L’Italia centrale ai tempi dell’Eneolitico sulle fonti scritte e archeologiche (IV)

Tetradramma di Aitna, IV sec. a.C. A sinistra, diritto con immagine del volto di un Sileno; a destra, immagine di Zeus Etneo assiso
Tetradramma di Aitna, IV sec. a.C. A sinistra, diritto con immagine del volto di un Sileno; a destra, immagine di Zeus Etneo assiso

Riprendendo la dissertazione sulla moneta di Atri che per motivi di spazio ho dovuto lasciare in sospeso nella ‘’puntata scorsa’’, posso aggiungere per concludere che da ogni oggetto del nostro passato, anche quello apparentemente più insignificante, è possibile rilevare un’immensa quantità e soprattutto alta qualità di dati che ci consentono di far visita al nostro passato, una specie di incontro con i nostri più remoti antenati. La moneta ci mostra, se ben ricordate (basta un ripasso dell’articolo precedente), due culture quasi fuse l’una nell’altra, quella osca e quella sicula, che a sua volta si presenta compenetrata dalla cultura ellenica, di quei Dori che abitavano la Sicilia orientale a partire dall’VIII sec. a.C. L’asse di Atri presenta infatti sul diritto la figura frontale di un volto di Sileno, motivo già presente nella monetazione della Sicilia orientale; e sul rovescio la figura di un cane dormiente, acciambellato, che, come abbiamo già visto rimanda al mondo siculo. Sono due motivi che a primo acchito parrebbero esulare dal contesto propriamente osco, specie quello più interno e settentrionale, poco incline all’apertura verso le esperienze artistiche etrusche e dunque magno-greche. La collocazione cronologica dell’asse di Atri è stata per lungo tempo dibattuta. C’è chi, come me, sostiene l’anteriorità della sua coniazione rispetto alla deduzione coloniale romana della città nel 289 a.C., basandosi sia sul suo peso, superiore rispetto alle altre serie di aes grave italiche seriori, ossia del periodo di avanzamento romano verso l’entroterra osco, in correlazione con la svalutazione ponderale che l’analogo nominale di altre zecche stava subendo illo tempore, sia sull’evidente mancanza sui nominali di Hadria dei simboli afferenti all’egemonia romana; e chi, per contro, sostiene una cronologia posteriore all’evento coloniale romano (alcuni di questo fronte ribassista sono giunti ad un terminus post quem, il 268 a.C.), usando a sostegno di questa teoria sia la presenza delle lettere latine usate nel campo monetale sia la scelta iconografica[1]. Ma proprio su questa scelta iconografica ed epigrafica, io adduco le mie spiegazioni che divincolano de facto il suddetto asse ascrivendolo nuovamente al contesto culturale siculo che avrebbe avuto notevole influenza sul mondo osco-sabellico proprio nella prima metà del IV sec. a.C. Tralasciando adesso molti dati d’alto valore nella scienza numismatica, come peso, scale ponderali (multipli e sottomultipli di un sistema ponderale), coniazione (tecnica, serie, varianti di battitura, e possibili errori connessi) etc., voglio solo farvi notare la grande importanza che una moneta antica assume sia nel suo aspetto documentale sia in quello documentario. Iconografia ed epigrafia rimandano senz’altro a quell’adoptio doro-siceliota (dei Dori di Sicilia, ovvero Siracusani in primis) dei culti e dei costumi dei Siculi, che ivi trovarono sin dal tempo del loro arrivo in Sicilia, nell’VIII sec. a.C. La testa di Sileno ricorre infatti spesso nei coni di Catania –ma imposti da Siracusa- di quel periodo in particolare, ben sapendo che Katane, ab antiquo fondazione ionica, divenne dorica con il nome di Aitna dopo la sua conquista nel 476-475 a.C. da parte di Ierone I, fratello e successore del tiranno di Siracusa Gelone di origini geloe (ossia di Gela, sempre fondazione dorica). E sappiamo pure che quando Aitna nel 467 a.C. ridivenne nuovamente Katane, grazie all’azione militare del grande Dux Siculorum Ducezio, gli originari abitanti di stirpe ionica ritornarono nella loro città, mentre gli aitnaioi, ossia la nuova popolazione ivi portata per volere dei deinomenide Ierone, trovò asilo presso un vicus etneo, Inessa, che fu pagus siculo, ma che nel nome (la sua tipica terminazione in –ssa) lascia subito intuire che prima ancora di essere siculo era stato sicano, ossia una fondazione sicana. Il fatto importante è che il culto del Dio Hatranus fu assimilato da questo gruppo ellenico di Sicilia, quello dorico, a quello di Zeus, attraverso l’epiclesi di Aitnaios, ossia ‘’Zeus Etneo’’, che aveva la sua teofania nelle eruzioni dell’Etna, proprio come per i Siculi.

