Concentriamoci adesso, perché è qui che viene il bello: riconoscere quanto ho descritto sino adesso, attinto quasi tutto dalle fonti antiche, nei paesaggi attuali, in quello che oggi Vi circonda, o che Voi andrete (si spera) a fare visita quando potrete approfittare di un po’ di tempo libero per una sana passeggiata all’aperto. In seguito vi farò anche da guida museale, a distanza certamente, e purtroppo, ma pur sempre valida, molto valida, in modo che possiate ogni qual volta lo vogliate e desideriate evocare l’importantissimo legame che ci lega ai nostri Avi. Paesaggi, simboli, parole ed oggetti, tutto qui deve avere un ruolo fondamentale ed imponente nel risvegliare in tutti noi l’ancestralità, la nostra imprescindibile ancestralità, la nostra linfa vitale. Pertanto è necessario procedere piano, avendo il tempo di meditare su ogni aspetto che io un po’ per volta metto in luce.
Quanto ho descritto fino adesso, leggendo le parole di Plinio, deve essere ora visto nel tempo e nei luoghi attuali. Sovrapponendo le carte geografiche attuali su quelle antiche, dobbiamo riconoscere i luoghi e riviverli, creare un ponte temporale, così che possiamo abbracciare ancora una volta i nostri Avi. Premesse fatte, posso dire: bene ci siamo, comincio! Andiamo!
Siamo in questo preciso momento nell’antico ager Hadrianus, in quel di Atri, dunque nella provincia di Teramo, nel versante settentrionale abruzzese, al confine con la Regione Marche, proprio dove si stabilirono i Siculi sul finire del IV millennio a.C. dopo aver attraversato quel tratto di mare che a dirimpetto ci separa dai Balcani, dalla lunga fascia costiera della Croazia. Questo mare, come già vi ho detto, prende il nome dal Dio Padre del Pantheon siculo, Hatranus, Dio della Luce, del fulmine, del fuoco, del Sole, della sfera celeste, della guerra: il Djēus Pətēr ‘’Padre Luminoso’’ della Tradizione indoeuropea. Il nome Hadrianus (nella sua vicendevole accezione di praenomen o nomen o ancora cognomen) significa infatti ‘’di Hadria’’, che a sua volta significa ‘’Luminosa’’, qualcosa come ‘’baciata dalla Luce’’ e dunque epagogicamente dal Dio Hatranus, dalla Cui Voluntas (in Siculo Ueliom) la Luce medesima scaturisce (su questa etimologia in salda correlazione con la sua eziologia, tra il lemma siculo hatria indicante primieramente ‘’cielo terso’’ e ‘’cielo numinoso’’, quello corrispondente ellenico aither e quello norreno eitr, quest’ultimi due facenti riferimento esplicito ad una ‘’sostanza fluida’’ che percorre e permea l’Universo dai tempi della creazione e pertanto determinante e costituente della creazione stessa, rimando sempre alla lettura dei miei testi, dove ho approfondito quasi ad infinitum)[1]; e così l’aggettivo che accompagna il coronimo ‘’Mare’’, Hadriaticus, il quale nella sua complessa composizione, tra elemento radicale e morfemi vari agglutinati con valore specificamente deittico, richiama il senso di ‘’Mare degli abitanti di Hadria’’, ossia di quegli Hadriani, che nei dialetti ellenici importati nella nostra penisola eran detti però Hatriatai (in analogia con Sikeliotai ‘’Greci di Sicilia’’ ed Italiotai ‘’Greci d’Italia’’, ricordate?) e la cui forma attributiva, aggettivale, diventava Hatriatikos[2]. E qui sorgono ora due quesiti molto importanti, attenzione, miei cari Lettori. Il primo è stabilire la vera origine della forma toponomastica e/o coronomastica, se essa è sicula, o umbra, etrusca, celtica, latina oppure ellenica; ed il secondo è stabilire una datazione, formulare una glottocronologia efficiente. Non vi preoccupate, ho pensato sempre io a tutto questo. Nel primo quesito abbiamo a che fare con un calco fonetico latino sul Greco antico, a sua volta sul Siculo. Sì, ma quale Siculo allora, quello preistorico dell’età del Rame, oppure quello della ‘’rimpatriata’’ sicula del IV sec. a.C. ai tempi del generale Filisto siracusano? E questa è la seconda domanda. Plinio ci fa sapere infatti che gli Etruschi, dopo aver preso possesso di più di trecento oppida umbri[3], che a sua volta furono presi ai Siculi, tra i nuovi possedimenti etruschi c’era quello di Atria, ossia di Hadria. È lì la soluzione del problema, un problema davvero complesso, per la cui risoluzione io ho scritto pagine, pagine e pagine (e forse ho ancora altre pagine da scrivere). A parte Ancona e Numana, che furono davvero fondazioni sicule del IV sec. a.C., quella di Hatria (forma sicula ricostruita, dunque quella originaria, ancestrale) è la prima fondazione sicula che si conosca in Italia al momento del loro attracco alla costa peninsulare nell’età eneolitica[4], sita in quel territorio, l’ager Hadrianus ‘’campo di Hadria’’ (in Siculo aker Hatriaia), che fu la base di espansione del dominio siculo in Italia, da dove ebbe inizio la diffusione della facies culturale eneolitica balcanica per tutta la penisola da costoro raggiunta, evolutasi poi nella ben nota Cultura di Rinaldone (in quel di Viterbo) e successivamente nella Cultura proto-appenninica (allorquando quella parte balcanica esplose nella famosa Cultura di Vučedol).
