Nella tradizione romana, cosi come ogni luogo (monte, antro, fonte, selva, luco, fiume, ecc.) a connaturato da una valenza sacra sua particolare che, ovviamente, può essere di segno positivo, negativo o neutro, sì da configurare i termini di una vera e propria geografia sacra, allo stesso modo gli esseri che ne animano lo spazio assumono anch’essi una valenza sacrale di differente valore, anche se in realtà topografia e zoologia sacre sono molto spesso intimamente connesse, come ben sapevano gli esperti della disciplina augurale, che non a caso sceglievano i luoghi per le loro osservazioni.
Del resto, il solco tracciato da Romolo alle falde del Palatino derivava dall’aver ricevuto l’augusto augurio proprio su quel monte e “la concezione romana era costruire in un luogo già reso propizio, e questa propiziazione preesistente era in qualche misura un precedente e al tempo stesso una garanzia degli dèi: era la base della disciplina augurale”(1). La scienza sacerdotale degli auguri e dei pontefici, se era in grado di distinguere, in primo luogo, animali sacri e profani (o poteva renderli tali) e, in seconda istanza, animali di buono o cattivo augurio (ad esempio, il primo caso valeva per “l’uccello di Semo Sancus” o avvoltoio degli agnelli, il secondo per l’”uccello incendiario” o spinturnice) allo stesso modo conosceva una botanica sacra e parlava di arbores felices o infelices, argomento su cui ci soffermeremo in questa occasione.
Occorre innanzitutto chiarire il significato del termine felix e del suo contrario infelix.
I linguisti profani traducono generalmente felix con “fruttifero”, infelix con “sterile”. Di per sé la traduzione non sarebbe del tutto inesatta se non la si intendesse – come di solito si fa – dunque sbagliando – in senso grossolanamente materiale.
Se consideriamo come certi grandi personaggi e condottieri della storia romana fossero definiti felices, ad esempio Silla (Sulla felix), o come la Felicitas, accanto alla Fortuna, fosse considerata compagna di molti sovrani e imperatori, a partire da Cesare, potremo avvicinarci al senso reale dell’espressione. Può essere felix il grande condottiero, l’eroe che pare avere superato i limiti della condizione umana grazie alle sue imprese eccezionali: dunque è felix colui che è “favorito dalla sorte”, il “baciato dalla fortuna”, proprio perché egli ha avuto dalla sua parte le forze divine.
Ma anche se ci siamo avvicinati di molto, non è questo il significato definitivo che dovremo dare a felix. In realtà questi grandi personaggi si possono definire felices perché tutto ciò che è connesso con la loro persona, sin dalla nascita, si potrebbe dire, deve necessariamente cadere “sotto buoni auspici”; la loro felicitas a un dato di fatto auspicale che viene semplicemente riconosciuta da Giove in persona, come nel caso di Romolo, o dal senato, come nel caso di Ottaviano, che sarà definito Augustus.
Così, tornando al nostro assunto, la dottrina pontificale trattante la botanica sacra chiariva quali fossero gli arbores felices, gli “alberi di buon augurio”. Uno scrittore di cose sacre del I secolo a.C., Veranio, autore di perduti Auspiciorum libri e di non meno importanti e perdute Pontificales Quaestiones, nel libro di quest’ultima opera dedicato vebis pontificalibus (“al lessico dei pontefici”) precisa trattarsi de “la quercia (rovere), il ischio, i1 leccio, la sughera, il faggio, i1 nocciolo, il sorbo, il fico bianco, il pero, il melo, la vite, il prugno, il corniolo, il loto“(2).
… Non stupisce di trovare, fra le quattordici specie indicate da Veranio, ben quattro varietà di quercia (rovere e leccio – sacri anche a Virbio la divinità capostipite dei Reges Nemorenses di Nemi(3) – sughera e ischio – o eschio ed eschia oggi chiamato più comunemente farnia) e la vite: alberi sacri, com’e noto, al dio padre supremo Giove. Inoltre, il loto (che è il loto italico, pianta terrestre e legnosa da non confondersi col loto indiano, caro all’iconografia delle religioni orientali) era pianta cara a Romolo ed un esemplare, ritenuto aequaeva urbi (contemporaneo alla città, Plinio, XVI 236), s’innalzava nei pressi del santuario romuleo del Volcanal.