Capitello basaltico del tempio siculo del Mendolito di Adrano, Sicilia, dedicato al Dio Hatranus, VI sec. a.C.
Capitello basaltico del tempio siculo del Mendolito di Adrano, Sicilia, dedicato al Dio Hatranus, VI sec. a.C.

Non è un caso dunque che Dionisio I nel 400 a.C. fondò la polis di Adranòn, l’antenata dell’attuale Adrano, proprio dove vi era il santuario dedicato al Dio, lo Adraneion, ben sapendo che questa rifondazione in cui avrebbero convissuto Siculi e Dori era stata voluta dopo l’abbandono del pagus siculo di Contrada Mendolito di Adrano, laddove sono stati trovati colonne e capitelli dell’antico tempio dedicato al Dio (e non solo). Al periodo dorico di Aitna, dunque nella prima metà del V sec. a.C., risale il tetradramma avente sul diritto l’immagine di una quadriga e sul rovescio l’immagine di Zeus Etneo assiso nell’atto di scagliare una saetta (immagine che evoca quella del Dio Hatranus); ed al periodo successivo, quello dello sfollamento di Aitna e del nuovo riassestamento urbano di AitnaInessa, dunque al IV sec. a.C., risale il famoso tetradramma della nuova Aitna, avente sul diritto l’immagine di profilo di un volto di Sileno e sul rovescio sempre l’immagine di Zeus Etneo assiso nell’atto di scagliare una saetta. I caratteri grafemici utilizzati sul campo monetale della moneta di Atri richiama sempre il mondo siculo, ossia l’evoluzione del loro sistema di scrittura dalla variante dorica della Sicilia orientale: soprattutto L. La scelta dell’immagine del cane sul rovescio effettivamente mi riporta sempre all’adozione osca del culto del Dio Hatranus, che i popoli oschi però assimilavano a quello del Dio Mamers, ossia Marte (i Greci a quello di Zeus), ben sapendo anche in questo caso specifico della principale devozione da parte delle popolazioni di ceppo osco verso il Dio della guerra, Primus nel loro Pantheon. Così che in Sicilia quei Mamertini che ebbero per roccaforte Messana, l’attuale Messina, coniarono moneta con l’effigie elmata del Dio Hatranus e la figura del fedele molosso; proprio come ad Atri due secoli prima fu battuta moneta con volto di Sileno e cane dormiente acciambellato. Di questi Mamertini, di provenienza campana, giunti in Sicilia in qualità di mercenari al servizio dei tiranni di Siracusa, si può dire che essi discendevano da quei Marsi, che originatisi anch’essi sempre dal distaccamento del gruppo sabino, discesero nella Valle del Salto durante il rito del Ver