Secondo Celso il padre di Gesù era un legionario romano. Alcune considerazioni

L'epigrafe rinvenuta nel cimitero romano di Bingerbriick, a venti chilometri circa a nord di Bad Kreuznach, una cittadina a un’ora di treno da Francoforte. Sulla pietra tombale è inciso il nome di Tiberius Jiulius Abdes Pantera.
L’epigrafe rinvenuta nel cimitero romano di Bingerbriick, a venti chilometri circa a nord di Bad Kreuznach, una cittadina a un’ora di treno da Francoforte. Sulla pietra tombale è inciso il nome di Tiberius Jiulius Abdes Pantera

Secondo una storia diffusa in ambienti circoscritti, ma pubblicamente poco nota, Gesù era il figlio illegittimo di un cittadino romano.

La fonte più accreditata di tale vicenda è il filosofo greco Celso che intorno al 178 (durante il regno dell’imperatore Marco Aurelio) scrisse il trattato contro i cristiani Alethès Lógos (“La Vera Dottrina”) dove sostenne appunto che il padre di Gesù di Nazaraeth era un legionario  chiamato Pantera.

Nessuno scritto originale di Celso ci è pervenuto: i passaggi che citiamo sono tratti dall’ottavo libro del Contra Celsum, trattatello del teologo cristiano Origene che tentò di confutare le idee di Celso su richiesta del noto vescovo Ambrogio.

Ecco cosa scrive Celso, secondo Origene: “T’inventasti la nascita da una vergine: in realtà tu sei originario da un villaggio della Giudea e figlio di una donna di quel villaggio, che viveva in povertà filando a giornata. Inoltre costei, convinta di adulterio, fu scacciata dallo sposo, falegname di mestiere. Ripudiata dal marito e vergognosamente randagia, essa ti generò quale figlio furtivo. Spinto dalla povertà andasti a lavorare a mercede in Egitto, dove venisti a conoscenza di certe facoltà per le quali gli egiziani vanno famosi. Quindi ritornasti, orgoglioso di quelle facoltà e grazie ad esse ti proclamasti Dio. Tua madre, dunque, fu scacciata dal falegname, che l’aveva chiesta in moglie, perché convinta di adulterio e fu resa incinta da un soldato di nome Pantera. Ma l’invenzione della nascita da una vergine e’ simile alle favole di Danae, di Melanippe, di Auge e di Antiope. Ma era forse una bella donna tua madre e, appunto perché bella, a lei si unì Dio, che pur non e’ naturalmente portato ad amare un corpo corruttibile? Non sarebbe stato neppure verosimile che Dio si fosse innamorato di lei. Ella non era donna di condizione ricca o regale, dal momento che nessuno la conosceva, nemmeno i vicini, e, una volta venuta in odio al falegname e ripudiata, non la salvò né la divina provvidenza ne’ il Verbo della Persuasione. Tutto questo, dunque, non ha nulla a che vedere col regno di Dio.”

Vediamo di contestualizzare.

LA CITTA’ NATALE DI MARIA

Secondo la tradizione, Maria non era di Nazareth, ma era nata a Sefforis, primogenita di una anziana coppia, Anna e Gioacchino, intorno al 18 a.c. e solo in un secondo tempo si era trasferita a Nazareth.

Sefforis, chiamata con vari nomi a seconda del momento storico (Autocratoris, Neronia, Eirenopolis, Diocaesarea, Zippori, Saffurieh), fu una grande città sia nell’epoca epoca romana, sia in quella bizantina. Situata al centro della Bassa Galilea, è posta a cinque km a ovest di Nazareth, anzi è ben visibile da Nazaret essendo situata su una collina.

Sefforis era abitata da una comunità di ebrei sin dai tempi di Alessandro Janneo, verso il 100 a.C.

Nel 63 a.C. le armate romane, sotto il comando di Pompeo, conquistarono la Palestina.

Pochi anni dopo, nel 56-57 a.C. il proconsole di Siria, Gabinio, assegnò a Sefforis la sede di un Sinedrio, vale a dire il consiglio del governo interno alla comunità giudaica, e quindi riconobbe il carattere giudaico della città. Nel 55 a.C. la elesse anche capitale regionale amministrativa della Galilea.

