Quasi tutte le principali ricorrenze di fine e inizio anno che siamo abituati a celebrare che segnano lo scandire delle nostre stagioni di vita e del nostro tempo sono, in origine, feste romane (o, al più, italiche preromane) riviste e corrette, e innestate sul tronco originario dalla chiesa cattolica.
Dalla più importante, il 25 dicembre, Natale del Sole invincibile (nascita di Cristo), al 1° gennaio Calende di Giano (Capodanno), sino al 6 gennaio (Epifania/Befana), cui corrispondevano dal 3 al 5 i Compitalia e il 9 gli Agonalia.
La stessa natura – di solennità con reciproci scambi di strenne, di celebrazioni della gioia, nascita e rigenerazione, di cacciata delle forze negative – è comune.
Per non parlare degli odierni presepio, albero e befana, tutte tre usanze rispettivamente mutuate dalla Romanità:
la prima con lo scambio di statuette tra i bambini e la sistemazione annuale dei larari con nuovi sigilla (appunto, statuette),
la seconda con la ripresa dell’uso di adornare le case con festoni di abeti durante i Saturnali,
la terza dalla “storpiatura” del volo benedicente di Diana sui raccolti d’inizio anno.
Ma vediamole più da vicino.
NATALE
I festeggiamenti del 24/25 dicembre furono istituiti a Roma da papa Giulio I nel 337 sotto l’imperatore Costantino, il quale stabilì ufficialmente, per la prima volta, che il nazzareno era nato nella notte tra il 24 ed il 25 dicembre del 753 ab Urbe condita. Pertanto in quella data andava celebrato tutti gli anni e con tutti gli onori. Da allora (o meglio, dopo qualche lustro di “rodaggio”) i festeggiamenti del 25 dicembre non si sono mai più fermati (vedi anche i rapporti del Natale con Romolo: https://www.saturniatellus.com/2017/05/lo-sconcio-sulla-grotta-della-nativita-roma-cosa-cela-la-rimozione-della-scoperta-del-lupercale/).
Tutti gli storici sono d’accordo nel ritenere questa data sia convenzionale, sostanzialmente arbitraria e priva di qualsiasi fondamento storico.
Come ci documentano gli archeologi, infatti, nella seconda metà di dicembre esistevano catene di di ricorrenze “di luce” festeggiate da tutte le popolazioni indoeuropee. I precedenti cui i cristiani potevano ispirarsi dunque non mancavano.
Perché allora papa Giulio scelse Roma e la sua tradizione per lanciare questa decisione che avrebbe lasciato un così grande segno nei secoli?
Perché l’Urbe era la capitale del mondo da cui obbligatoriamente si doveva partire per diffondere, a cascata e a raggiera, quello che si voleva divenisse uno dei pilastri e dei dogmi della nuova religione importata dal deserto della Palestina.
E così il clero di allora, non certo senza la collaborazione interessata di quel grande opportunista che fu l’imperatore Costantino, impose al mondo conosciuto la nuova festività, sovrapponendola come un lenzuolo ad una consolidata serie di ricorrenti e importanti festeggiamenti romani (e pagani) di dicembre.
Vediamoli.
Innanzitutto, i Saturnalia, dal 17 al 23 dicembre in onore di Saturno, tra le più sostanziose ricorrenze romane. Con i Saturnalia iniziava un periodo di vacanza e di spensieratezza dovuto anche alla natura dei festeggiamenti che prevedevano un’inversione dei ruoli tra padroni e schiavi, l’elezione del re dei saturnali, lo scambio di regali, burle, il travestimento con maschere il gioco d’azzardo; il tutto realizzava un rigenerante periodo di sospensione delle regole, una sorta di rovesciamento rituale, nel tempo di passaggio che è l’inverno, che controllava le spinte contestatrici e neutralizzava le forze e gli spirti nefasti. Questa funzione catartica che orientava e canalizzava, qualifica così i Saturnali nei veri progenitori del nostro Carnevale.
