La Coppa di Licurgo è un preziosissimo e incredibile calice romano del IV secolo realizzato con un vetro dicroico, che ha cioè colori diversi a seconda dell’esposizione alla luce: assume una tonalità rosso rubino se viene illuminato posteriormente verde chiaro se illuminato frontalmente.
È l’unico oggetto di vetro romano, pervenutoci integro, che ha queste caratteristiche.
E’ stato definito da Donald Benjabin Harden, noto archeologo anglo-irlandese del secolo scorso, specialista in vetri antichi, “la coppa più spettacolare mai esistita”.
Come tantissimi altri capolavori romani, è esposto più o meno legittimamente al British Museum che lo acquistò negli anni ‘50 del secolo scorso dai Rothschild, noti trafugatori di antichità.
La tazza/coppa/calice, che misura 16,5 x 13,2 cm, è inserita in una gabbia, o diatretum , in cui il vetro è stato tagliato con grande perizia e poi forato per lasciare la decorazione al livello originale della superficie. La decorazione presenta il mitico scontro tra Licurgo e Dioniso.
EFFETTO DICROICO
L’effetto dicroico (doppio colore) è ottenuto per mezzo dell’incorporazione, nel vetro, di una piccola quantità di nano-particelle d’oro e argento, disperse in forma colloidale a formare sub-microscopici cristalli: la luce che passa attraverso il vetro o viene da questo riflessa, grazie alle particelle altera il colore della coppa stessa.
E qui viene il bello, perché il processo utilizzato allora per conseguire questo effetto ci è sconosciuto.
Gli scettici della Romanità sostengono che gli artigiani manifatturieri romani abbiano scoperto questa metodologia in maniera fortuita, grazie all’avvenuta contaminazione accidentale del vetro con polvere d’oro e d’argento, finemente macinata. Altri hanno ipotizzato che i romani non sapessero nemmeno il ruolo dell’oro nel processo di incorporazione: dal momento che le quantità necessarie sono minime, il processo potrebbe essere stato attivato dalle impurità d’oro contenute nell’argento, aggiunto per caso a seguito di un’altra lavorazione (la maggior parte dell’argento romano contiene, infatti, piccole proporzioni d’oro).
Tuttavia, la scoperta di altri manufatti di questo tipo, anche se ritrovati solo in frammenti, dimostrano che gli artigiani romani avevano ben compreso il meccanismo che contraddistingue il vetro dicroico.
L’aggiunta di metalli, o ossidi di metallo, non era dunque una pratica sconosciuta ai vetrai, che già realizzavano vetri rossi e marroni utilizzando il rame. Tuttavia, colorare il vetro con oro e argento non doveva essere una consuetudine, ma piuttosto il retaggio di pochi e selezionatissimi opifici.
Non è, infatti, sufficiente l’aggiunta di questi metalli per produrre il particolare effetto ottico. Per ottenere quel risultato occorre controllare diversi fattori, come la concentrazione dei metalli, la dimensione delle particelle, lo stato di ossidazione di alcuni elementi, il tempo, la temperatura di riscaldamento.
La circostanza stupefacente è che, dunque, possiamo ipotizzare che i romani conoscessero l’uso delle nano-tecnologie.
Le particelle misurano solo circa 70 nanometri e sono immerse nel vetro, quindi non è possibile osservarle mediante microscopia ottica, essendo necessario ricorrere a un microscopio elettronico a trasmissione. L’interno della tazza è molto liscio, ma nella parte posteriore delle figure principali il vetro è stato svuotato, in modo significativo, riducendo lo spessore delle figure e producendo un tono chiaro uniforme quando viene attraversato dalla luce. Questa è una caratteristica unica tra le coppe sopravvissute.
Harden suggerisce che ciò potrebbe essere stato il prodotto di un’ulteriore elaborazione. Un’area attorno al busto di Licurgo ha, infatti, un colore diverso dal resto del vetro e quest’area è stata sfruttata dall’artigiano del vetro “in modo tale che l’intensa luminosità risalti la rabbia di Licurgo”. Dopo la prolungata fase di taglio del vetro, è stata eseguita una lucidatura fine per conferirgli l’aspetto finale.
PRODUZIONE
Come altri pezzi notevoli in vetro romano esistenti al British Museum, vedi il vaso Portland, la coppa è un esempio delle abilità sviluppate dai tagliatori di gemme, o rocce dure semi-preziose, per produrre contenitori che erano oggetti di gran lusso e prestigio a Roma. Non ci sono altri vasi scolpiti in pietre paragonabili alla Coppa di Licurgo, ma le capacità di maneggiare il vetro necessario per la sua fabbricazione hanno caratteristiche simili a quelle necessarie per la produzione di oggetti in pietre naturali come la Coppa tolemaica o il vaso di Rubens . In effetti, non è stato possibile, fino ai primi studi dettagliati del vetro nel 1950, determinare che il materiale utilizzato fosse il vetro e non la pietra.
