“Entro questo mese avrò un preventivo vero che farò vedere a un finanziatore molto attendibile e importante che deve darci la sua definitiva adesione e che individuerà gli sponsor e a marzo sapremo con certezza se ci sarà un mecenate. Credo che si potrà cominciare a mettere in piedi le prime colonne del tempio G di Selinunte entro sette mesi“. Lo ha detto il noto critico d’arte e assessore regionale siciliano ai Beni culturali Vittorio Sgarbi intervenendo ieri, 17 gennaio, a un convegno al baglio Florio del parco archeologico selinuntino (Trapani). E questo accade mentre si è appena scoperto che sotto i templi del più grande parco archeologico del mondo si nasconde una piccola Pompei. E’ infatti quanto documentano gli archeologi, i geologi e i geomorfologi che stanno lavorando nel sito e che hanno annunciato la novità incontrando la stampa italiana e internazionale.
Con una termocamera ad alta sensibilità termica, caricata su un drone, i geologi dell’Università di Camerino hanno infatti rilevato sul terreno anomalie termiche riconducibili ad importanti strutture sepolte di circa 2700 anni fa che dal ‘Tempio M’ scendono verso il porto. «Verosimilmente – ha spiegato il geoarcheologo Fabio Pallotta, consulente dell’Università di Camerino e del Parco Archeologico – era un susseguirsi di templi e di vasche colme di limpida acqua sorgiva che ruscellava verso il mare per offrire prezioso ristoro ai viaggiatori di confine. Da queste immagini termiche tutti possono osservare come il gradiente di calore delinei nel terreno perfetti disegni geometrici che circondano proprio i resti del cosiddetto ‘Tempio M’, ora collocato lungo la sponda destra del fiume Selino, ma che in origine spiccava con tutta la sua bellezza sull’estremo promontorio occidentale dell’incantevole laguna». «Questa scoperta – ha commentato il direttore del Parco Enrico Caruso – ci permetterà di trovare le soluzioni migliori per perpetuare nel futuro prossimo ed anche oltre il patrimonio straordinario di Selinunte». Quattordici, sino a oggi, i piani di volo effettuati con un esacottero, un drone con sei braccia che ha rilevato le temperature dei corpi sia vivi sia inerti. «Rimangono ancora molte strutture da indagare – ha rilevato sempre Caruso -. Va compresa la conformazione geologica della zona e il perché i selinuntini la scelsero per il loro insediamento. La città è certamente molto più ampia di quella odierna».
Ma non è questa l’unica importante novità. A Selinunte sono state trovate anche le tubature costruite dai magno greci ed attraverso le quali l’acqua arrivava nelle case, nuovi ambienti domestici destinati al culto come ad esempio altari cilindrici e la più antica raffigurazione di Ecate, divinità di origine pre-indoeuropea ripresa nella mitologia ellenica, che regnava sulla notte e sulla luna».
Dalla Sicilia a un’altra area di quella che fu Magna Grecia, le Puglie, dove Castro (Lecce) si conferma uno scrigno di tesori. Nei giorni scorsi, infatti, il team di archeologi guidato da Francesco D’Andria ha riportato alla luce l’altare del tempio di Minerva.
E non si tratta di una scoperta come un’altra, ma dell’unico esemplare di altare monumentale, in tutto e per tutto simile a quello dei templi greci, rinvenuto in Puglia. Basti pensare che per trovarne un altro simile, bisogna spostarsi a Metaponto, città lucana oggetto di campagne di scavo sistematiche, che hanno restituito i celebri templi greci e, davanti ad essi, i relativi altari. Si distingue, quindi, dagli altari tipici messapici, che erano buche scavate nella terra dove si bruciavano e si offrivano le libagioni, perché è un altare costruito, del tipo di quelli che, in età romana, si sarebbero evoluti diventando molto più grandi: si pensi, per esempio, all’Ara Pacis e all’altare di Pergamo. A Castro si è ripreso a scavare da qualche settimana grazie al finanziamento di un privato (gli scavi erano da tempo interrotti). Il tempo è stato già sufficiente per identificare l’altare – una struttura in blocchi squadrati ben lavorati lunga almeno 6 metri e larga due e mezzo dove venivano fatti i sacrifici alla dea – e una serie impressionante di reperti legati al rituale: ossa degli animali immolati, oggetti offerti come ex voto, coppette per le libagioni. Insomma, una ricchezza di informazioni che testimoniamo della vita quotidiana nel santuario.
Sui bastioni del comune adriatico, si susseguono campagne di scavo dal 2000 e grazie ad esse, oltre alle fortificazioni messapiche databili al IV secolo, è stato individuato proprio il santuario di Minerva, al quale è dovuto il nome antico della città, Castrum Minervae.
Si tratta – è ormai assodato – dello stesso tempio dedicato all’Atena Iliaca, l’Atena troiana (Minerva per i Romani), di cui fa menzione Virgilio nel III Libro dell’Eneide quando parla dell’arrivo sulle coste dell’Italia di Enea e delle sue navi.
L’altare risale alla seconda metà del IV secolo avanti Cristo ed è contemporaneo della statua di culto della dea, rinvenuta nel 2015 (vedi nostra notizia https://www.saturniatellus.com/2015/08/ritrovata-la-statua-di-minerva-che-indicava-il-primo-approdo-del-progenitore-enea-in-italia-roma-si-sta-risvelando) preceduta qualche anno prima da una piccola statuetta in bronzo. Entrambe raffigurano l’Atena di Troia, quella che indossa l’elmo frigio, a ulteriore riprova dei collegamenti con l’eroe in fuga sbarcato, secondo il mito, proprio a Castro.
Questa collezione di reperti, conservata nel Museo inaugurato nel 2016 e ospitato all’interno del Castello, ora si arricchisce di altri importanti elementi rinvenuti in questi giorni, fra cui spicca una bella maschera in bronzo, di stile tarentino, sempre del IV secolo a. C., che rappresenta forse una figura femminile, agghindata con una specie di nodo sulla testa. Probabilmente era un’offerta votiva fatta alla divinità.
P.C.