Nonostante questa sua rilevanza, Sefforis non viene mai citata nei Vangeli.

Nel 37 a.C., durante una tempesta di neve, Erode si impossessò di Sefforis.

Durante le rivolte che scoppiarono dopo la morte di Erode, nel 4 a.C., un capopopolo conosciuto con il nome di Giuda il GaliIeo, fece irruzione nel palazzo reale di Sefforis e coi suoi seguaci si impadronì delle armi che lì erano immagazzinate e mise a ferro e a fuoco la Galilea. Sacche di resistenza e focolai di rivolta si estesero in tutto il Paese.

Lo storico ebreo Giuseppe Flavio, che visse pochi decenni dopo, scrisse che quei tempi erano così turbolenti che “qualsiasi capo di una banda di ribelli poteva auto proclamarsi re”.

I romani reagirono con rapidità e forza organizzata: il governatore della Siria, Publio Quintilio Varo (lo stesso che in seguito fu sconfitto nella foresta di Teutoburgo) mobilitò le sue tre legioni per soffocare l’opposizione. Spostò ventimila soldati dal nord del Paese, rese inoffensiva Sefforis e costrinse in schiavitù i suoi abitanti come punizione esemplare per aver preso parte all’insurrezione. Inoltre fece una retata di ribelli in tutto il Paese e mise a morte per crocifissione i duemila che avevano partecipato alla sommossa: i crocefissi, per monito, vennero posti a regolari intervalli lungo tutte le principali vie di comunicazione o sui fianchi delle colline.Immagine 2

LA GRAVIDANZA PREMATRIMONIALE DI MARIA

Al tempo della rivolta, Maria doveva avere 14 o 15 anni ed era dunque già considerata una donna, tanto da venire promessa in sposa a un artigiano di Nazareth chiamato Giuseppe.

Fu proprio in quel tempo che lei si trovò in difficoltà: rimase incinta e il padre non era Giuseppe. Proviamo a immaginare lo scalpore che deve aver suscitato la gravidanza di Maria in un villaggio piccolo come Nazareth. Entrambe le famiglie erano ben conosciute. Le abitazioni erano contigue e i figli sposati spesso vivevano in spazi annessi alla dimora principale dei genitori, con il cortile in comune. La vita del villaggio era fortemente interdipendente da un punto di vista economico e sociale; a Nazareth non potevano esistere segreti.

Giuseppe aveva un problema serio, una situazione nella quale nessun uomo vorrebbe mai trovarsi: era fidanzato con Maria, le loro famiglie avevano dato il consenso al matrimonio, ma la futura sposa «si trovava incinta» prima del matrimonio.

Era stato Giuseppe a scoprire che Maria aspettava un bambino poiché il vangelo di Matteo ci dice che si era deciso a lasciarla, ma mettendo le cose a tacere per non esporla al pubblico ludibrio. Forse pensò di aiutarla ad allontanarsi dal villaggio per dare alla luce il bambino in segreto. Una cosa era certa: non era lui il padre del futuro bambino.

Con (o senza) il suo aiuto, Maria lasciò precipitosamente la cittadina e si diresse a sud, verso un altro piccolo villaggio, Ein Karim, a più di sei chilometri a ovest di Gerusalemme, nella collinosa campagna della Giudea. Maria rimase là per tre mesi insieme a dei parenti, una coppia da lungo tempo sposata, Elisabetta e Zaccaria. A quel tempo, anche Elisabetta era in attesa – al sesto mese – del bambino che conosciamo col nome di Giovanni Battista. Non sappiamo quali legami parentali esistessero fra Maria ed Elisabetta, se fossero cugine, o forse nipote e zia (se Anna ed Elisabetta erano sorelle), ma date le circostanze, le due famiglie erano molto intime. E questo significa che Gesù e Giovanni Battista erano anch’essi parenti.

Dopo la nascita del figlio a Betlemme, la coppia fece un lento ritorno a Nazareth, proprio quando si era da poco i romani avevano represso la rivolta e la città di Sefforis era ancora avvolta da una nube che stentava a diradarsi: le rovine fumavano e nell’aria ristagnava ancora l’odore della morte.

