I miti italici e greci rappresentano un patrimonio unico non solo per il politeismo romano ed ellenico, ma anche per la cultura occidentale e mondiale. I miti si prestano a moltissime interpretazioni, legate agli approcci differenti con i quali si studiano. Prima di accingersi a studiare la nostra mitologia, è importante – nei limiti del possibile – provare a liberarsi dai paradigmi moderni, che potrebbero indurci a porre quesiti sbagliati falsando la comprensione dei testi.
Per capire come le domande possano stravolgere il contenuto questionato, presento un paio di esempi.
“Ma tu credi agli Dei?”
Questa è la tipica domanda che i miei tanti amici nati e cresciuti in una società cristiana mi pongono. Una domanda apparentemente semplice, quasi disarmante nella sua linearità, nella sua logica risposta binaria: sì o no. Eppure, si tratta di un terribile trabocchetto, sia per il postulante che per l’interpellato. Il quale, quasi come accade in meccanica quantistica, forzato a definire una variabile, ossia a prendere una posizione, si trova immancabilmente con la propria realtà alterata a causa della risposta.
Prima dunque d’intraprendere una crociata sulla credenza di questo o quel Dio, identificato con nome e cognome, quasi come se questo potesse schiarirci le idee su di chi o che cosa stiamo veramente parlando, occorre fare uno, due, tre passi indietro, respirare a fondo e valutare bene i presupposti della domanda, generalmente sconosciuti ai cristiani stessi.
Innanzi tutto constatiamo che nei comandamenti dell’Antico Testamento non compare niente di simile a “Tu avrai Fede nel Dio di Mosè”. Anzi, il primo comandamento è un’ammissione di politeismo: “Non avere altri Dei oltre a me.” (Nuova Riveduta, Deut. 5-7). Ciò significa rendere culto solo al Dio di Mosè ma non agli altri, che sono comunque considerati come entità divine in competizione con il Dio etnico delle dodici tribù di Israele, altrimenti il comandamento non avrebbe alcun senso.
Il paradigma della “fede” infatti si è sviluppato molto più tardi rispetto ai testi dell’Antico Testamento, ossia non in ambito ebraico ma nella sfera del cristianesimo. Dopo la morte di Cristo – il figlio del legionario romano Pantera, secondo Celso – i cristiani ne aspettavano il ritorno imminente e la fine dei tempi. Nelle prime lettere, Paolo allertava tutti ad essere pronti, perché Cristo sarebbe apparso da un momento all’altro insieme al cosiddetto Regno di Dio. Ma passarono giorni, mesi, anni, lustri, decenni… e i cristiani cominciarono a innervosirsi, a tal punto da chiedere a Paolo se i loro cari, morti mentre aspettavano il ritorno “imminente” del salvatore, sarebbero stati salvati pur essendo deceduti prima del suo arrivo. Da qui la geniale introduzione della Fede come stato di tensione permanente. Paolo praticamente cominciò a rispondere: “Il Cristo verrà: quando non è importante, ma tu devi concentrarti sulla tua fede, che è più importante dei fatti visibili”. Non a caso il Vangelo di Giovanni, scritto all’inizio del secondo secolo, ben più tardi degli altri tre vangeli, riporta: “beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”. Da cui si comprende come tutt’oggi la fede resta la colonna portante di tutta la casa di carta del cristianesimo, al di là di ogni argomentazione.
Come conseguenza, la fede per il cristiano, non è solo una necessità, ma diventa un modo di pensare. Il fideismo è appunto una forma di pensiero che antepone la fede come modo per acquisire conoscenza: in sintesi, la fede è l’asse portante del mondo cristiano. Un cristiano che voglia conoscere un’altra religione porrà quindi una domanda secondo il proprio paradigma: “in che cosa CREDE l’altra religione?”.
Dietro una domanda quindi compare una visione del mondo che non è applicabile alla Religio, dove non esiste alcuna tensione della fede.