Durante i Saturnalia poi, il venti del mese, si celebravano i Sigillaria, la festa delle statuette (sigilla), dove i ragazzini ordinavano il larario/altarino di casa rappresentando, con le statuette, in una sorta di “plastico” un miniaturizzato ambiente bucolico. Nella vigilia della festa la famiglia qui si riuniva per invocare gli dei e lasciare offerte. Il mattino dopo i ragazzini trovavano giocattoli e dolci sul larario, “portati dagli antenati”.
Dopo l’istituzione di queste feste a Roma sorsero mercati temporanei ove si vendevano capanne e statuette di lari in cera, gesso e argilla che poi i Romani si scambiavano durante le feste. Incredibilmente tutto questo accadeva nei Saepta Iulia, spazi architettonici del Campo Marzio, inizialmente usati per scopi elettorali, che erano a due passi dalla romanissima piazza Navona, dove ancor oggi, in dicembre, si vendono i presepi prima di Natale. Sarà un caso?
Il 21 dicembre erano invece festeggiati gli Angeronalia o Divalia in onore della Diva Angerona, il Nume del silenzio che permetteva gli attraversamenti negli stretti passaggi, come quello del sole nel giorno più corto dell’anno e che (per Macrobio) “liberava con la forza del pensiero silente la luce solare dalle sue angustie” (angor, in medicina, è la “stretta” o l’angina), custode infine del segreto, tuttora inviolato, sulla natura del nume/Genio tutelare di Roma e del suo nome.
Il 23 era poi la volta dei La(u)rentalia, feste in onore di Acca Larentia, la nutrice di Romolo e Remo, e insieme di Brumaia, ovvero il giorno più breve, contrazione di Brevima Die (la v si leggeva u in arcaico), ovvero il Solstizio, la notte di passaggio che segna e precede l’alba della rinascita del sole invincibile (Dies natalis Solis Invicti), che torna quindi ad allungarsi, celebrata in tutte le tradizioni indoeuropee con il rito del fuoco acceso a mezzanotte con il quale invocare il ritorno della luce, il calore del sole e l’abbondanza per il futuro.
Perché il 23 e non il 21?
Perché il 23 era il Solstizio “percepito e visibile” dalla lati-longitudine astronomica di Roma, il 21, giorno del silenzio, era invece quello della “reale” sincronia astrale.
Non finisce qui.
Dal terzo secolo, precisamente dal 274, grazie all’imperatore Aureliano si iniziò a celebrare a fine dicembre la festa della dedica del Tempio del Sole Invincibile (Templum Solis Invicti): si teneva in due momenti: il 23 dicembre per ricordare la posa della prima pietra del tempio del Sole, il 25 per solennizzare il momento in cui i giorni incominciano di nuovo ad allungarsi.
La solennità cristiana, dunque, nasce qui e solo qui.
CAPODANNO
Il 1° gennaio, il nostro Capodanno, a Roma si festeggiavano le Calende di gennaio, dedicate a Giano. Si tratta di feste antichissime istituite da Re Numa quasi otto secoli prima dell’era comune e ufficializzate quattrocento anni dopo con la Lex Acilia. Al dio si offriva una focaccia di farro e sale e ci si invitava a cena scambiandosi rami di alloro (strenne) e dolci affinché l’anno iniziasse “facile”. In molte regioni italiane per le feste di fine anno si preparano torte a base di miele, proprio come facevano i romani con la loro focaccia votiva dedicata a Giano nei primi giorni dell’anno.
Dal 3 al 5 gennaio erano festeggiati i Lari con le Compitalia. Dedicate ai Lares Patrii (i Lari dei fondatori della società romana), ai Lares Prestites (Lari pubblici protettori dell’Urbe), ai Lares Compitales (i Lari dei crocicchi) ed ai Lares Viales (i Lari protettori delle strade). Anche qui, la festa era un insieme di offerte pubbliche votive e di ludi privati, con scambi di doni tra amici e conoscenti, offerte di statuette scolpite nel legno prelevato dai boschi sacri dedicati alla Dea Strenia (da cui strenne) insieme a ramoscelli sacri di alloro e ulivo, fichi e mele con l’augurio che l’anno in arrivo potesse essere dolce come quei frutti. E poiché il nome della dea Strenia era sinonimo di prosperità, l’uso assunse lo stesso nome di strenne.