Giuseppe, che camminava a fianco dell’asino sul quale era seduta Maria con Gesù fra le braccia, vide da lontano le spirali di fumo che si alzavano dalle rovine e poi, sulle pendici della collina, nere contro il sole, le croci. Una lunga fila di morti appesi lungo la strada.

Se si pensa alla storia di Sefforis, se si cerca di rivederla con gli occhi di Giuseppe e Maria, allora il racconto del “Natale di Gesù” va inquadrato in una serie di nuove immagini: il mondo in cui nasce il Cristo è un tragico palcoscenico di corpi in via di putrefazione inchiodati alle croci, con la città in fiamme e cittadini condotti schiavi in terre lontane.

Il futuro di quella famiglia, e di quel piccolo che essa portava, appariva davvero incerto e difficile se si aggiunge a tutto questo contesto la circostanza non indifferente che Gesù era figlio di padre ignoto.

LE ACCUSE DI DISCENDENZA ILLEGITTIMA

Le accuse alla reputazione di Gesù per la sua discendenza illegittima hanno continuato per anni.

Questo si può dedurre anche dal Vangelo di Giovanni che riporta la disputa Gesù coi farisei; lo scontro si altera fino a che uno di loro grida: “Noi non siamo nati da prostituzione”(Giovanni, 8; 41) quasi a sottintendere “come invece sei tu”.

In un testo cristiano del IV secolo, che forse risale al II, detto Atti di Pilato, si fa il resoconto del processo. Una delle accuse mosse a Gesù è: “tu sei nato da adulterio”.

In un passaggio di Giovanni chiaramente preso dal Vangelo di Marco, ricompare l’ombra di qualcosa di irregolare: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre» (Giovanni 6, 42). Che bisogna c’era, dopo che Gesù era stato definito il figlio di Giuseppe, di aggiungere “di lui conosciamo il padre”? Tutto sembra alludere a una verità che a quell’epoca doveva essere sconcertante: l’accusa di illegittimità.

Un altro vangelo, il cosiddetto Vangelo di Tommaso, scoperto nel dicembre 1945 a Nag Hammadi, lungo l’alto corso del Nilo, in Egitto, da contadini che stavano dissodando il terreno – forse il documento più prezioso sulla vita dei primi cristiani mai ritrovato – contiene 114 detti di Gesù. Nel detto 105, Gesù dice stranamente ai suoi discepoli: “Chi conosce suo padre e sua madre sarà chiamato figlio di prostituta”. In questa frase non c’è solo un’eco della turpe nomea che Gesù dovette affrontare per tutta la vita. C’è un rifiuto dell’accusa. Si sottintende anche che Gesù sapesse chi era suo padre. Il suo modo di parlare non fa pensare che alludesse a Dio.

E allora, se il padre non era Giuseppe, chi poteva essere?

 “PANTERA” NELLE FONTI SCRITTE

Se la più nota risposta ci viene da Celso – che, come detto, nel suo trattato Alethès Lógos riferì che Maria era rimasta incinta di un soldato romano chiamato Pantera e fu cacciata dal marito come adultera –  il nome, tuttavia, appare anche in documenti precedenti.

Il rabbino Eliezer ben Ircano, che visse alla fine del I secolo, parla di insegnamenti a lui stesso impartiti «nel nome di Gesù, figlio di Pantera» da Giacobbe di Sikhnin, della città di Sefforis.

Questo Giacobbe è stato identificato come nipote di Giuda, il fratello minore di Gesù. C’è una disputa, in quel tempo, fra rabbini, che coinvolge Giacobbe, se ciò sia lecito o no guarire dai morsi di serpente «nel nome di Gesù, figlio di Pantera».

Queste antiche fonti non ci dicono niente sui motivi per i quali Cristo veniva designato così e nemmeno identificano Pantera come un soldato romano. Però dimostrano come questo nome circolasse in Galilea piuttosto presto e venisse usato allo scopo di identificare Gesù, non di calunniarlo. Nel mondo ebraico, quando si vuole identificare una persona, se ne cita il nome, seguito da quello del padre: “Ben Pantera = Figlio di Pantera”.

Non ci sono dubbi su questa designazione di Gesù, perché studiosi tardo-cristiani si sono sentiti in dovere di asserire che Pantera era un termine ingiurioso, derivato da un gioco di parole sul sostantivo greco portbenos che significa “vergine”.