È probabile che diverse operazioni abbiano contraddistinto l’intero processo di fabbricazione della nostra coppa, forse pure svolte in diverse aree dell’impero. È possibile che il vetro sia stato inizialmente preparato sotto forma di un grande blocco trasparente standard, in Egitto o in Palestina, e colorato altrove. Il contenitore dicroico di base fu probabilmente fabbricato in un’officina specializzata, per essere successivamente trasferito ad un altro composto da intagliatori specializzati. Questo era indubbiamente un oggetto raro e molto costoso e segreti della sua fabbricazione erano da tutelare.
La coppa ha diversi piccoli danni, il più significativo è l’assenza della faccia della pantera; inoltre la coppa è fessurata, il piede della tazza è danneggiato e la forma originale della base è sconosciuta.
La flangia in bronzo dorato e il piede attuale della coppa furono aggiunti solo nell’800.
ICONOGRAFIA
Le scene raffigurano il re Licurgo, la vite, la ninfa Ambrosia, Dioniso, Pan, un satiro e la pantera.
La figura di Licurgo, stretta dai tralci di vite, è nuda, a parte gli stivali; è affiancata a sinistra da Ambrosia, accovacciata; dietro di lei uno dei satiri di Dioniso in piedi nell’atto di scagliare una pietra; a destra di Licurgo la figura di Pan, ai suoi piedi c’è una pantera, tradizionale compagna di Dioniso; questa manca del viso e sta sonnecchiando accanto al dio; infine c’è Dioniso con il braccio destro teso in un gesto di rabbia, nella mano sinistra il tirso; l’abbigliamento di Dioniso ha un aspetto orientale, che riflette la credenza circa l’origine di questo culto, ed è monco del polpaccio.
L’iconografia del mito dello scontro tra Dioniso e Licurgo non sempre è univoca. Le rappresentazioni più simili alla scena realizzata della coppa sono presenti in diversi mosaici: nell’abside nel triclinio di Villa del Casale di Piazza Armerina, in Antiochia, nel mosaico del museo di Saint-Romain-en-Gal e nel pavimento della villa romana sull’isola di Wight. Infine la stessa scena è quella presente nel gruppo scultoreo di un sarcofago di Villa Parisi a Frascati.
È stato suggerito che questa scena fosse un riferimento alla vittoria del 324 dell’imperatore Costantino sul suo co-imperatore Licinio, assassinato nel 325 .
Tuttavia la coppa potrebbe essere anteriore. A supporto una supposta lettera dell’imperatore Adriano a suo cognato Lucio Giulio Urso Serviano, citata in Historia Augusta, dove sono nominati oggetti simili: “Ho inviato le coppe che cambiano colore (…) dedicate appositamente a te e mia sorella, vorrei che tu li usassi durante i banchetti”.
Un’altra interpretazione è un uso religioso e non ludico/cerimoniale: qui il cambiamento di colore, da verde a rosso, simboleggerebbe la maturazione dell’uva e quindi la coppa potrebbe aver avuto la funzione di accompagnare un rito dionisiaco; in questo contesto non è escluso che il passaggio dal verde al rosso rappresenti l’esoterico passaggio di stato, ben noto a Virgilio e presente in tutti i rituali misterici dell’antichità (da Eleusi a Samotracia). E se così fosse, si tratterebbe di un simbolismo coevo a quelle figure politico-filosofico-religiose del quarto secolo, l’imperatore Giuliano, Simmaco, Pretestato, Nicomaco, Macrobio e Proclo, che vissero gli snodi decisivi del collasso del paganesimo di Stato.
STORIA
La storia antica della coppa non ci è nota. Si ritiene comunemente che sia stata realizzata tra Alessandria d’Egitto e Roma in una forbice di tempo che va dal 290 al 325, anche se l’ipotesi “adrianea” la anticiperebbe.
Considerato il suo eccellente stato di conservazione è possibile che durante la crisi della Romanità e poi nell’Alto medioevo, come avvenne per molti altri oggetti di pregio romani, non sia stato sepolto, ma solo tesaurizzato e nascosto per generazioni. In alternativa, è ipotizzabile che sia stato occultato per secoli in un sarcofago o in una cripta di una chiesa.
Per giungere ad una sua prima menzione occorre attendere il 1845 quando, in una stampa francese, l’estensore afferma di aver visto la coppa cangiante “alcuni anni fa, nelle mani di M. Dubois a Parigi”. La “pista” francese porterebbe a ipotizzare che la Coppa di Licurgo sia uno dei tanti preziosi strappati al tesoro di una chiesa durante i saccheggi della rivoluzione francese e poi rivenduto più volte.
Di certo c’è solo il fatto sta che la coppa viene in qualche modo in possesso della famiglia Rothschild intorno alla metà del XIX secolo, riemergendo così alle cronache. Gustav Friedrich Waagen, storico dell’arte tedesco attivo nel XIX secolo, la vide nel 1857 visitando la collezione di Lionel Rothschild e ne riportò la circostanza.
Si sa che nel 1862 la coppa fu esposta in mostra a Londra in quello che oggi è il Victoria and Albert Museum. Solo nel 1958 Victor Rothschild vendette il prezioso vaso al British Museum di Londra (per la somma di 20.000 sterline).
La coppa è oggi esposta nella sala 41 del museo, in una bacheca vetrata con una fonte di luce all’interno che mostra efficacemente il cambiamento di colore, ovvero quella magia che ha preso il nome di “effetto Licurgo”.
Paolo Casolari