Il 9 gennaio erano gli Agonalia, il giorno di festa dedicato al dio degli inizi Giano, al quale il Rex Sacrorum immolava un capro nero.
BEFANA
Il 6 gennaio è nella tradizione cristiana il giorno dell’Epifania, il giorno in cui il bambinello divino si sarebbe manifestato ai re magi giunti a Betlemme per vederlo. “Epiphaneia” in greco significa appunto “manifestazione” di cui il nome Befana non è altro che una contrazione.
L’origine della Befana però è pagana e agricola ed è da ravvisarsi nella tradizione contadina di celebrare la morte e la rinascita della natura a inizio anno.
In queste notti notte madre natura, stanca per aver donato tutte le sue energie durante l’anno, appariva sotto forma di una vecchia che volava per i cieli con una scopa: oramai secca, era pronta ad essere bruciata per far sì che potesse rinascere dalle ceneri come giovinetta, una luna nuova (appunto Diana).
Antichissima e caratteristica è, infatti, l’accensione di tronchi che dovevano bruciare per diverse giornate dopo il Solstizio d’inverno. Il carbone che rimane dopo la lenta combustione verrà utilizzato l’anno successivo per accendere il nuovo fuoco. E non è un caso dunque se il carbone è proprio tra i doni che la Befana distribuisce.
Era questo di fine anno un periodo molto delicato e critico per l’agricoltura, venendo subito dopo la seminagione; era un momento quindi pieno di aspettative per il raccolto, da cui dipendeva la sopravvivenza nel nuovo anno. In quelle notti il popolo contadino credeva di vedere volare sopra i campi appena seminati Diana per rendere fertili le campagne.
Per secoli e secoli insomma Diana, Dea dei boschi e della natura incontaminata, col suo corteo di ninfe, volò sui campi a cavallo dell’anno per benedire le semine che non dovevano gelare. Poiché invece “sotto la neve pane”, si facevano le novene per la neve a Diana, novene poi adottate e trasformate dal cattolicesimo.
Nell’antica Roma Diana infatti era non solo la dea della luna, ma anche la dea della fertilità e nelle credenze popolari del Medioevo Diana, nonostante la cristianizzazione, continuò ad essere venerata come tale. All’inizio Diana non aveva nulla di maligno, ma la chiesa cristiana la condannò in quanto pagana. Di qui nascono i racconti di vere e proprie streghe, dei loro voli e convegni a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno. Nasce anche da qui la tradizione, diffusa in tutta Europa, che il tempo tra Natale ed Epifania è propizio alle streghe: si spostano volando o su una scopa o su un carro, seguite dalle “signore della notte”, le maghe e le anime dei non battezzati.
Ancora oggi un po’ ovunque per l’Italia si eseguono diversi riti purificatori n cui si scaccia il maligno dai campi grazie a pentoloni che fanno gran chiasso: il 6 gennaio si accendono i falò, e, come una vera strega, anche la befana viene qualche volta bruciata. Dal momento che nelle campagne, infatti, sopravvisse a lungo la religione pagana, soprattutto nelle dee legate alla fertilità dei campi, la chiesa s’ingegnò a creare santi che sostituissero questo compito, inventando la benedizione dei terreni, degli animali, degli attrezzi da lavoro, del raccolto e così via.
Nelle campagne per oltre un millennio, e quasi 1500 anni in alcune zone, restò quindi in auge la dea Diana. col suo volo benefico che proteggeva le sementi e le erbe curative; dovette solo rinunciare al suo avvenente aspetto e assumere quello di vecchia strega in volo sulla scopa che spazzava gli spiriti cattivi. La Befana, appunto.
PRESEPIO
Si accennava alla festa dei Sigillaria.
Questa ricorrenza appare la vera matrice della tradizione popolare dell’odierno presepe.
Come noto il presepe – prae saepes, il luogo davanti al recinto – è la ricostruzione in miniature di uso domestico della natività di Beltemme. La tradizione vuole che il primo presepe della storia sia stato realizzato da s. Francesco d’Assisi, nella notte tra il 24 ed il 25 dicembre 1223, Ma anche questa è probabilmente una convenzione.
