Abbiamo già scritto1 che “la religio ha l’esatto contenuto del culto, per cui, esser religioso, per il Romano significa, prima di tutto, sapere ciò che si deve e ciò che non si deve fare: religiosi sunt qui facienda et, vitanda discernunt (Sai., III, 3, 10)”.
Da qui la necessità di sapere quali offerte sono gradite ai singoli Dèi, o agli Dèi in genere.
Quanto i Romani fecero o evitarono di fare segui sempre lo stesso modo? Ovidio, al quale dobbiamo tante informazioni sulla religione romana, ci dice2 che:
“In principio, ciò che bastava a conciliare gli dèi all’uomo era il farro e un pizzico brillante di puro sale. Una nave straniera non aveva ancora portato, solcando i mari, le mirre stillate dalla corteccia: né l’Eufrate aveva mandato incensi; né l’India aromi, né erano noti gli stami del rosso zafferano. L’ara dava contenta i fumi ottenuti con erbe sabine e l’alloro bruciava con non lieve crepitio. Se vi era qualcuno che poteva aggiungere viole alle corone fatte di fiori campestri, quegli era ricco. Questo coltello che ora apre le viscere del toro abbattuto, non aveva alcuna opera negli atti di culto. Cerere per prima godette del sangue dell’ingorda scrofa, vendicando i suoi frutti con la morte meritata della devastatrice … // … Spaventato dall’esempio di questa, o capro, avresti dovuto astenerti dai tralci. Un tale vedendolo infiggere i denti nella vite, esclamò non senza dolore: Rodi la vite, o capra: ma quando ti troverai davanti all’ara vi sarà ciò che3 potrà esser sparso sulle tue corna”.
Ovidio, dopo questi primi esempi di sacrifici cruenti, ne descrive e giustifica altri, con che entra nella pratica del culto pubblico, ma esce dalla pratica del culto privato, che è quello che qui ci interessa. Tuttavia, lo stesso poeta aggiungerà in seguito che qualcuno, per ingraziarsi gli Dei, vinaque dat tepidis, farraque salsa, focis (“dà vino e farro salato – agli Dèi – su tiepidi focolari”).
Che cosa, allora, sappiamo per certo, il pater familias potrà offrire agli Dèi nel culto domestico, che è quello a noi lecito?
Giano: il 1 gennaio il gianuale, dolce fatto di farro e miele
Giove: vino
Giunone Pronuba: chicchi di melograno
Cerere: frutta, favi, spighe, farro salato
Priapo: corona di frutta (pomosa corona)
Ercole: qualunque cosa che sia commestibile
Marte: vino
Dèi parentes: vino e sale
Mercurio: vino con acqua, latte
Sole, Luna, Silvani: acqua con miele
Bacco, Libero: vino
Apollo: acqua e miele
Giunone: melograno
Venere Ericina: pomo
Venere associata a Giove: vino, farro e miele
Vanno prese in considerazione offerte di fiori a:
Venere: fiori di arancio, viole, mirto
Flora: rose, fiori in genere
Giunone: giglio (iunonia rosa)
E suffimigi di incenso a tutti gli Dèi, ed in particolare a:
Giove: quercia, vite, pino, menta
Giunone: melograno
Minerva: olivo
Marte: corniolo, rovere, cardo
Venere: mirto, roseto, tiglio
Apollo: alloro
Venere Ericina: roseto, mirto, tiglio., papavero
Bacco: vite
S’intende che i suffumigi era naturale farli – tranne che per l’incenso – bruciando le foglie o rametti delle piante menzionate.
Il lettore avrà notato, tra le offerte, il farro misto a sale marino. Si tratta della ben nota mola salsa, in cui il farro è grossolanamente macinato (non ridotto in farina).
Il farro misto a miele in forma di focaccetta è lo ianual che viene offerto a Giano alle Calende di Gennaio. A Giano era offerta anche una focaccetta a più strati detta strues, mentre il Flamen offriva a Giove un dolce chiamato ferctum o fertum di cui Ovidio ignora la composizione.
Le foglie ed i rametti di arbores felices devono essere bruciati, senza fiamma, sui carboncini, usati per bruciare l’incenso.
Su un bracerino a parte, e sempre su carboncini, si bruciano pezzetti di focaccetta, mola salsa, gocce di vino, miele.
Rammentiamo che i carboncini, anche se dentro il bruciaprofumi o bracerino, vanno appoggiati sulla sabbia, altrimenti corrodono il recipiente. La sabbia è quella di fiume o di mare, lavata ed asciutta.
Claudio Rutilio
(da La Cittadella n° 48, aprile-giugno 1966)
1 Sono religiosi coloro i quali discernono ciò che (negli atti di culto) si deve fare e ciò che si deve evitare. In Claudio Rutilio, Pax Deorum, Edizioni Sear, Scandiano, 1993, p. 31.
2 Publio Ovidio Nasone, I Fasti, Coll. Sormani n° 10, Seregno, 1991, p. 337-350 e 353-358.
3 La mola salsa che lo consacra al Dio.