Le Metamorfosi di Ovidio. I, 113-150: La caduta dell’umanità
I, 113-124 “Dē aetāte argenteā”
Postquam Sāturnō tenebrōsa in Tartara missō
sub Iove mundus erat, subiit argentea prōlēs
- aurō dēterior, fulvō pretiōsior aere.
Iuppiter antīquī contraxit tempora vēris,
perque hiemēs aestusque et inaequālīs autumnōs
et breve vēr spatiīs exēgit quattuor annum.
Tum prīmum siccīs āēr fervōribus ustus
- canduit, et ventīs glaciēs adstricta pependit;
tum prīmum subiēre domōs: domus antra fuērunt
et densī fruticēs et vinctae cortice virgae;
sēmina tum prīmum longīs cereālia sulcīs
obruta sunt, pressīque iugō gemuēre iuvencī.
I, 125-150 “Dē aetāte aenēā et ferreā”
- Tertia post illam successit aenea prōlēs,
saevior ingeniīs et ad horrida promptior arma,
non scelerāta tamen: dē dūrō est ultima ferrō.
Prōtinus inrūpit vēnae peiōris in aevum
omne nefas, fūgēre pudor vērumque fidēsque;
- in quōrum subiēre locum fraudesque dolīque
insidiaeque et vīs et amor scelerātus habendī.
Vela dabat ventīs nec adhūc bene nōverat illōs
nāvita, quaeque diū steterant in montibus altīs,
fluctibus ignōtīs insultavēre carīnae,
- commūnemque prius ceu lūmina sōlis et aurās
cautus humum longō signāvit līmite mensor.
Nec tantum segetēs alimentaque dēbita dīves
poscēbātur humus, sed itum est in viscera terrae,
quāsque recondiderat Stygiīsque admōverat umbrīs,
- effodiuntur opes, inrītāmenta malōrum;
iamque nocens ferrum ferrōque nocentius aurum
prōdierat: prōdit bellum, quod pugnat utrōque,
sanguineāque manū crepitantia concutit arma.
Vīvitur ex raptō; nōn hospes ab hospite tūtus,
- nōn socer ā generō, fratrum quoque grātia rāra est.
Inminet exitiō vīr coniugis, illa marītī;
lūrida terribiles miscent aconīta novercae;
filius ante diem patriōs inquīrit in annōs.
Victa iacet pietās, et Vīrgō caede madentes,
- ultima caelestum, terrās Astraea relīquit.
Traduzione
L’età dell’argento
Dopo che il mondo passò sotto il dominio di Giove, in seguito alla reclusione di Saturno nel Tartaro tenebroso, sorse la generazione d’argento, peggiore dell’oro ma migliore del biondo bronzo. Giove accorciò la durata dell’antica primavera e divise l’anno in quattro parti diverse: inverno, estate, autunno e primavera. Quindi per la prima volta l’aria si infuocò bruciata da un calore secco e il duro ghiaccio restò sospeso ai venti; per la prima volta si costruirono rifugi: le case erano grotte e fitti cespugli e verghe legate con una corteccia; per la prima volta i semi dei cereali furono seminati in lunghi solchi e i giovenchi, caricati con il giogo, cominciarono a gemere.
L’età del bronzo e del ferro
A quella generazione succedette la terza, di bronzo, di carattere più crudele e più incline alle armi maledette, tuttavia non totalmente scellerata: apparve quindi l’ultima generazione di duro ferro. Immediatamente ogni empietà irruppe nell’età del peggior metallo e fuggirono il pudore, la verità e la fiducia; al loro posto comparvero la frode, il dolo, l’insidia, la violenza e l’amore di tipo scellerato. Il marinaio dava le vele ai venti senza ancora conoscerli bene e le chiglie delle barche che a lungo erano state in alto nei monti sfidarono i flutti ignoti e il guardingo misuratore cominciò a delimitare con un lungo confine il terreno che prima era in comune come la luce del sole o l’aria. Non si pretendeva piú dal ricco suolo solo i raccolti e gli alimenti necessari, ma procedendo fin nelle viscere della terra anche si cominciò a scavare le ricchezze, cause dei mali, che la terra aveva nascosto mettendole tra le ombre dello Stige; ormai avanzava il ferro dannoso e l’oro, ancora più dannoso del ferro: comparve la guerra, che combatte per entrambi e scuote le armi crepitanti con le mani insanguinate. Si viveva di rapine, l’ospite non era sicuro con l’oste, né il genero con il suocero, la concordia tra fratelli era una cosa rara. Il marito minacciava di morte la moglie e lei il marito; terribili matrigne preparavano orribili veleni; il figlio si chiedeva prima del tempo quanti anni sarebbe ancora vissuto suo padre.
La pietà giace sconfitta e Astrea la vergine, l’ultimo essere celeste, intrisa dal sangue delle stragi, lascia la terra.
