La scienza sacerdotale nella Romanità è un tutt’uno con il diritto

Gli autori antichi uniti agli studi del professor Francesco Sini – ordinario di storia del diritto romano all’Università di Sassari e profondo conoscitore del diritto romano e delle sue implicazioni con la stessa religione dei Gentili – ci consentono in questo articolo di approfondire il concetto di scienza sacerdotale in Roma e di rilevarne i suoi principi fondanti sul tempo e sullo spazio – enti questi che per i nostri antenati appartenevano agli Dèi.

Suovitaurilia
Suovitaurilia

Già Ulpiano, giurista dell’età dei Severi (II – III secolo e.c.) definisce la Iurisprudentia, accolta nei Digesta dell’imperatore Giustiniano (VI secolo e.c.): Iurisprudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia (la giurisprudenza è la conoscenza delle cose divine e umane, di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto).

D’altronde, come affermava il giurista Riccardo Orestano, la distinzione tra il divino e l’umano rappresentava “la più antica concezione romana del mondo”, presente non solo nella Iurisprudentia di Ulpiano, ma anche nelle Istitutiones di Gaio (unica opera giuridica che ci è giunta pressoché originale) e molto probabilmente anche nelle Antiquitates rerum humanrum et divinarum di Marco Terenzio Varrone (I sec. a.e.c.) che fa un resoconto della storia culturale e istituzionale della società e della religione romana distinguendo le Res humanae dalle Res divinae, la cui opera è andata completamente persa, ma che può essere parzialmente ricostruita – purtroppo non priva di contaminazioni di epoca cristiana – attraverso il De Civitate Dei di sant’Agostino, anche se viene citata in misura minore anche da altri autori, alcuni non cristiani come Aulo, Gellio, Censorino, Servio, Nonio, Macrobio e Prisciano.

Dunque, il diritto romano, rivolgeva le sue prime attenzioni nella regolamentazione dei rapporti fra gli uomini e gli Dèi, per preservare la Pax Deorum, attraverso l’esatta conoscenza di tutto ciò che era lecito fare o dire (Fas) e di tutto ciò che era invece illecito (Nefas).

PAX DEORUM

I sacerdoti romani asserivano l’esistenza di un legame inscindibile tra la storia e la vita del popolo romano e la sua Religio, perciò tutti i riti e i culti della Prisca Religio erano finalizzati al mantenimento della Pax Deorum, cioè della “Pace con gli Dèi”, perché come asseriva Cicerone nel Liber II della sua opera teologica De Natura Deorum: “ … se vorremo paragonare la storia di casa nostra con quella dei popoli stranieri troveremo che in tutto il resto fummo pari ad essi o anche inferiori, ma nel culto divino, fummo loro di gran lunga superiori”.

Non a caso, lo Ius Divinum dimostrava che il favore degli Dèi aveva concorso alla fondazione e allo sviluppo dell’Urbs Roma (civitas augescens come affermava il giurista Sesto Pomponio di età adrianea, II secolo e.c.), garantendo l’estensione sine die dell’Imperium Populi Romani (vedi “Religione e Poteri del popolo in Roma Repubblicana” in Sini).

Il legalismo religioso (ius sacrum) è quindi l’insieme delle regole che servono a mantenere la Pax Deorum, ossia un insieme di atti e di comportamenti da rispettare per conservare il favore degli Dèi. Dunque, l’importanza degli Dèi nel sistema giuridico – religioso romano spiega la minuziosa attenzione dell’annalistica romana, continuatrice dell’attività storiografica dei sacerdoti romani, nel trattare fatti che possono turbare la benevolenza divina, descrivendo le eventuali conseguenze negative per la collettività e i riti necessari per l’espiazione. Non a caso, il diritto del popolo romano (ius publicum) organizzato, secondo la tripartizione ciceroniana e ulpinianea, in sacra, sacerdotes e magistratus, affonda in interpretazioni sacerdotali di età precedente o appena successiva al pareggiamento tra patrizi e plebei (“Documenti Sacerdotali di Roma Antica” in Sini).

TEMPO DEGLI DEI

I buoni rapporti tra gli uomini e gli Dèi dipendevano anche dalla scrupolosa osservanza del Tempo degli Dèi, dei giorni di festa cioè dedicati alle divinità (dies festi) e dei giorni di ferie (feriae).