Sacrum, assumendo pertanto questo nuovo nome d’origine sacra. E da lì, sempre tramite questo rito perpetrato nel corso dei secoli, dal lago di Cotilia sacro alla Dea Vittoria al Fucino, dal Fucino al Sangro, territorio dei Sanniti, si giunse fino all’ultimo degli Stati italici indipendenti, in Sicilia, durato dal 289 al 264 a.C., il Touto Mamertino. Tutto questo, come ci raccontano gli storici antichi e magistralmente il grande Devoto (Maestro mio! Oh mio grande Maestro!) ebbe inizio allorquando i Sabini, i ‘’Puri’’ i ‘’Venerabili’’ (perché molto religiosi, dalla radice sabh– ‘’venerare’’), stanchi dei ripetuti attacchi degli Umbri, consacrarono al Dio Marte i figli nati in quella primavera, così che questi una volta giunti ad età adulta partirono verso Sud in numero di circa settemila al seguito di un Toro selvatico (un Uros) sacro al Dio Marte, guidati da Cominius Castrunius; ed una volta giunti nel territorio degli Opici, in alta Campania, immolarono il Toro al Dio Marte e sul luogo ebbero finalmente sede, fondando Bovianum, antica capitale sannita che trae nome proprio dall’animale sacro. L’immagine del Toro sacro compare proprio su una serie monetale sannita: sul rovescio è stata effigiata la scena di un giovane guerriero stante con la sua lancia tra un albero o trofeo ed un toro giacente, ossia Cominius Castronius (altro caso di nomen omen da ecista ‘’Colui che guida e fonda un castrum’’) ed il Toro Marzio. Successivamente, dal frazionamento sannita si formarono sempre tramite Ver Sacrum il popolo dei ‘’Lupi’, gli Irpini, guidati dal Lupo sacro, Hirpus, trovando sede lungo il fiume Calore, tra le falde orientali del Monte Taburno ed i monti che si protendono fino alle pianure apule. Ed il lupo è animale sacro al Dio Marte, facilmente assimilabile al molosso che difende il Santuario del Dio Hatranus. E sempre guidati dal Lupo nacque la Nazione dei Lucani, popolo osco che occupò il territorio che si estendeva dalle sorgenti dei fiumi Sele e Bradano fino al territorio dei proto-illirici Enotri. La monetazione dei Lucani aveva per effigie la testa del Lupo sacro. La moneta di Atri sarebbe dunque frutto dell’altamente probabile influenza della Weltanschauung sicula su quella osca, non spiegabile se non con la coesistenza dei due ethne nel territorio abruzzese nel IV sec. a.C., il frutto di un’osmosi culturale che non avrebbe ragion d’essere se non nella comune ed originaria Weltanschauung indoeuropea.

