“Roma costruì un impero facendo emergere nuove identità ed oggi per essere all’altezza del suo glorioso passato deve affrontare la sfida epocale dell’accoglienza e della integrazione dei migranti”.
Stralci di un discorso pubblico non di Laura Boldrini o Matteo Renzi, bensì di Papa Francesco, in visita al Campidoglio, nel cuore della civicità dello Stato. Un Papa universalista, come giustamente deve essere chi abbraccia una fede monoteista come il Cristianesimo, che dopo alterne vicende personali, tenute ben nascoste, è finito per essere un Papa mondialista, felice di guardare a un mondo costellato da identità liquide inespressive, per nulla nitide e definite, perché teme i muri a definizione del limes e dei Valli, ma non i ponti, spesso invece usati come arma architettonica offensiva di assalto.
Un discorso politico quindi quello pronunciato al Campidoglio, che solo in chiusura si è incrociato con la necessità spirituale di fare carità e di mostrare bontà, valori giustificazionisti, colonne d’Ercole atte a segnare la separazione tra i buoni e i cattivi, i giusti e gli ingiusti. I giusti si incamminano a questo punto lungo il sentiero della condanna alla Tradizione, abbracciando i propri fratelli nel melting pot delle identità sessuali, del nomadismo abitativo, accecati dalla fumosità valoriale dei diritti umani, dall’odio a partecipare al destino del proprio luogo natio. I cattivi impongono le ferree condizioni della conservazione della identità.
I riferimenti a Roma sono costanti nel campo della politica e della cultura, Roma è una idea che non ha esaurito la sua portata con l’affievolirsi della fiamma di Vesta, un’ idea però che ognuno maneggia a proprio piacimento in difesa di posizioni ben distanti da quel mondo lontano e vicino, nostra storia e proiezione futura. Così Papa Francesco mistifica le cause di decadenza e le rielabora in punti di forza, in modelli imitativi. Dimentica forse, o non sa, che l’Impero di Roma è durato più di mille anni perché ha selezionato gli ingressi, perché come ben ricordò Nietzsche, ha saputo dare vita ad una macchina giuridica che ben poteva tollerare anche la presenza di cattivi imperatori, perché ha conquistato e controllato i confini. Il processo di concessione della cittadinanza a singoli individui che con Augusto e ancor più con Claudio assunse considerazione notevole costituì un efficace meccanismo di integrazione delle province, ampliando il reclutamento dei vertici politici e sociali dell’impero non indifferenziando l’apertura di Roma. Ma c’è di più, lo statuto stesso di civitates sopravviveva in una pluralità di situazioni, alcune delle quali, anzi la maggior parte prevedevano la sussistenza di una autonomia giurisdizionale, sicuramente di un’autonomia religiosa e di costume, che, come attestano le fonti papirologiche provenienti dall’Egitto, rimanevano in vigore anche nel sancire i rapporti tra comunità locali e cittadini romani. L’attenzione posta da Roma a non spopolare i territori favorendo quell’amalgama che molti oggi confondono con la parola tolleranza e impero, è evidente dall’epoca repubblicana, quando il Senato si è trovato costretto a fermare il diritto di cittadinanza tramite migrazione, concesso ai Latini con lo ius migrandi, abolendo la legge (Lex Licinia Mucia); principale causa delle guerre sociali. Alle lex Plautia Papiria, che accorda la cittadinanza agli abitanti dell’Italia, si arriva dopo lunghi combattimenti. Qualcuno potrebbe obiettare sul significato del termine “annessione”, di cui Roma fece sicuramente uso in periodi differenti e modi differenti. Forse non considerando che il principio di annessione con cui Roma ha esteso la sua influenza è stato utilizzato sin da epoca molto antica e si basa sulla incorporazione dei territori vinti. A queste regioni Roma in età Repubblicana applicava il suo ordinamento amministrativo, cioè quello delle tribù. Si arrivò in tal modo al numero delle 35 tribù, che non venne più superato. Tuttavia nel tempo Roma si accorse che l’attuazione di questo programma avrebbe accresciuto troppo le circoscrizioni e nel mentre avrebbe modificato la base politica della città. Fermò le concessioni. Possiamo allora passare a considerare la giurisdizione delle colonie, latine o romane, esse erano regolate da un diritto ferreo che non permetteva alle colonie latine nemmeno lo ius connubi con i cittadini romani. Con Augusto gli ordinamenti della città divennero uniformi e l’Italia potè distinguersi amministrativamente dalle province. Un processo che resistette al tempo e tollerò alterne vicende fino ad arrivare all’ordinamento Dioclezianeo, momento in cui la condizione della penisola sarà equiparata in toto alle province, che cresceranno di numero raggiungendo le 120 unità. Il secondo secolo non segna la vittoria o la svolta della storia di Roma, ma la sua decadenza graduale e irrefrenabile ed essa è risieduta proprio nella forzata modifica dell’ordinamento amministrativo, accentratore, visti i confini indeboliti, e nel veder trasformato il senso di mura con quello di limes. I numeri incontrollabili con cui Roma è stata attaccata ai confini l’ha indebolita, prima di tutto nella gestione del potere. Gli imperatori passavano la maggior parte del loro periodo di attività governativa a combattere e frenare le invasioni, a placare la ribellione delle armate romane, al cui interno erano “integrati” anche i barbari. Questa fase indebolì non solo il ceto dirigente, ma tutto il mondo provinciale al punto che nel III secolo dopo una drammatica sconfitta in Oriente l’imperatore Valeriano sarà fatto prigioniero dai Persiani, lasciando il potere romano incapace di reagire. Cadde così Roma, afflitta dalle piaghe epidemiche, destabilizzata dai labili confini, impoverita demograficamente, abbandonata nella sua territorialità sacra, incapace di far rispettare l’aucotiritas sovrana a coloro che gli antenati di Papa Francesco accoglievano come liberatori e fratelli.
Marina Simeone
(da www.revolvere.it)