Per quanto concerne i dies festi si trattava, secondo Macrobio (V secolo e.c.), di giorni in cui i cittadini dovevano praticare le devozioni verso gli Dèi, celebrando i sacrifici in loro onore, giorni sottratti alle altre attività, consacrati al culto.

Il commentatore di Virgilio Servio Mario Onorato, più noto come Servio Danielino (IV secolo e.c.) scrive che le feriae sono da considerarsi come operae dovute agli Dèi e ci dice che durante le feriae sono proibiti i lavori agricoli, perché le ferie sono state istituite per gli Dèi.

Per Francesco Sini (“Uomini e Dei …”) “… proprio nel ricorso alla nozione di opera, mi pare possa cogliersi l’esatto senso giuridico degli obblighi gravanti sugli uomini per il rispetto del tempo delle feriae.

RITI E CERIMONIE

Senza una trasmissione scritta delle cerimonie e dei riti previsti dalla riforma di Numa Pompilio, di cui abbiamo notizie nelle opere di Plutarco, sarebbe stato pressoché impossibile realizzarli in modo preciso a distanza di secoli.

Ad esempio, nella “Vita di Numa” Plutarco scrive di sacrificare un numero dispari di vittime agli Dèi celesti ed un numero pari a quelli inferi, del divieto di libare agli Dèi con vino, di non sacrificare senza farina, di adorare e pregare la divinità facendo un giro su se stessi.

Secondo il rettore Arnobio (IV secolo), originario di Sicca Veneria nell’Africa proconsolare romana, anche le regole dell’Indigitamenta sarebbero state fissate da Numa Pompilio.

Gli indigitamenta, sono gli appellativi rituali per invocare le varie divinità (nomina deorum et rationes ipsorum nominum); affinché l’invocazione andasse a buon fine, ogni divinità doveva essere chiamata esattamente con gli specifici nomi ed epiteti, senza commettere errori.  Le formule erano custodite in gran segreto dai pontefici per non finire in mano nemica, pena la sicurezza della Res Publica, e il Pontefice Massimo dettava, le formule al magistrato per gli atti pubblici compiuti. A tal proposito, scrive Tito Livio: (Livius 1.20.5-7): “Poi nomina pontefice un senatore, Numa Marcio, figlio di Marcio, cui fornisce dettagliate istruzioni scritte per tutte le cerimonie sacre: i tipi di vittime, i giorni prescritti, i templi in cui celebrare i vari riti e le risorse cui fare capo per mantenerne le spese. Subordinò all’autorità del pontefice anche tutte le altre cerimonie di natura pubblica e privata, in modo tale che la gente comune avesse un qualche punto di riferimento e che nessun elemento della sfera religiosa dovesse subire alterazioni di sorta, dovute a negligenze dei riti nazionali o all’adozione di culti di importazione. Inoltre il pontefice doveva diventare un esperto e attento interprete non solo delle cerimonie legate alle divinità celesti, ma anche delle pratiche funerarie, di quelle di propiziazione dei mani e dell’interpretazione dei presagi legati ai fulmini o ad altre manifestazioni”.

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SACRIFICI

Come ci narra Danielino nel suo commento a Virgilio, i sacrifici potevano essere sia incruenti che cruenti: gli incruenti consistevano in offerte di prodotti della terra (libamina), mentre quelli cruenti erano veri e propri sacrifici di esseri animati (hostiae, victimae). Ovviamente, il risultato che si otteneva con i sacrifici cruenti era superiore rispetto a quelli incruenti, poiché il sangue delle vittime sacrificali era molto gradito agli Dèi.

Come spiega Sini, col termine hostiae si indicavano gli animali di piccola taglia come i maiali, le capre, le pecore, mentre erano considerati victimae quelli più grandi come ad esempio i tori e le vacche. Nei sacrifici particolarmente solenni si sacrificavano un maiale, una pecora e un toro, e prendevano il nome di suovitaurilia, come quelli che si offrivano al Dio Marte in Campo Marzio nel corso di cerimonie di purificazione del Populus Romanus che avvenivano ogni cinque anni ad opera dei Censori (lustrumcondere). Il sacrificio era celebrato annualmente anche dal pater familias per gli Ambarvalia, feste che si svolgevano nella seconda parte del mese di maggio. Il giorno prima del sacrificio solenne, si sacrificava una vittima espiatoria (praecidanea, cioè uccisa prima), per sanare eventuali infrazioni involontarie che si sarebbero potute commettere durante la cerimonia.