Questo è il reale motivo per cui mi sto soffermando su questo argomento, avendo già affermato in sede accademica fino allo sfinimento quanto una moneta possa ‘’dirci’’ sul passato da cui essa stessa proviene, sui suoi fabbricatori, sul territorio dove essa è circolata, sulle persone che l’hanno usata, sulla vita di quel tempo, sulla cultura di quel tempo, persino sui tratti fisiognomici della gente di quell’era, ed anche sulle ‘’mode’’ del tempo (acconciature maschili e femminili, vestiario etc.). Insomma, abbiamo a che fare, in primis, con una vera opera d’arte, ed in toto, con una vera fotografia ante litteram, un’istantanea del nostro passato. E questo vale per ogni oggetto che dall’antichità giunge sino a noi grazie all’Archeologia. Chi ne vede soltanto il valore antiquario, un fine di lucro nel mercato del collezionismo, non sa quanto sia miope. Sentirmi ripetere continuamente ‘’ma quanto vale?’’, in termini di denaro attuale s’intende, è un qualcosa che spesso nel mio pungente vernacolo netino mi spinge a risposte alquanto scurrili (che magari muovono a riso, se non a grassa risata, chi da buon amico mi sostiene nella discussione). Pertanto voglio raccontarvi un brevissimo aneddoto, così che si possa capire meglio quanta importanza bisogna dare agli oggetti ed alle immagini del passato, quelli che comunemente vengono definiti ‘’Beni Culturali’’. Alcuni anni fa, durante uno dei miei innumerevoli sopralluoghi in Contrada Manghisi-San Marco, nel territorio di Noto, in direzione Nord-Ovest, verso l’Altipiano Acrense (Palazzolo Acreide), area che fu sede di un pagus siculo ed annessa necropoli della sub-facies cosiddetta del Cassibile (periodo di transizione tra età del Bronzo ed età del Ferro), che prende tal denominazione dal fiume che ivi scorre e che sfocia poi a pochi km. a Sud dal centro urbano ove fu firmato segretamente quell’armistizio lì, trovai per caso in mezzo alla terra appena arata (prima metà di Dicembre) il giorno prima un obolo corinzio (sicuramente dell’epoca in cui venne in Sicilia Timoleonte per liberare Siracusa dalla tirannia dionigiana) ed il giorno dopo una unkia sicula, ovvero la più piccola frazione del sistema ponderale dei Siculi, la litra, corrispondente se non nel peso ma nella concezione matematica alla oncia latina e romana, ossia alla dodicesima parte dell’unità di misura, la prisca libra (così come l’obolo greco, sesta parte di una dracma, e dunque dodicesima parte di uno statere)[2]. Già nei nomi si evince la corrispondenza semantica e fonetica: litra sicula e libra romana, unkia sicula e uncia romana (che di fatto si pronunciava ‘’unkia’’), una ‘’unghia’’ appunto, una piccola frazione, la sua dodicesima parte (e come ben sapete, il numerale 12 ha un preciso significato nella Weltanschauung indoeuropea). Osservai attentamente le immagini battute su ambedue i vultus (diritto e rovescio) della monetina, quasi scomparse, solo un poco rilevabili al tatto. Chiusi gli occhi per un attimo, e a quel punto, strano a dirsi, giunse nella mia mente un’imponente immagine. Non so come e perché, ma invero immaginai un bambino siculo che lì sperduto singhiozzava affranto, piangente, asciugandosi le lacrime sul suo bel viso di un candore lucente, dalle guance rosate per via del vento freddo, con le sue piccole mani candite che nervosamente sfregava sul viso e poi tra i biondi capelli, di un biondo rame, lisci e a ‘’paggetto’’, con la tipica frangetta che copre la fronte, dove si schiudevano i suoi occhi di un bellissimo turchese, con i quali mi guardava stupefatto. Allora io, sempre nella mia immaginazione, intuì che stava cercando la monetina che aveva perso nel suo tragitto di ritorno verso casa, nel suo piakus, dove i genitori lo stavano ancora aspettando, magari un po’ troppo preoccupati per l’inattesa lunga assenza. E così, mi abbassai flettendo le ginocchia fino a raggiungere la sua altezza (avrebbe avuto i suoi 7 o 8 anni), guardandoci faccia a faccia. Gli presi la manina e gli restituì la sua monetina chiudendogliela delicatamente, facendogli subito dopo una carezza, togliendogli i capelli della frangetta bionda, non proprio retta, dinanzi ai suoi occhi color turchese ancora inumiditi dalle lacrime, ed asciugandogli un rigagnolo di lacrima su una delle sue guance. Poi gli dissi nella sua lingua che da anni cerco di imparare dalla decifrazione e traduzione delle iscrizioni: <<aka heik, bera ekam, eia domam nun>> ‘’ecco qui, prendila, ed ora torna a casa’’. E così lui la prese, mi guardò fisso nel viso e quasi lieto, facendo qualche passo indietro mentre io mi rialzavo; subito dopo si voltò e si diresse verso casa, girandosi di tanto in tanto per guardarmi, forse per ringraziarmi e forse anche perché ero un tipo strano, vestito in quel modo.

