L’Italia nasce con Augusto a conclusione di un percorso che prende tutti i due secoli avanti l’era comune. Ed è una sintesi religiosa e politica. Da allora, il nostro Paese rimarrà sempre un’entità unitaria, anche nel sociale.
Si tratta di assunti, per così’ dire, “rivoluzionari” in epoca di politicamente corretto, di cancel culture e di marginalizzazione delle identità.
Eppure, questo è il lascito di una importante mostra in corso (ancora per poco) alle Scuderie del Quirinale: Tota Italia. Alle origini di una Nazione. IV secolo a.C. – I secolo d.C., un’esposizione sicuramente controcorrente.
Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua: così nelle sue Res gestae Augusto attribuiva alla nazione italica la scelta libera e spontanea di combattere al suo fianco nella guerra civile che lo opponeva a Marco Antonio, esprimendo l’ideale della totalità dell’Italia.
Da qui il titolo.
Ma è l’apologia di Augusto e dell’identità nazionale italiana che stupisce e che appunto a quel periodo viene fatta risalire: un’affermazione che neppure nel Ventennio era stata tentata con tale garbo e semplicità, da farla apparire naturale e inequivocabile.
E le opere esposte sono davvero il meglio che l’arte italico-romana abbia espresso in quei duecento anni.
Sarà stata forse la pandemia?, o forse la difficoltà di importare arte dall’estero?, o forse ancora la facilità di mettere insieme pezzi eccezionali, facili da reperire perché sparsi per l’Italia?- a volte in modo completamente illogico e local-ideologico, come nel caso della Triade Capitolina, assegnata a un recondito museo civico che nessun turista conosce di un paesello che nessun turista frequenta (il Lanciani di Montecelio, frazione di Guidonia).
Fatto sta che un piccolo miracolo è riuscito.
La mostra dichiara solennemente che Ottaviano rese politica una realtà che fino ad allora era solo una espressione geografica. Sì, Augusto, non Cavour. E a Roma, non a S. Martino della Battaglia o a Goito o a Magenta, come invece sembrerebbe di leggere tra le righe della presentazione grondante di patriottismo per così dire “risorgimentale”.
Autarchia a basso costo? Non direi.
Se è vero che la mostra non aggiunge molto alle conoscenze e agli studi, è la sua narrazione filologicamente semplice e profonda insieme che appare stupefacente, innovativa e ben impostata.
Innanzitutto la forza di affermare che gli italiani trovano la loro scaturigine in quella unità spirituale, pagana, che venne a sintesi grazie a Roma quando giunse a compimento quel lungo percorso unificante che si snoda, simbolicamente, tra le battaglie di Sentino del 295 a.e.c e la conquista di Corfinio nell’89 a.e.c,, alla fine della Guerra sociale, che vide per l’ultima volta contrapposti romani e italici – i quali, tuttavia, non volevano conquistare Roma ma ne volevano solo acquisire … la cittadinanza.
Cosa che ottennero dopo la fine della guerra, tanto che tutta l’Italia sotto il Po divenne romana, quella a nord del Po latina e l’intera penisola ager romanus, cioè territorio metropolitano di Roma.
E gli Italici ricambiarono subito, appoggiando Augusto contro “l’asiatico” Antonio, a sigillo e riconoscenza finale.
E chi poteva raccontare oggi tutto questo senza incorrere negli strali dell’anti-Italia in servizio permanente ed effettivo, rappresentata qui dal baronato della critica culturale?
Ma certo, il co-curatore della mostra (l’altro è Osanna da Pompei), il francese Stephane Verger, direttore del Museo nazionale romano, indicato qui come direttore dal ministro Franceschini. E criticare Verger significava criticare Franceschini: quindi a sinistra, nessuna opposizione (a destra quasi non si sono accorti della mostra).
In Francia, infatti, non hanno paura di pensarsi in grande, in retrospettiva identitaria, e mai si sognerebbero di avvicinare, neppure col binocolo, le vette del nostro atavico autolesionismo.
Così come è da notare un’altra particolarità: la dedica della mostra a Mario Torelli, lo scomparso etruscologo che dedicò anni del suo lavoro alla ricerca delle più longeve strutture sacrali italiche. Torelli era un comunista, convinto e praticante. La sua interpretazione è però tutta nel saggio “La forza della Tradizione: Etruria e Roma” (Longanesi, 2011) che parla da solo nell’esaltare il carattere incredibilmente conservativo della cultura romana ed etrusca in fatto di usi e costumi religiosi.
