La cifra del tradimento nell’ultima battaglia del paganesimo: il Frigido

La battaglia tra Teodosio ed Eugenio, incisione di Janez Vajkard Valvasor
La battaglia tra Teodosio ed Eugenio, incisione di Janez Vajkard Valvasor

Si crede, comunemente, che il tentativo di restaurazione pagana dell’imperatore Giuliano (360-363) sia stato l’ultimo e che dopo di lui l’egemonia del cristianesimo si sia stabilita pacificamente in tutto l’Impero.

Non c’è dubbio che il tentativo di Giuliano, imperatore unico, abbia notevole rilevanza, sia per la clamorosa rivelazione che ad essere elevato al supremo soglio era un pagano, sia per la portata del tentativo stesso messo in esecuzione con maggior vigore in Oriente, luogo di massima concentrazione dei cristiani nel secolo e per ciò stesso di massima risonanza.

In verità, l’estremo tentativo di restaurazione si verificò verso la fine dello stesso secolo, essendo imperatore d’Occidente Valentiniano II (387-392) e d’Oriente Teodosio I (379-395).

Teodosio era sceso in campo contro il generale Massimo Magno Clemente, eletto Augusto dalle legioni (381) e riconosciuto come collega non soltanto da lui, ma anche da Valentiniano. La guerra era scoppiata quando, non contento di aver ottenuto il governo dell’estremo Occidente (Britannia, Gallia e Spagna), Massimo, atteggiandosi a protettore del cattolicesimo, aveva invaso la pianura padana e costretto Valentiniano (che favoriva gli Ariani) a fuggirsene in  Grecia. Teodosio, affrontato Massimo, l’aveva sconfitto prima in Pannonia, indi ad Aquileia (388), dove l’ambizioso aggressore era stato ucciso dai suoi stessi soldati.

Il diciassettenne Valentiniano veniva rimesso sul trono, ma sotto la tutela del generale franco Arbogaste. il primo d’una serie di creatori di imperatori fantoccio, valente condottiero di legioni ormai costituite di barbari.

I rapporti tra Arbogaste e Valentíniano furono ricchi di contrasti, il più grave dei quali esplose quando una petizione del Senato per il ripristino dei culti pagani, sostenuta dei generale, era stata respinta da Valentiniano, spalleggiato dalla madre.

Il 15 maggio del 392 Valentiniano fu rinvenuto impiccato – suicida o costretto al suicidio – al che Arbogaste proclamò imperatore il suo protetto, il retore Flavio Eugenio, che aveva la carica di Magister Scriniorum. Era questi un gallo-romano, ufficialmente di religione cristiana, ma apertamente simpatizzante, come il suo protettore, della maggioranza pagana del Senato di Roma, del quale era Princeps Q. Aurelio Simmaco, cugino di Virio Nicomaco Flaviano, Praefectus Italiae.

Flavio Eugenio tentò invano di ottenere il riconoscimento di Teodosio ed il sostegno del vescovo Ambrogio, i quali non tardarono ad avversarlo.

Nel gennaio del 393 Teodosio proclamò il figlio Onorio augusto dell’Occidente e denunciò Eugenio come usurpatore.

Cessati in tal modo i rapporti tra il detentore del potere in Occidente e l’Impero di Oriente, il partito pagano ripristinò il culto degli dei e mobilitò le sue forze. Il governo dell’Italia fu assunto da Virio Nicomaco Flaviano, aiutato dal figlio dello stesso nome, di venuto Praefectus Urbi.

Come al tempo di Giuliano Imperatore, un gran numero di opportunisti abbandonò il crstianesimo per tornare all’antica religione, ma vi furono anche le conversioni spontanee di quanti sentivano riaffiorare le loro vere radici ed erano trascinati dal carisma di Nicomaco Flaviano.

Per le vie di Roma si rividero la processioni in onore di Magna Mater e di Iside; venne riaperto (presumibilmente ad opera di Memmio Simmaco, figlio del grande Quinto Aurelio) il tempio di Flora – la dea legata al nome arcano di Roma; furono ripristinati i culti di Giove, Saturno, Mercurio, VuIcano,  Sole, Libero, Cerere nonché quelli di Mithra, Serapide, Ecate, Proserpina.

Dato che nessuno si illudeva della passività di Teodosio, Arbogaste guidò le sue legioni dalla Gallia verso l’Italia ed alle sue forze si univano quelle levate da Nicomaco Flaviano.

Come previsto, anche Teodosio muove le sue truppe verso l’Italia: ne ha il diretto comando il generale Stilicone.

I capi pagani hanno fissato il loro piano: Arbogaste, col grosso delle truppe,  affronterà Teodosio nel la valle del fiume Frigido, a Vipacco nel goriziano (oggi Slovenia), essendo il passaggio obbligato sulla strada per Aquileia; Nicomaco, al comando di un minore contingente, si schiererà alle spalle dei teodosiani per tagliare le vie della ritirata o per prenderli alle spalle. Ha sotto di sé il generale Arbitio.

Il 5 settembre 394 Teodosio, costretto a forzare il passaggio, si mette alla testa dei suoi contingenti Goti comandati dal generale Gainas e li guida all’attacco, che viene sanguinosamente respinto da Arbogaste. Si disse che rimasero sul campo circa 10 mila Goti.

Sospesi i combattimenti al calar del sole, nel campo eugeniano le truppe, certe della vittoria, si abbandonarono alle gozzoviglie.

Nell’insonne campo teodosiano, invece, veniva presa la decisione di indebolire, con l’uso dell’oro, le forze nemiche e conseguentemente, con la massima fretta, erano spediti degli emissari al campo di Arbitio affinché passasse con i suoi dalla parte di Teodosio. La missione ebbe immediato successo.

La mattina dopo le truppe di Teodorico assalirono ed occuparono il campo di Eugenio, da cui, però, le truppe combattenti erano già uscite per schierarsi in battaglia.

Il senso dello scontro fra due mondi viene dato dal fatto che alle spalle dello schieramento pagano è innalzata una statua di Giove fulminante, mentre dalla parte opposta Teodosio s’inginocchia a pregare il suo dio.

Mentre i teodosiani si lanciano all’attacco, ecco che si leva la bora che, sollevando nugoli di polvere, acceca gli eugeniani. In breve Teodosio travolge la resistenza pagana.

Eugenio, cerca di fuggire e viene decapitato; Arbogaste fugge, ma dopo due giorni si uccide. Virio Nicomaco Flaviano si era tolta la vita nel momento stesso in cui aveva appreso del tradimento di Arbitio e della defezione delle sue truppe.

La paganità non scomparve con la fine del nobile Nicomaco: la sua lotta, intatti, venne proseguita, con altri mezzi, dai suoi famigliari e dai suoi amici che comunque salvarono, di un mondo in disintegrazione, l’eredità dei loro maggiori.

Salvatore C. Ruta

(da La Cittadella n° 6, ottobre-dicembre 1985)