In alcuni rarissimi casi, come quando incombeva un grave pericolo sulla Patria, si ricorreva al sacrificio supremo, cioè quello umano, quasi sempre però sostituito con quello di animali (come prevedevano ad esempio le Leges Regiae per il colpevole di omicidio involontario).

I sacrifici umani veri e propri, comunque proibiti dal senato dal 97 a.e.c., furono praticati in maniera assolutamente sporadica ed eccezionale (vedi le sepolture rituali citate da Plinio il Vecchio nel 28esimo libro della Naturalis Historia). Gli episodi più famosi che si ricordano, perché di episodi si tratta, sono ambientati in età repubblicana. Ne riferiscono Tito Livio e Plutarco: sono due sacrifici straordinari (sacrificia aliquot extraordinariae) avvenuti nel 228 e del 216 a.e.c., nel foro boario previa consultazione del Libri Sibillini, uno prima della guerra contro gli Insubri, il secondo dopo la disfatta di Canne. Il sacrificio in entrambi i casi si tradusse nella sepoltura, da vivi, di una coppia nemici, Celti e Greci (un maschio e una femmina). Notizia di altri sacrifici umani si ha a proposito di una vestale, accusata di sacrilegio per aver rotto voto di castità (vestale incestuosa) o lasciato spegnere il sacro fuoco di Vesta; anche in questo caso la pena era la sepoltura da viva.

Di diversa natura erano altri sacrifici (c/d umani) praticati nella millenaria vicenda della Romanità che nulla avevano a che fare coi precedenti:

  • il sacrificio della Devotio – una sorta di suicidio propiziatorio del comandante in capo in battaglia che si lanciava sui nemici “chiamandoli” alla morte con sé e venendo da questi massacrato: se solitamente (Devotio Ducis) veniva compiuto dal comandante dell’esercito (magistrato cum imperio), era anche nelle facoltà di qualsiasi cittadino (LivioAd Urbe Condita, liber VIII, 10);
  • il sacrificio, di origine italica, della Primavera sacra (sacrificio sostitutivo);
  • il misterioso rito degli Argei (sacrificio simbolico), di cui parla Marco Terenzio Varrone, in cui venivano gettati nel Tevere dal ponte Sublicio ventisette fantocci di paglia in sostituzione di vittime umane;
  • l’esecuzione rituale di legionari accusati di tradimento, ordinata da Cesare al Campo Marzio.

In particolare, di riti della Devotio sono passati alla storia quelli della gens Decia: il più famoso fu quello del console Publio Decio Mure prima della battaglia del Vesuvio nel 340 a.e.c. Ecco la formula evocata da Mure (Livio, VIII, 9.6-8): “Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dèi Indigeti, dèi che avete potestà su noi e i nemici, Dèi Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli Dèi Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l’esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici”.

Differente invece la Devotio Hostium con cui si sacrificava agli Dėi la città nemica appena conquistata, come avvenuto per Cartagine e per Veio e si evocava la divinità protettrice di quella città a cui si offriva un tempio più grande e bello a Roma.

La Primavera sacra, infine, era un voto pubblico fatto agli Dèi dal magistrato, a nome del popolo romano, consacrando ad essi tutti i nati della primavera che sarebbe venuta, vegetali, animali e uomini. I vegetali venivano offerti (libamina) e gli animali sacrificati (hostiae, victima) da ciascun cittadino nel proprio fondo agricolo. I neonati, secondo le fonti che abbiamo di epoca storica, non venivano uccisi, ma, consacrati alla divinità e in età adulta banditi dalla patria per andare a fondare altrove una nuova colonia. La formula di questo rito, ci è arrivata attraverso Tito Livio (XXII, 10).

Si può, in conclusione, notare il duplice aspetto che mette in luce il diritto divino romano: da un lato le azioni sacrificali servivano ad attrarre la benevolenza e la condivisione del mondo invisibile sulle azioni che i romani intendevano compire nel mondo visibile, dall’altro canto i sacrifici erano indispensabili per la vita e la potenza stessa degli Dèi, che diventavano tanto più influenti sullo specifico, quanto più rigorosi erano i riti (R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, cit., p. 4).

Cristiano Vignali