Fa quindi pensare che si debba a studiosi di area marxista, scientista e materialista la, più o meno consapevole, riemersione del sacro, del mito e dell’essenza della Romanità (basti pensare, in altri campi, ai Bettini, ai Susanetti, ai Carandini per citare i nomi più noti).
Ma veniamo alle opere, una selezione che rende giustizia alla multiforme realtà etnico-politica dell’Italia che entrò in relazione con l’inarrestabile crescita della potenza romana e ne costituì l’intreccio inscindibile. Un’attenzione particolare viene data alle manifestazioni del sacro e della lingua che rappresentano, coi loro lemmi, coi loro calendari e con i loro riti, in gran parte simili, un forte elemento di coagulo nel percorso di unificazione, pur conservando la natura plurale delle stirpi: italiche, etrusche, greche e celtiche. Non fu un caso se l’unificazione sotto il segno di Roma mantenne la divisione in regioni, tredici (una ripartizione attualissima) che ancora oggi testimonia la ricchezza e la varietà delle diverse tradizioni.
Oltre 400 reperti, quali statue, elementi di arredo, produzioni ceramiche, a testimonianza del complesso dialogo tra Roma e il resto della Penisola. Il filo conduttore della prima parte della mostra è la varietà dei popoli italici prima dell’unificazione romana; in primo piano, dunque, gli aspetti sociali, culturali e artistici caratterizzanti la variegata composizione etnica della Penisola.
La seconda parte del racconto è incentrata sulla guerra, documentata attraverso oggetti iconici o grandi fregi figurati. Nel prosieguo del percorso espositivo, le marcate differenze tra i popoli tendono poi a sfumare gradualmente ed emergono con forza i tratti comuni e distintivi di quella Tota Italia che, dopo la guerra sociale e, definitivamente, al tempo di Augusto, riconobbe sé stessa come nazione unica e centro del mondo mediterraneo.
Un’occasione specialissima, dunque, per vedere riuniti nello stesso luogo reperti dall’assoluto valore storico.
Si inizia con il Trono Corsini decorato a rilievo delle Gallerie nazionali Barberini Corsini di Roma che dialoga con il Sostegno di mensa con due grifoni che attaccano un cerbiatto del Museo civico di Ascoli Satriano; poi e un trionfo di capolavori, dal ritratto di Augusto con il capo velato del Museo archeologico nazionale delle Marche, al busto di Ottavia Minore del Museo nazionale romano – palazzo Massimo, ai ricchissimi corredi tombali iconici come quello della ‘tomba dei due guerrieri’ – conservato presso il Museo archeologico melfese Massimo Pallottino, al corredo di una tomba femminile proveniente dalla necropoli di Montefortino d’Arcevia e custodita presso il Museo archeologico nazionale delle Marche, ma anche corredi provenienti da Este e da Paestum.
Poi le statue di dee madri, di Ercole o degli altri eroi fondatori delle città, il famosissimo fegato di Piacenza – modello bronzeo di fegato di pecora con iscrizioni etrusche usato dagli aruspici per le divinazioni e conservata al Museo civico della città emiliana, la Triade Capitolina, il capolavoro marmoreo con Giove, Giunone e Minerva, unico nel suo genere, proveniente (sic) dal museo civico Lanciani di Guidonia Montecelio, la statua del Pugilatore in riposo – che ritrae un atleta dell’antichità del IV secolo a.e.c. e proveniente dal Museo nazionale romano di palazzo Massimo.
Senza dimenticare altri capolavori come la Cista portagioielli con iscrizione in latino arcaico del Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma fino al celebre Rilievo con scena di battaglia tra un cavaliere greco e un persiano custodito presso il Museo archeologico nazionale di Taranto.
Ben 36 prestatori di dodici regioni, fra musei statali e civici nonché soprintendenze di Stato, hanno risposto e fatto rete per raccontare questo patrimonio unico al mondo in una mostra unica nel suo genere. E non si capisce proprio perché l’esposizione debba chiudere il 25 luglio, avendo aperto in sordina solo il 14 maggio scorso.
Qui una fotogallery: https://www.dagospia.com/mediagallery/Dago_fotogallery-312195/1334966.htm
Paolo Casolari