Da questo quadro emerge che:
- I Siculi fondarono Hatria ‘’Solare/Luminosa’’ una volta giunti nello aker Hatriaia, ossia nello aker ‘’campo’’ che poi essi dedicarono alla loro fondazione, al loro piakus (pagus), a sua volta dedicato al Dio Hatranus; e questo avvenne nel corso della seconda metà del IV millennio a.C.
- Al tempo della discesa degli Osco-umbri della Cultura delle tombe a fossa, sul finire della II fase della Cultura di Remedello, nel corso della metà del III millennio a.C., gli Umbri cacciarono via i Siculi appropriandosi del loro territorio, costringendo i Siculi a migrare sul versante occidentale, tirrenico, ove ebbe inizio la facies di Rinaldone, tra bassa Maremma e alto Lazio, e poi nel Lazio; da ciò si evince che Hatria rimase tale.
- Gli Etruschi, o meglio dire il primo nucleo di essi, quello originario di origine ur-celtica, da cui ebbe inizio il sinecismo etrusco (inglobando via via altri elementi indoeuropei, piuttosto eterogenei)[5], e sceso in Italia a seguito della massima espansione della Cultura dei campi d’urne, direttamente dalle pianure ungheresi, dando vita alla variante proto-villanoviana a partire dal XII sec. a.C., conquistarono gran parte del territorio in possesso degli Umbri, ricacciandoli nella parte più interna, quella cosiddetta ‘’storica’’; ed è in quel momento che Hatria divenne nella lingua dei nuovi conquistatori Atria (proprio perché la lingua etrusca presenta la lenizione dei suoni aspirati, fenomeno riscontrato anche nei dialetti gallici e perdurato pertanto dopo la conquista del territorio da parte dei galli Senoni).
- L’espansione della stirpe sabellica generò tra gli altri anche il popolo dei Piceni, il quale raggiunse quella sede a seguito del rito del Ver Sacrum, divenendo quella regione V Picenum di cui parla Plinio. Non si evince dalla lettura delle fonti se persistette la forma toponomastica precedente oppure se ve ne fu una nuova. Secondo il mio parere, non ci fu altro calco con fonetismo osco, e solo con la ‘’rimpatriata’’ dei Siculi divenne nuovamente Hatria. Infatti, in una serie monetale, di cui gli studiosi ancora dibattono su quale periodo attribuirla, ma che io ascrivo al periodo precedente la deduzione della colonia romana nel 289 a.C., dunque alla presenza sicula in loco, e facente esplicito riferimento ad Atri, vi è la legenda HAT, ossia Hatria, la forma sicula originaria, non una forma osca.