Tuttavia, non è qui importante andare alla ricerca della verità storica sulla tradizione evangelica, ma piuttosto di capire come mai in Italia (e quasi solo in Italia) si sia affermata l’usanza di costruire il presepio.
Ed è un fatto incontestabile che la tradizione di realizzare miniature o “plastici” domestici di figure ed eventi sacri abbia la sua fonte nel culto dei Lari e nel larario, cioè nel particolare sistema di onorare egli antenati e gli dei di famiglia, i Penati, che vigeva a Roma.
I Lari, come noto, erano i numi tutelari della famiglia, delle mura, delle abitazioni, della proprietà, delle terre, dei raccolti, delle strade, degli incroci, delle città e dello Stato.
In famiglia i Lares, le forze degli avi defunti, proteggevano il focolare domestico, il benessere dei componenti, l’inviolabilità della proprietà, lo sviluppo delle attività. I Lares familiares erano rappresentati da statuette di legno, cera o terracotta custodite e onorate nel Lararium, l’altarino votivo presente in ogni casa. All’aperto, giacché numi dei luoghi, erano esposti in edicole poste agli angoli delle strade che riproducevano la facciata di un classico tempio romano: né più né meno che le attuali “madonnine” che si trovano oggi fuori dai centri abitati, in genere nelle intersezioni delle carreggiate di campagna.
Abbiamo visto che ogni anno, in occasione delle feste dei Sigillaria, i bambini romani di ogni famiglia, sotto la guida dei genitori, avevano il compito di riordinare e rinnovare i Lararia, sistemare le statuette, ricomporre la loro ambientazione migliorandola e abbellendola con nuove scelte coreografiche, completando il tutto con nuove miniature, muschi, fiori, piccoli doni; in quella stessa occasione le famiglie romane, oltre a scambiarsi auguri e presenti in forma di statuette, regalavano ai figli i dolci di marzapane a forma di figure o animali.
Oggi con la realizzazione del presepio e con i regali di dolcetti nella calza della befana ai bambini accade la stessa cosa.
ABETE
L’albero è un diffuso simbolo pagano precristiano dal significato simbolico molto radicato.
Già a Babilonia si usava inghirlandare gli alberi con metalli luccicanti che rappresentavano gli astri sovrastando le punte con un sole d’oro.
E’ nelle tradizioni indoeuropee che la simbologia dell’albero spopola.
Il cedro è l’albero degli dei degli indù, la quercia è sacra a Zeus, il mirto è l’albero di Venere, l’alloro è di Apollo, l’ulivo di Minerva, il frassino è famoso nel poema germanico Edda, il ginepro era utilizzato dalle popolazioni europee per proteggere le stalle da eventuali sortilegi, il rosmarino era simbolo di immortalità per gli egizi ed era utilizzato dai romani per ornare le statuette dei Lari, l’edera era pianta sacra a Dionisio, l’agrifoglio era usato dai romani per scongiurare il malocchio e scacciare gli spiriti maligni, le bacche di vischio erano considerate dai druidi seme di vita del Sole.
L’albero di Natale però non è un albero generico, ma è un abete o un pino.
Quanto al pino, questo è entrato nella Romanità come albero sacro durante le guerre puniche, quando fu trasferito da Pessinunte – la terra di Troia e del progenitore Enea – a Roma il simulacro della dea Cibele in funzione propiziatoria. Il pino, infatti, è sacro ad Attis, la divinità associata a Cibele, auriga del suo carro, è sempreverde ed è il garante di vita che non finisce. E così, il pino, simbolo d’immortalità, entrò nel costume romano: i cives ne usavano recidere i rami per abbellire le loro case durante tutte le feste dicembrine dei Saturnalia.
Alla base nell’odierna usanza natalizia di inghirlandare l’abete non c’è dunque – come tanti abbozzano – una generica “tradizione nordica”, ma piuttosto la comune origine indoeuropea unita alla citata specificità prettamente romana.
Paolo Casolari