Altri ancora hanno suggerito che Gesù venisse diffamato come “figlio di una pantera” in riferimento alla natura selvaggia e lasciva del presunto padre.

Sembrano argomentazioni piuttosto stravaganti, essendo evidente che quanto riferito dai rabbini in precedenza non era ispirato da alcuna polemica.

Anche Epifanio, un cristiano ortodosso del IV secolo, attribuisce un certo grado di veridicità alla tradizione di “Gesù figlio di Pantera” e la spiega col fatto, riferito solo da lui, che Giuseppe era conosciuto come Giacomo Pantera.

Ancora nell’VIII secolo saltano fuori, in modo insolito, tentativi simili.

Giovanni di Damasco, padre della Chiesa greca e santo, asserisce che era il bisnonno di Maria a chiamarsi Pantera.

È evidente che quel nome continuava a turbare le coscienze cristiane e questo dimostra che la voce aveva una certa consistenza, non poteva essere semplicemente accantonata come un artificio malizioso degli oppositori giudei.

Ora gli archeologi hanno scoperto che Pantera è un nome greco presente in numerose iscrizioni latine dell’epoca, specialmente come soprannome di giovani arruolati nelle legioni. Furono i soldati romani a portare quel nome in Palestina. Prima non c’era. Di una cosa possiamo essere sicuri: non è un termine inventato per calunniare.

L’EPIGRAFE IN GERMANIA

I solerti difensori della legittimità di Cristo non potevano certo immaginare che dopo più di mille anni le ricerche storiche avrebbero bollato le loro rivelazioni come pietose bugie escogitate a fin di bene.

Per una sorte capricciosa che guida i passi della storia, in una località lontana e che aveva nulla a che vedere con la Palestina, in Germania nel 1906, lo storico tedesco Adolf Deissmann pubblicò un breve articolo intitolato Der Name Pantera ed espose dettagliatamente le varie iscrizioni nelle quali quel nome era apparso nel I secolo d.C.

Egli dimostrò una volta per tutte che quell’epiteto aveva una certa diffusione nell’esercito. Era un’abitudine del tempo, ma bisogna dire che prendere un nome di battaglia, in particolare di felini e di rapaci, è ancora una costante nei reparti speciali di combattenti.

Risaltava, in particolare, un esempio da lui citato.

Nel cimitero romano di Bingerbriick, a venti chilometri circa a nord di Bad Kreuznach, una cittadina a un’ora di treno da Francoforte, dove il fiume Nahe confluisce, da sinistra, nel Reno, era stata trovata una pietra tombale con inciso il nome di un certo Tiberius Jiulius Abdes Pantera.

Deissmann allegava al suo testo anche una foto, che mostra la figura scolpita di un legionario romano con la testa e il collo fratturati e una iscrizione latina ben conservata ai suoi piedi. La traduzione letterale è questa:

Tiberio Giulio Abdes Pantera di Sidone, anni 62 soldato con 40 anni di servizio nella prima coorte di arcieri giace qui.

Deissmann notò che Abdes Pantera era nato nell´ antica Sidone, l’attuale Sayda, una città costiera del Libano meridionale, a nord di Tiro, lontana meno di settanta chilometri da Sefforis.

Su quella pietra tombale si trovano riferimenti sparsi in vari libri. Tutti gli storici si limitano a citare l’articolo di Deissmann, scritto cento anni fa. Ma nessun l’ha realmente studiata.

C’era da chiedersi se quella lapide non fosse andata perduta nelle turbinose vicende di due guerre mondiali per cui era passata.

Ebbene, quel piccolo museo di Bad Kreuznach, menzionato da Deissmann nel 1906, esiste ancora. A Bad Kreuznach, vi è effettivamente un museo di antichità romane, chiamato Römerhalle. Le la tomba/lapide di Tiberio Giulio Abdes Pantera è lì in mostra assieme ad altre nove, tutte di legionari romani.  Le avevano scoperte nella stessa località, durante gli scavi per la costruzione della stazione ferroviaria di Bingerbriick, tra il 1859 e il 1861 ed erano state diligentemente collezionate dalla associazione storica locale con le note relative al ritrovamento di ciascuna e poi esposte nel vecchio museo civico.

Ora sono nella Römerhalle.

