai suoi servi e morì impavido (43 a.C.).
In un excursus tanto breve quanto il presente, non può esser altro che abbozzato il ritratto della personalità del personaggio.
Non v’è dubbio che nel periodo storico in cui visse, Cicerone sia stato il più grande Romano, dopo Caio Giulio Cesare.
Ai suoi difetti: la smania di apparire, la vanità, l’eccessiva coscienza di sé e quindi l’insofferenza ad esser messo da parte, corrispondono le positività: grande dignità nelle diverse situazioni, altezza di sentire, onestà pubblica e privata (virtù sconosciuta alla maggior parte dei suoi contemporanei), attività esemplare ed instancabile, dedizione assoluta agli interessi dello Stato, incrollabile amor di patria consacrato dai detti e dai fatti.
La sua formazione famigliare e culturale lo portò a scelte politiche obbligate (restaurazione della repubblica) quanto improponibili. Sua grande colpa la cauzione offerta ai “tirannicidi” repubblicani, i quali poterono indicarlo come l’ispiratore dell’assassinio di Cesare. La qual cosa lo fece nemico di Marco Antonio ed impedì che Cesare Ottaviano lo proteggesse dal ferro mortale: in campo politico, inoltre, non aveva alcun potere contrattuale che potesse stare a fronte di quello dei triumviri.
A noi non interessa il Cicerone politico, bensì colui che al tramonto della repubblica indicò con i suoi scritti uno stile di vita conforme al mos maiorum e sentieri che conducono alle vette della formazione del “Romano vero”.
Salvatore C. Ruta
(da La Cittadella n° 31, gennaio – marzo 1992)