- Nella prima metà del IV sec. a.C., il generale Filisto di Siracusa, al comando di un esercito composto da Siculi e doro-Sicelioti (quei Dori del versante orientale della Sicilia sotto il dominio siracusano), per ordine del tiranno Dionisio I, si spinse fin su nel centro peninsulare per ridurre all’obbedienza ed al dominio non solo la Magna Grecia ma gli Etruschi (già da un secolo acerrimi nemici dei Sicelioti). Il generale, certamente su consiglio e soprattutto per brama dei Siculi, scelse la tattica dell’accerchiamento del nemico, risalendo dalla costa adriatica e sfruttando la memoria storica dei Siculi, i quali grazie a questa missione sarebbero giunti nell’avita Patria commemorata dagli anziani dei loro clan. Ma qualcosa non andò proprio bene e Filisto cadde in disgrazia presso la corte dionigiana che ne promulgò il suo esilio. Filisto rimase per un certo periodo nella Patria ritrovata dei Siculi, ove loro ripresero possesso del territorio, anche se le fonti tacciono per quanto riguarda proprio Hatria, a quel tempo area sotto il dominio dei Piceni, fondando altre colonie (fors’anche su precedenti preistoriche, delle quali però nulla si sa finora), tra cui Ancona e Numana. In esilio, a partire dal 386 a.C., Filisto scrisse le famose e importantissime ma ormai perdute Sikelikà ‘’Fatti di Sicilia’’, ma in un’altra Hadria, ancora più a Nord, ossia l’attuale Adria del Veneto (in provincia di Rovigo), proprio dove si trova la cosiddetta ‘’Fossa Filistina’’, sede del suo esilio. Egli fece ritorno in Sicilia, riprendendo il comando militare al servizio di Dionisio II e morendo nel 356 a.C. nello scontro contro Dione. Quella Atria presa dagli Etruschi agli Umbri e poi dai galli Senoni agli Etruschi, poi ancora passata agli osco-sabelli Piceni divenne con una certa probabilità la nuova sicula Hatria.
- Nel periodo di espansione romana all’interno peninsulare, specie durante le guerre mosse alle popolazioni osche e loro alleati, tra IV e III sec. a.C., e precisamente nel 289 a.C., quella Hatria sicula divenne finalmente la colonia romana di Hadria.
Da Hatria ad Atria, da Atria ad Hatria, e da Hatria ad Hadria fino all’odierna Atri, da circa la metà del IV millennio a.C. sino all’incirca la metà del III sec. a.C.: ragazzi miei, sono passati ben quasi 3250 anni! E fino ad oggi 5521 anni da quando i Siculi sono giunti in Italia dai Balcani. Non è cosa di poco conto, anzi! Abbiamo dunque a che fare con un conio siculo della metà del IV millennio a.C., divenuto per calco fonetico (attenzione, non semantico) toponimo umbro, poi etrusco, poi gallico, poi osco-sabellico, poi ancora ripreso forse dai Siculi nella forma originaria, ed infine nuovamente un calco fonetico latino, a partire dal 289 a.C. Il tutto dalla radice indoeuropea aidh– ‘’fuoco/calore’’, che nel proto-Illirico si presenta nella forma hat– (molto simile alla forma radicale germanica ed a quella indo-iranica, con fusione del dittongo in vocale aspra lunga ed esito in aspirazione glottidale per via del fenomeno d’interversione: ai > ha), nel Latino nella forma aed– < aid-, e nel Greco antico nella forma aith-. Mi fermo qui con l’analisi glottologica onde evitare una sommossa da parte Vostra e per ovvie ragioni che io comprendo benissimo. Se proprio volete farvi del male (ed io vi avverto), dovreste provare a leggere i miei saggi, dove tutto è spiegato sin nei minimi particolari. Nel caso invece del coronimo ‘’Mare Adriatico’’, proprio in questo caso abbiamo per la forma aggettivale Hadriaticus il calco fonetico sulla forma ellenica Hatriatikos, per la presenza dei morfemi in t e k, tipici della lingua ellenica; ma a sua volta trattasi sempre di un fenomeno di acclimatamento ellenico su una base radicale sicula: Hatria– appunto. La forma aggettivale ellenica è stata pertanto assimilata e ‘’ricalcata’’ dal Latino direttamente dal contatto che si venne a stabilire tra Romani e Italioti, ossia i ‘’Greci d’Italia’’, dunque in un periodo molto arcaico, forse -ma ne sono più che sicuro- già a partire dall’epoca regia. La forma radicale sicula del toponimo, con tenue dentale (t), è possibile leggerla anche sui campi monetali dei coni risalenti all’epoca della sua probabile (ri-)fondazione da parte dei Siculi al seguito del generale Filisto: HAT. L’incisione monetale, se impressa dalla popolazione sabellica, quei Piceni che ivi giunsero seguendo il picchio verde sacro al Dio Marte, sarebbe stata se non sotto l’egemonia dei Siculi ivi stabilitisi al seguito di Filisto. Ciò si evince sia dal sistema ponderale utilizzato sia soprattutto dalle immagini-simbolo impresse, che non sono oschi, ma fanno