Commento
La caduta del genere umano è un tema ricorrente in diverse tradizioni. Nella trattazione di Ovidio, che in buona parte richiama quella di Esiodo, non se ne identifica una causa né compare un singolo atto negativo, ma si delinea un graduale sovvertimento dell’ordine cosmico ed etico primordiale. Se la formazione del mondo avviene ordinando il caos, la sua distruzione avviene ritornando al caos. Il caos primordiale tuttavia era un conglomerato informe con enorme potenzialità, perché poteva ricevere la perfezione delle forme per dar vita al cosmo, mentre il nuovo caos è principalmente etico, rappresentando l’incapacità dell’essere umano di fermare il processo di differenziazione, divisione e contrasto procedente dall’alto verso il basso.
L’uomo, inebriato dalla sua potenza, gioca con il suo potere dimenticandosi l’etica e generando nuove situazioni verso “il basso”, piuttosto di esercitare la sua caratteristica divina “dall’alto” e di ricercare la perfezione delle forme da cui deriva il suo pensiero. La vera natura dell’uomo era stata descritta come “in effigiem deōrum moderantum cuncta” ad immagine degli Dei che governano ogni cosa. Gli esseri umani, abbandonando la loro capacità di governare il mondo e di sostenere l’universo come collaboratori dell’azione divina, precipitano in un baratro senza sbocchi.
Rivolgendoci più in dettaglio al testo, notiamo che se da una parte in questa sezione non si tratta il mito italico di Saturno ma si riprende il filone greco, dall’altra il silenzio di Ovidio sui raccapriccianti particolari del mito è sicuramente intenzionale. L’intero mito della detronizzazione e castrazione di Crono è sintetizzato in meno di un versetto usando un ablativo assoluto “Sāturnō tenebrōsa in Tartara missō”, quasi fosse una nota tra parentesi. Infatti risulta difficile immaginare che il sovrano del tempo felice, colui che governava la Saturnia Tellus, colui che aveva regalato agli uomini l’età dell’oro, fosse un padre crudele: semplicemente il mito italico del’età dell’oro sotto Saturno non lega con la narrazione ellenica dei fatti cruenti legati alla Sua detronizzazione.
Filosoficamente, Saturno rappresenta il luogo al di là della molteplicità delle idee, un luogo che ogni anima deve attraversare nel processo di incarnazione, prima di immergersi nella pluralità delle forme. Con Saturno nasce il tempo, che non è ancora diviso in quanto anteriore alle idee, ma che piuttosto si manifesta come una continua primavera. Con Giove prende forma l’universo come lo conosciamo, basato sul discernimento delle idee. Ecco che il tempo viene misurato e diviso in cicli e stagioni.
Nell’età dell’argento si manifestano le differenze che prima erano presenti solo in potenza: appaiono il caldo e il freddo e l’uomo comincia a pensare e a trovare soluzioni cercando e costruendo ripari e inventando l’agricoltura.
Come già detto, Ovidio non spiega le ragioni della decaduta, ma le descrive con efficacia come un dato di fatto. Ormai la dinamica è in moto e dopo pochi versi l’età d’argento è spodestata da quella del bronzo, dove compare la crudeltà, anche se si capisce che questa era già presente nell’età precedente, ma adesso è più forte. L’accelerazione dell’autore è geniale facendoci cadere nell’incubo dell’età del ferro prima ancora di farci digerire l’età precedente: una caduta della quale ti rendi conto quando sei già al suolo.
Ogni virtù è abbandonata, con un sovvertimento cosmico dell’ordine naturale. Adesso i tronchi degli alberi, che erano nati in montagna, sfidano i mari, in ricercato contrasto con i versetti 94-95 dove per l’età dell’oro si affermava “il legno di pino non discendeva nelle onde limpide per vedere il mondo, dopo essere stato tagliato dai suoi monti”.
Lo sfruttamento del pianeta alla ricerca del profitto (perché l’oro è tanto nocivo quanto il ferro) è descritta in maniera molto efficace dall’immagine degli scavi delle ricchezze nelle viscere della terra fino a giungere allo Stige. L’ingordigia ha solo uno sbocco: l’empietà che conduce alla distruzione del mondo stesso.
Quanta amarezza e tristezza nel leggere i litigi familiari, le minacce di morte tra moglie e marito, i figli che aspettano la morte dei padri per prenderne l’eredità, il mancato rispetto del principio di ospitalità caro a Giove.
In questo scenario, che è antitetico all’ordine della formazione del mondo, la Giustizia, impersonata da Astrea, figlia di Astreo e di Eos (Aurora), bagnata – anzi “inzuppata” – dal sangue delle guerre, abbandona il mondo, trovando un nuovo posto nella costellazione della Vergine.
Il pensiero dunque si rivolge al cammino dell’eroe, del saggio, del filosofo, della guida: solo il richiamo ad un’etica immortale, eterna, divina, noumenica, può permetterci di risalire e partecipare all’opera divina del mondo, contrapponendoci al caos nichilista. La costellazione della Vergine, che splende nei cieli estivi, ci sia di monito divino.
Mario Basile
Fori Hadriani scripsit, III Kal. Apr. MMDCCLXXII