La festa dei Lupercali (Lupercalia) è la più antica e duratura festa di tutto il ciclo storico della Romanità.
La ricorrenza, che veniva celebrata subito dopo le Idi e sino a tutto il 15 febbraio, venne ripetuta per ben milleduecento anni, sino al sesto secolo dell’era comune, in piena epoca cristiana.
Solo allora venne abolita da papa Gelasio e successivamente e progressivamente sostituita/silenziata con la più pudica festa di S. Valentino, che cade non a caso quindi il 14 febbraio.
La celebrazione romana propiziava la purificazione, l’esplosione del caos, la fecondità delle femmine e della terra e sanciva il passaggio all’età adulta dei giovani maschi.
Si teneva per due giorni dopo le idi e “ruotava” tutt’attorno alla grotta del Lupercale, l’antro/radura ubicato alle sponde del Tevere dove si arenò la cesta coi gemelli Romolo e Remo, grotta peraltro riscoperta nel 2007 alle pendici del Palatino, ove un tempo s’impaludava il fiume di Roma.
L’origine leggendaria, citata anche da Ovidio, fa risalire l’origine della festa dei Lupercali al regno di Romolo e a un prolungato periodo di sterilità femminile.
Allora si invocò Giunone e si ottenne un responso inquietante: le donne dovevano essere penetrate da un sacro caprone; un augure etrusco interpretò l’oracolo nel senso di sacrificare un capro e tagliare strisce di pelle con cui colpire le donne affinché, dopo dieci mesi lunari, potessero partorire.
La festa/cerimonia/rito funzionava così. La mattina “scendevano in pista” due schiere contrapposte di giovani romani: dodici Fabiani e altrettanti Quinctiales, nudi con le membra spalmate di grasso e una maschera di fango sulla faccia. I Quinctiales erano legati alla famiglia Quinctii e associati con Romolo; i Fabiani erano legati alla famiglia Fabii ed erano associati con Remo. Dopo il 45 e.v. si aggiunse il terzo gruppo dei Iuliani in onore di Caio Giulio Cesare.
Si partiva la mattina con una cerimonia (fonte Plutarco) che “iniziava” i nuovi luperci.
Il rito avveniva nella grotta del Lupercale, il famoso antro sui fianchi del Tevere dove si arenò la cesta con Romolo e Remo (oggi ubicato sotto la chiesa di S. Anastasia alle pendici del Palatino verso il Circo Massimo).
Qui si sacrificavano capre e un cane. Dopodiché i nuovi adepti venivano segnati sulla fronte, intingendo il coltello nel sangue delle capre appena sacrificate. Il sangue veniva asciugato con lana bianca intinta nel latte di capra.
Il significato era quello di un atto di morte e poi di rinascita.
Successivamente venivano fatte indossare ai luperci pelli delle capre sacrificate, dalle quali venivano tagliate delle strisce, le februa o amiculum Iunonis, da usare come fruste (alla forma delle februae risalgono gli odierni dolci del carnevale, frappe o chiacchiere, che hanno l’aspetto delle strisce di cuoio chiuse a fiocco o distese).
Compiuto un pasto abbondante, tutti i luperci, vecchi e nuovi iniziati, partendo dal Lupercale iniziavano una corse forsennata intorno al colle Palatino. Saltavano e colpivano con rami di fico selvatico il suolo per favorirne la fertilità e percuotevano le giovani donne con le fruste per propiziarne ed ottenerne la fecondità. Le ragazze, ridendo di spavento alla vista di questi giovani invasati e fallici, offrivano loro volontariamente il ventre; col tempo si limitarono alle palme delle mani.
I luperci – lupi/hirci – erano, dunque, lupi nella loro corsa sfrenata intorno al colle e capri nell’infondere la fertilità dell’animale alla terra e alle donne.
Dopo la lunga corsa sfrenata e propiziatoria, i giovani, sfiniti e rischierati, entravano ufficialmente in città, nel Foro, attraversando il più antico arco di Roma, il Tigillum (trave) Sororium (delle sorelle), a menzione di Giunone Sororia, patrona delle giovani a cui maturano i seni, ovvero sororiano, crescono insieme, come sorelle.
L’attraversamento di questa porta segnava solennemente per i luperci il passaggio dal tempo selvaggio giovanile, che se ne andava via per sempre, al tempo del cittadino e della romana disciplina.
Non conosciamo le regole precise della sfida tra le due squadre, sappiamo però che la festa/rito/cerimonia vedeva la partecipazione convinta di tutta l’Urbe ed i figli delle famiglie più in vista facevano a gara per unirsi ai luperci, i quali terminavano la giornata con un gigantesco e festoso banchetto collettivo.
La festa spiega la centralità, anche funzionale, della grotta del Lupercale nella Romanità e l’attenzione di Augusto che la restituì agli antichi fasti: era questa un topos simbolico e fisico ove celebrare il rito della cerimonia annuale che annodava, e insieme garantiva, la connessione tra la nascita della Civitas romana e il ciclo eterno della vita che si rinnova a se stessa. E’ questa la vera grotta della Natività della nostra Civiltà.
Due considerazioni finali, di costume.
A Modena, ma penso anche altrove, in febbraio, durante gli assembramenti cittadini nelle feste di principali di Carnevale, i maschietti in età puberale sono usi (o almeno lo erano sino all’avvento del politicamente corretto) inseguire mascherati le femminucce per le strade e i vicoli del centro storico e percuoterle gioiosamente con bastoni di gommapiuma o spruzzarle di schiuma da barba. E’ un usanza in cui è stupefacente il parallelismo con la pratica dei luperci di duemila anni fa: nessun ragazzino di oggi ha la minima idea del motivo per cui percuote scherzosamente le femminucce, ma lo fa, ripetendo in automatico un gesto ancestrale di propiziazione della fecondità e di sollecito delle vibrazioni amorose.
L’altra curiosità è di carattere culinario: alla forma delle februae, le strisce di cuoio dei luperci, risalgono gli odierni dolci del carnevale, le frappe o le chiacchiere, che hanno appunto l’aspetto delle strisce chiuse a fiocco o distese.
Paolo Casolari