esplicito riferimento a quel sincretismo doro-siceliota-siculo sviluppatosi in Sicilia orientale a partire dal VI sec. a.C. Sul diritto del conio vi è infatti l’immagine di un volto di Sileno contornato da lettere: L per ‘’Litra’’ (sistema ponderale importato in Italia dalle popolazioni di ceppo proto-illirico: Siculi, Ausoni ed Enotri); H per ‘’Hatria’’. Sul rovescio vi è impressa la figura di un cane dormiente (da alcuni studiosi interpretato come lupo). Quanto descritto, sebbene sembri marginale, in realtà rivela e rileva tantissime cose molto importanti. La serie monetale, ossia il conio in questione, risalirebbe al periodo della ‘’rimpatriata’’ sicula, dunque al IV sec. a.C., non dunque al periodo arcaico, al VI sec. a.C., come supposto da alcuni studiosi, né al periodo coloniale romano, III sec. a.C., come supposto da altri studiosi. In un periodo della proto-Storia nel quale quell’aker Hatriaia siculo dell’età del Rame, dunque molti millenni prima, divenne successivamente sede nella seconda metà del III millennio a.C. degli Umbri, conquistati e/o scacciati dagli Etruschi del tempo proto-villanoviano (età del Bronzo finale, XII-XI sec. a.C.), per essere ancora successivamente riconquistato ed occupato dai Celti, e poi ancora dai Sabelli in espansione territoriale tramite il rito del Ver Sacrum: la iuventus (ossia la osca uereia, corrispondente alla sicula uerega del pagus del Mendolito di Adrano, nella Sicilia centro-orientale), i giovani votati a seguire il picchio verde nel rito che si compiva tra il primo Marzo ed il trenta Aprile e consacrati al Dio Marte perché nati in quell’arco temporale (quod natum esset inter Kalendas Martias et pridie Kalendas Maias). E quei Picentes, uereia sabellica che prese nome dalla teofania, dalla comparsa totemica del picus viridis, ex voto Vere Sacro, dalla conca di Norcia giunsero nella valle del Tronto, trovando nuova sede e fondando Ascoli, loro capitale, ed il temenos ‘’santuario’’, lo spazio sacro dedicato alla Dea Cupra dalla fulva chioma (Picena regio, in qua est Ausculum, dicta quod Sabini, cum Ausculum proficiscerentur, in vexillo eorum picus consederat, così come afferma Festo, già citato nelle note della pars prima di questa nostra avventura). Ma perché sulle monete è presente il cane e non il picchio verde allora? Semplice, se teniamo presente la compresenza illo tempore di Siculi ed oschi Piceni nel territorio e che anche il lupo (assimilabile in questo caso ad alcune specie canine) è sacro al Dio Marte: dal lupo, hirpus in lingua osca, nacquero dal Ver Sacrum gli Irpini. In ambito indoeuropeo, il gruppo celtico ed il macro-gruppo proto-latino/osco-umbro/paleoveneto, in stretto contatto oltre il medio corso del Reno, sembrano essere i soli ad aver conservato sino ad epoca proto-storica il rito del Ver Sacrum; non i proto-illirici Siculi, Ausoni, Enotri, Pelasgi etc. Ma è chiaro che i Piceni, una volta giunti in quella sede che, sebbene avesse cambiato molti residenti, non aveva invece cambiato denominazione, fusero i loro costumi con quelli della cultura precedente e poi con quella successiva, attraverso il processo noto d’assimilazione (e questo perché la ‘’similitudine’’era profondamente sentita tra popoli indoeuropei, proprio a livello cosciente oltre a quello sub-cosciente); cosa, questa, fatta già dalle altre popolazioni che ivi si erano avvicendate nel corso di millenni, fino a giungere alla prisca tradizione sicula: il cane molosso, sacro al Dio Hatranus, divenne il cane effigiato nel campo monetale assieme alla radice toponomastica HAT, palesemente sicula e così tràdita dai Siculi agli Umbri, da essi agli Etruschi, da questi fino ai Piceni e poi nuovamente ai Siculi. E quanto descritto si è verificato ulteriormente anche in Sicilia proprio nella serie monetale enea mamertina, sannita dunque, realizzata nella decade dei ’70 del III sec. a.C. e diffusa nell’area del messinese ed in quella etnea, recante sul diritto la testa elmata del Dio Hatranus, ben contraddistinta dalla dedica, e sul rovescio il noto cane molosso, che potrebbe benissimo essere assimilato all’effigie di un lupo. Che il lupo fosse presente nel cerimoniale guerriero dei sabelli Piceni è testimoniato da quella immagine da me usata sempre nella pars prima di questa serie documentaria: quel coperchio bronzeo rappresentante una danza rituale attorno ad un altare terminante con quattro teste di lupo disposte a Crux Solaris, esposto nel Museo Archeologico Nazionale delle Marche, ad Ancona, che Voi –mi auguro- andrete tra breve tempo a vedere. Vilje av jern … abbiate una ‘’Volontà di ferro’’. Il Vostro Daudeferd.