Non solo; ma si ha informazioni che, nascosta fra dozzine di vecchie tele, in un ripostiglio, c’è pure una copia ben conservata dell’originale dipinto a olio eseguito nel 1860 durante i lavori di recupero, a disposizione dei futuri ricercatori.

Tutto ciò è sconvolgente, e non occorre essere un archeologo per capirlo; c’è la una possibilità, per quanto remota, di trovarsi di fronte a un´ autentica reliquia della famiglia di Cristo.

La domanda è: Tiberio Giulio Abdes Pantera aveva o no a che fare con quanto era tramandato su Gesù “figlio di Pantera”.

Ai tempi dell’impero di Roma, Bad Kreuznach era un campo fortificato di frontiera.

In tutta la campagna circostante affiorano antiche rovine. Quell’area era per i romani ciò che sono stati il Vietnam o l’Iraq di oggi per gli statunitensi. Un numero impressionante di legionari fu trasferito dai Paesi caldi sparsi intorno al Mediterraneo alle terre fredde del Nord, nei remoti avamposti intorno al corso del Reno, fra immense foreste immerse nella nebbia. Coloro che sopravvissero alle battaglie e alla guerriglia vissero qui, anche quando l’età avanzata gli permetteva di prestare un servizio ridotto. Qui morirono e qui furono sepolti.

La scoperta delle lapidi, tra cui quella di Pantera (tre in tutto) risale il 19 e il 20 ottobre 1859 ed avvenne a poco più di duecento metri dall’attuale corso del Nahe.

Nella lapide si legge il soprannome – Pantera -, i nomi acquisiti – Tiberio Giulio – e il nome di origine – Abdes.

I nomi acquisiti indicano che Pantera non era romano di nascita: gli erano stati dati evidentemente in onore dei due imperatori che aveva servito. All’epoca di Tiberio era possibile ottenere la cittadinanza romana anche a un provinciale, dopo un certo periodo trascorso nell´esercito. La ferma durava venticinque anni. Ma Pantera vi, restò per quaranta, dall’arruolamento, avvenuto a 22 anni, fino alla morte a 62. Poiché Tiberio diventò imperatore nel 14 d.C. e morì nel 37, è probabile che Pantera sia morto poco dopo, presumibilmente per cause naturali.

Il nome Abdes è molto interessante. È una versione latinizzata dell’aramaico Ebed che significa “servo di Dio” e indica che le origini di Pantera erano semitiche, o perfino giudaiche, per nascita o per conversione, oppure perché membro di una famiglia cosi collaterale al giudaismo da dargli quel nome. Il soprannome Pantera è greco, anche se qui appare in una iscrizione latina.

Nel 1891, l’archeologo francese Clermont Ganneau ha scoperto che in una tomba ebraica del I secolo d.C., sulla strada di Nablus, a nord della Città Vecchia di Gerusalemme, c´era un ossario con il nome Pentheros in greco e accanto quello del figlio, Josepos. Le sepolture indicano senza possibilità di equivoci che i due erano giudei e questo ci dà la prova definitiva che al tempo di Gesù, il soprannome di Pantera poteva essere usato anche dai giudei.

Abdes Pantera era di Sidone, oggi Sayda, che non è lontana da Sefforis. Sappiamo che la prima coorte di arcieri, nella quale militava, proveniva dalla Palestina, era giunta dalla Dalmazia nel 6 d.C., ed era stata trasferita alla confluenza del Reno e del Nahe nel 9 d.C., l’anno del disastro di Teutoburgo nel quale furono distrutte le legioni di Publio Quintilio Varo, già governatore della Siria. Da allora, i romani mantennero avamposti permanenti in Germania e il cimitero di Bingerbriick ci fornisce la prova che i veterani trascorrevano gli ultimi anni in servizio ridotto sulla frontiera. Non c’è dunque da stupirsi che Abdes Pantera sia stato sepolto lì. Le altre nove lapidi funerarie sembrano risalire dalla metà al tardo I secolo. Lo testimoniano le monete ritrovate accanto, lo stile delle lapidi, il contenuto delle iscrizioni il dipinto del 1860 sulla scoperta mostra chiaramente che furono riportate alla luce anche le urne con le ceneri e le ossa dei defunti, ma i documenti dicono che gran parte furono distrutte durante gli scavi e una sola rimase intatta. Non è stato ancora possibile ritrovarla. Sarebbe veramente miracoloso se il destino avesse voluto salvare proprio i resti di Abdes Pantera. Forse il tempo ce lo dirà.