Infine, e da supporre che il corniolo fosse pianta sacra a Marte, considerato che un giavellotto fatto con quel legno dalla punta indurita dal fuoco era scagliato da uno dei Feziali in territorio nemico a mo’ di dichiarazione formale di guerra: equivaleva al furor Martis che vi penetrava devastatore(4).
All’elenco di Veranio va certamente aggiunta almeno un’altra pianta, quella dell’olivo, dal momento che un suo frammento (virga olaginea) sormontava l’apex del Flamine Diale, il copricapo del sacerdote massimo di Giove, fissato all’estremità con un filum di lana. Sempre il Flamine diale come sappiamo, presiedeva all’inaugurazione della vendemmia e tagliava, quindi, il primo tralcio di vite nell’intervallo del sacrificio a Giove e sempre lui doveva far seppellire i propri capelli e le unghie recise sotto la protezione di un arbor felix. Tutti questi particolari, uniti a quello, essenziale, che il rinnovamento del fuoco il 1° marzo, nel tempio di Vesta e in ogni casa privata, poteva avvenire per mezzo dello sfregamento di legni unicamente provenienti da arbores felices, ci fa ben capire allora che la condizione di felicitas di quelle essenze arboree, il loro essere “di buon augurio”, derivava loro dall’essere sotto la tutela degli dei celesti o superi, ed in particolare del padre celeste Iuppiter.
La riprova a contrario, ci è fornita dall’affermazione esplicita di un altro autore di epoca cesariana e di origine sicuramente etrusca, Tarquizio Prisco, che tradusse in latino dall’etrusco un’opera sull’interpretazione dei prodigi: De ostentario. Nella parte dedicata “ai prodigi degli alberi” (de ostentario arborario) egli afferma che gli alberi chiamati infelices (di cattivo augurio) sono quelli sotto la tutela degli dèi inferi e allontanatori dei mali”(5).
L’espressione “allontanatori dei mali” (deorum avertentium)(6) ci fa capire che la loro connota zione relativamente negativa (dovuta al legame con la sfera infera) a peraltro compensata dalla possibilità di stornare, appunto, cose od oggetti funesti tramite il fuoco della loro legna.
Sempre Tarquizio, infatti, ci dice che con la legna degli arbores infelices portenta prodigiaque mala comburi iubere oportet. Tali alberi sono: “l’alaterno, la canna sanguigna, la felce, il fico scuro e quelli che producono bacche nere e frutti neri; parimenti l’agrifoglio, il pero selvatico, il pungitopo (?), i1 pruno (o il lampone?) e i rovi“(7).
Queste poche notazioni ci fanno capire, ancora una volta, come ogni cosa che ci circondi – che circondi il vir Romanus – debba essere considerata nel giusto peso e, in ogni caso, nella sua esatta connotazione sacrale.
Ancora oggi, nel giardino o nella domus del civis di stirpe italica, la presenza di uno o più arbores felices può essere auspicio e indizio di una superiore presenza divina e l’offerta e la consumazione di un suo frutto, sia pure in apparenza modesto (avete mai gustato una sorba?), può acquistare il senso di un debito omaggio alla sfera supera.
Promagister
(da La Cittadella n° 34, ottobre-dicembre 1992)
NOTE
1) Y.L. GERSCHEL, Structures augurales et tripartition fonctionnelle dans la pensée de l’ancienne Rome, in “Journal de Psycologie”, 1952, p.57.
2) Cit. in MACR., Sat., 111, 20, 2. Altre citazioni di Veranio in Macrobio sono in 111,5,6 (sul significato delle “vittime esimie”); in 111,6,14 (sulla funzione dei Pinarii); in 111,2,3 (citazione da Fabio Pittore).
3) Cfr. R. DEL PONTE, Dei e miti italici, Genova 1988, p.189. Sull’importanza e il significato della quercia nella tradizione romana, cfr. dello stesso La religione dei romani, Milano 1992, pp.18-19.
4) Cfr. La religione dei romani, cit. pp.159, 161 e 184, nota 219.
5) Cit. in MACR., Sat.II1, 20, 3. Altra citazione di Tarquizio in Macrobio e in 111,7,2 (sul colore del vello dei montoni).
6) L’espressione ci riporta a quei misteriosi “Dei Averrunci” di cui parlano alcune tradizioni religiose di origine etrusca. Il verbo averrunco “allontanare”, “stornare”, è termine tecnico pontificale.
7) MACR., Sat., 111, 20, 3.