Il fideismo cristiano non si esaurì con la distruzione del mondo classico, non finì con le martellate sulle sacre statue, non terminò con il saccheggio dei templi e con la distruzione selettiva delle opere antiche non in linea con il proprio “monopensiero”, ma continuò ad avere un forte effetto lungo tutto il medioevo e fino alle soglie dell’età moderna.
In aperta opposizione al pensiero fideista, nel XVI secolo sorse la scienza moderna, simbolicamente nel 1543 con la stampa dell’opera “De Rivolutionibus Orbium Caelestium” di Niccolò Copernico. La reazione al pensiero fideista è totale: la fede non passa in secondo piano ma addirittura scompare come metodo gnoseologico. La religione in generale viene relegata in soffitta, come un’inutile superstizione nociva per le menti illuminate e libere. La scena in questo paradigma è dominata dall’empirismo.
Varie volte amici e colleghi ingegneri o fisici mi hanno chiesto con un sorrisetto:
“Hai le prove dell’esistenza degli Dei?”
Anche questa domanda non ha alcun senso in seno alla Religio, in quanto la prova sperimentale è assente dal suo paradigma e i suoi scritti non sono verità da provare empiricamente così come non sono dogmi in stile fideistico. Anche qui, la risposta può solo portare ad una interpretazione forzata.
È da notare che davanti all’assenza di prove sull’esistenza del divino, l’ “homo scientificus” reagisce tipicamente con l’agnosticismo (io non so e so di non poter sapere), o con l’ateismo (non c’è divinità perché non ne posso provare l’esistenza), oppure con un timido teismo new age (io so che c’è qualcosa) che in momenti di crisi sfocia nella riscoperta delle superstizioni più basiche, o con la schizofrenia del dualismo scienza-fede, dove il metodo scientifico si applica a tutto fuorché ai dogmi della chiesa.
Questi sono solo due degli esempi di come ogni paradigma di pensiero generi le proprie domande, che fungono da coordinate per acquisire la conoscenza della realtà. La psicologia ci insegna che, anche se non lo vogliamo, noi utilizziamo sempre e comunque un sistema di coordinate per mappare il mondo, confondendo poi di solito la mappa con il territorio.
A questo punto entriamo nel vivo della questione. Come avvicinarci alla mentalità dei nostri avi, per comprendere meglio la Religio, i suoi rituali, i suoi miti, il suo calendario, evitando errori interpretativi per l’utilizzo di paradigmi moderni? Consideriamo il fatto che non esiste un solo paradigma nel mondo antico, poiché la compresenza di molte correnti filosofiche, culti di origine diversa e una grande mobilità di genti e di idee all’interno dell’impero offriva verosimilmente una certa una varietà di approcci ermeneutici, con un’enorme flessibilità rispetto all’approccio fideista e a quello empirico-sperimentale. Tuttavia un mito, nello stesso momento della sua stesura per iscritto, presenta un riferimento unico, congelato nel tempo, riflettendo il paradigma in vigore al tempo della scrittura, diverso da quello delle interpretazioni posteriori.
Cominciamo dunque un nuovo ciclo di articoli basato sulla lettura delle metamorfosi di Ovidio, interrogandoci sul messaggio originario dei miti riportati, ma soprattutto chiedendoci quali fossero le domande a cui l’autore desiderava rispondere. Sarà un viaggio nell’ingenuità, basandoci sul testo e sulla libera ispirazione, lontano dalle grandi teorie, prendendo la rispettosa libertà di lasciar che la forza evocatrice delle immagini ci muova gli animi, fantasticando sugli arcani misteri, meravigliandoci sulle antiche gesta e cercando spunti per la nostra esistenza odierna.
La grande speranza è che il mito riesca a dialogare con noi, trasformandoci, come in una delle molte metamorfosi, da questionanti a questionati, da professori ad apprendisti, da spettatori dei miti ad attori consapevoli dell’eterna danza cosmica.
Fori Hadriani scripsit, Kal Nov. MMDCCLXXI
Mario Basile