Che cosa concludere? Abdes Pantera era di Sidone. Forse era ebreo. Si arruolò nell’ esercito romano. Rimase in Palestina fino al 6 d.C. Aveva pressappoco l’età di Maria, la madre di Gesù. Abbiamo il nome, la professione, il luogo e il tempo esatti.

Forse tutto è frutto del caso. Non c’è modo di provare alcuna connessione con la paternità del Cristo, ma l’evidenza dei particolari e le straordinarie coincidenze che convergono in tutta la vicenda, impongono che non è possibile ignorarla.

Non sarebbe corretto pensare che, per un ebreo dell’epoca, l’essere figlio di un soldato romano comportasse necessariamente qualcosa di negativo.

Nei vangeli non c’è una sola parola contro l’esercito d’occupazione.

Comunque, Giovanni Battista aveva seguaci fra i soldati (Luca 3, 14) e alcuni di loro furono tra i primi fedeli di Gesù.

Di un centurione romano a Cafarnao, Cristo dice: «lo vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande» (Luca 7, 9).

Ed è un centurione romano che alla sua morte esclama: «Davvero quest’uomo era figlio di Dio» (Marco 15, 39).

Alcuni studiosi che attribuiscono un valore storico alla tradizione di un Gesù “figlio di Pantera” hanno suggerito che, forse, Maria fu violentata da un soldato dell’esercito romano. Se si considerano i tempi oscuri e le circostanze turbolente, una possibilità del genere esiste.

Un’altra ipotesi potrebbe essere quella che Maria sia rimasta incinta in una relazione da lei scelta. Poiché non sappiamo niente della gravidanza di Maria, né della sua relazione con il padre vero di Gesù, fosse o no questi un legionario, non c’è alcuna ragione di supporre qualcosa di sinistro.

Non conosciamo alcun dettaglio delle circostanze che portarono al fidanzamento di Maria con Giuseppe. Lei era consenziente a un matrimonio combinato con un uomo anziano? Aveva avuto una relazione precedente?

Abbiamo visto che Abdes Pantera, il militare sepolto in Germania, è stato coetaneo di Maria all’ epoca della nascita.

LA CASA DEL MISTERO

C’è un ultimo tassello.

È uno degli episodi più strani riferiti da Marco nel suo vangelo, che è stato scritto, prima degli altri. Marco chiama sempre Gesù “figlio di Maria” e non menziona mai Giuseppe, né le circostanze della nascita. Marco riferisce però bruscamente di un misterioso viaggio-parallelo compiuto da Gesù durante la sua predicazione nelle terre circostanti Genezaret. “Partito di là, andò nella regione di Tiro e di Sidone. Ed entrato in una casa, voleva che nessuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto.” (Marco 7, 24). Ci viene detto anche che quando da Tiro fece ritorno in Galilea, Gesù passò per Sidone (Marco 7, 31), percorrendo dunque un giro vizioso, una strada che non è certo la più diretta.

Nessuno ha mai spiegato questo strano viaggio.

L’evangelista Luca non ha alcuna idea di che cosa fare di questo racconto e quando attinge al vangelo di Marco, lo lascia cadere. Matteo lo riporta, ma cancella la parte in cui Gesù entra in una casa di nascosto ed elimina i dettagli del ritorno attraverso Sidone (Matteo 15, 21-29). Forse quelle notizie erano per lui irrilevanti o forse voleva evitare che i lettori si chiedessero per quale motivo Gesù avesse lasciato improvvisamente la Galilea e si fosse diretto verso Sidone (che è la città di Abdes Panthera).

E di chi è la casa del mistero? È anche degno di nota il fatto che Gesù elogi costantemente Tiro e Sidone, che non sono città ebraiche, perché potenzialmente più aperte alla sua parola (Luca 10, 14).

È possibile o verosimile che questi fatti siano connessi? Chi voleva incontrare Gesù? Sembra che il modo brusco col quale viene trattato l’episodio lasci intendere qualcosa di più.