Alessandro Daudeferd Bonfanti
Note
[1] Anche se le fonti tacciono in tal senso, è palese che anche il lemma siculo “hatria” fa riferimento, così come i corrispondenti lemmi delle lingue ellenica e norrena, al flusso di particelle (95% di elettroni e protoni, 5% di particelle alfa –nuclei d’elio- e nuclei di elementi più pesanti) che compongono il vento solare, dispensatore di vita e morte. Al testo intitolato “La lingua dei Siculi”, ancora lavoro in fieri, ho dedicato sino adesso più di 1200 pagine, che forse sfoltirò per una prima edizione di 500 o 600 pagine. Su importantissime etimologie sicule rimando ai testi “Siculi: popolo Ario venuto dal Nord” e “Siculi Indoeuropei. Le origini nordiche dell’Ethnos” Tomi I e II; ed al mio articolo “Il Pantheon dei Siculi” sul n. 5/2020 della rivista di Studi Tradizionali Atrium, a cura del Prof. Nuccio D’Anna.
[2] Sui morfemi n, t e k, aventi valenza genitivale, a volte con specifico senso inessivo e/o ablativale, di cui quello in nasale originario proto-latino (in totale corrispondenza con quello in l del gruppo germanico, essendo entrambi sonanti dalla specifica natura intercambiabili), e quelli in dentale e velare tenui, di specifica derivazione ellenica, dunque a sua volta inglobati per effetto osmotico nel Latino, ho dato già esaustiva esplicazione nei miei libri, alla cui lettura Vi rimando.
[3] Plinio, Naturalis Historia, Libro III, 14, 113: … trecenta eorum oppida Tusci debellasse reperiuntur.
[4] Le fonti però tacciono (Plinio in primis) sulla possibilità che questa Hadria/Atri nell’attuale Abruzzo fosse stata ‘’ripresa’’ dai Siculi al seguito di Filisto, dato anche il fatto che il generale siracusano si ritirò in esilio in un’altra Hadria, ossia l’attuale Adria, situata molto più a Nord, nell’attuale Regione del Veneto, a partire dal 386 a.C., da quel periodo che secondo lo storico Plutarco di Cheronea coincide con l’inizio della stesura della sua opera storica, Sikelikà ‘’Fatti di Sicilia’’, ormai perduta. Un’altra Hatria più a Nord lungo il litorale adriatico dunque, che, visto il nome, di certo avrebbe avuto per fondatori ed abitanti se non Siculi. Io propendo però anche per la presenza sicula (seppur esigua) a partire dal IV sec. a.C. in quella Hadria/Atri della Regione dei Piceni.
[5] Riconosco agli Etruschi la loro indoeuropeità, basandomi su dati di varia natura, linguistici, culturali ed antropometrici, rigettando in toto, così come per altre popolazioni d’Italia, tra cui Sicani e Liguri, la nota etichetta di ‘’mediterraneo’’, significando a mio avviso il ‘’nulla concettuale’’. Il mistero della lingua etrusca è risolvibile tenendo conto dell’effetto pidgin, di creolizzazione di varie parlate indoeuropee fusesi e di diversa provenienza ed antichità, attraverso il processo di sinecismo, a cui va ascritto anche uno strato egeo-anatolico (sempre indoeuropeo), quello dei noti Tyrsenoi ‘’Costruttori di torri’’, buoni marinai che oltre alle isole dell’Egeo (si pensi a Lemnos) occuparono anche la Sardegna, dando nuovo impulso alla Cultura nuragica fino al raggiungimento della maturità tholoide (nella quale non escludo anche un impulso ellenico di cui i Miti fanno esplicito riferimento).