Litra battuta ai tempi di Dionisio I, tiranno di Siracusa, IV sec. a.C. A sinistra, rovescio con immagine del volto della Dea Atena recante l’elmo; a destra, diritto con immagine di Pegaso
Litra battuta ai tempi di Dionisio I, tiranno di Siracusa, IV sec. a.C. A sinistra, rovescio con immagine del volto della Dea Atena recante l’elmo; a destra, diritto con immagine di Pegaso

Vi ho raccontato questo, sebbene sia stata solo la mia immaginazione, non un fatto reale, perché proprio nella nostra immaginazione risiede a livello subcosciente un calderone di immagini, un vero e proprio nucleo incandescente tellurico, accumulatesi esse non solo durante la nostra vita, ma anche nella vita dei nostri Avi e che nella ignea natura della nostra anima si ricombinano continuamente ed in modo singolare, individuale appunto, agendo da monadi, ed essendo tali, che nella scienza pitagorica non sono che entità unitarie, dunque elementari ed elementali, necessarie e primarie nella costituzione dell’Universo, unità inscindibili in senso spaziale e prima di tutto psichico, ciò che Leibniz intendeva ‘’infinite sostanze inestese e centri di forza e di coscienza, autonome e costituenti l’Universo’’, che tendono a formare complesse forme, strutture di pensiero che si ergono imponenti ed impavide sul campo fertile delle nostre necessità, traendo grande energia alchemica (di costituzione appunto) da un fiume di forza impetuoso ed inesorabile, quel che il grande C.G. Jung individuò negli archetipi, che altro non sono che il potentissimo legame genealogico, ciò che ab origine ci conduce ad originem, ciò che dal più remoto passato, punto d’inizio, ci spinge verso il futuro, ciò che deve ancora compiersi e che a noi di questo presente spetta il compito di determinarlo secondo i principi sani e giusti dettati dagli Dei. Ciò che chiamiamo ‘’fantasia’’, forse non è altro che una possibile prospettiva di ciò che dobbiamo fare nel futuro, un assemblaggio di monadi, di immagini del nostro passato e del nostro presente, per un nostro progetto proiettato anche arditamente in un avvenire troppo incerto perché troppo distante, troppo avanti la nostra era, il quale assolverà se non al soddisfacimento di una nostra necessità futura, e tutto questo per continuare la nostra vita, la nostra Tradizione, facendo dell’Universo il Kosmos, di una grane Forza prorompente una Potenza imperturbabile. Il nostro viaggio continua.

Alessandro Daudeferd Bonfanti

Note

[1] Gli studiosi che ribassano la cronologia dell’asse atriano si basano su corrispondenze ponderali e tipologiche, ovvero di peso e immagini, tra il nostro asse e le emissioni monetali dei Vestini e della colonia di Ariminum; così come per la scelta iconografica, costoro hanno trovato appiglio sulle emissioni enee macedoni del 166-165 a.C., sulla litra di Tuder del 280-240 a.C. e, senza però tener alcun conto dell’alta cronologia, della dracma di Catania del 405-403 a.C., che nuovamente giunge alla cronologia da me stabilita, tra la fine V e la prima metà del IV sec. a.C., ovvero gli anni di Dionisio I di Siracusa, di Filisto e dei Siculi che risalirono la penisola.

[2] Ed infatti, in Sicilia orientale, nella Sikelia propriamente detta, dapprima, in epoca arcaica, la unkia sicula (detta dai Sicelioti onkia) moltiplicata per dodici (ossia una litra d’argento del peso di circa 0,85 gr.) corrispondeva all’incirca all’obolo, ossia ad un sesto di dracma; ed a partire dalla fine dell’epoca dei tiranni Deinomenidi, seconda metà del V sec. a.C. fu battuta in bronzo con valore 6:1 rispetto al conio argenteo precedente; ed ancora al tempo di Dionisio I, la litra sicula enea subì un raddoppiamento di valore per sopperire alle spese militari del tiranno, dimezzandone il peso a 8 gr., avente sul diritto l’immagine del cavallo alato, Pegaso (che il Mito collocava la nascita proprio a Corinto), e sul rovescio l’immagine della Dea Atena elmata circondata da delfini (simbolicamente il raggiungimento delle coste siciliane da parte di quei Corinzi, capostipiti dei Siracusani).