La Triade Capitolina è il vero “Cenacolo” della Romanità.
Bassorilievo marmoreo unico al mondo a rappresentare congiuntamente Giove, Giunone e Minerva simbolo dello Stato romano, eccezionale per raffinatezza stilistica e per stato di conservazione, è parte del patrimonio artistico nazionale solo dal 1994.
Risale al II o III secolo dell’era comune, l’autore del capolavoro non ci è noto.
La scultura fu ritrovata, dopo diciassette secoli di oblio, nel 1992 in una villa romana del parco dell’Inviolata, a Guidonia, durante uno scavo clandestino.
I tombaroli la vendettero ad un antiquario svizzero; due anni dopo però i Carabinieri, con una brillante operazione, la recuperarono e la riportarono in Italia.
Allora erano molto alte le aspettative di una giusta valorizzazione di questo gioiello marmoreo dal grande significato simbolico: andava esposto possibilmente a Roma, magari in Campidoglio, con un percorso dedicato, da grande star.
Invece no, non se ne fece nulla.
Purtroppo – anche qui – l’Italia ufficiale è riuscita a mostrare il triste di sé, facendosi risucchiare da meschini ricatti campanilistici.
Inizialmente la scultura è stata esposta nel Museo archeologico di Palestina, una valida sede ma defilata e filologicamente sbagliata, vista la dedica della città/tempio di Praeneste alla Déa Fortuna.
Poi, definitivamente, per colpa dell’ignavia di soprintendenti arrendevoli di fronte alla tigna di un sindaco – di recente interdetto in perpetuo dai pubblici uffici per corruzione – che la voleva proprio lì, nel comune del suo rinvenimento, il rilievo marmoreo è finito seminascosto al mondo in un convento di Montecelio sul colle Monte Albano, sede oggi, tra le altre, del piccolo museo civico archeologico “Rodolfo Lanciani” – struttura assai poco visitata dagli stessi abitanti di Guidonia e … priva pure di sito web.
Se è sperabile che, dopo ventisei anni, un raggio di sole illumini la mente di qualche burocrate decisore, vale la pena intanto di rileggere il significato e la storia della Triade Capitolina in due lucidi articoli di Salvatore Ruta (firmati con pseudonimi) pubblicati su la Cittadella n° 39 (gen. – mar. 1994) e 40 (giu. – ago.) che pubblichiamo oggi, Calende di settembre, in vista proprio della festa della Triade che cade il prossimo 13.
Paolo Casolari
IL RITORNO DEGLI DEI
Regnante la dinastia dei Tarquinii, all’arcaica triade Giove-Marte-Quirino, venne sostituita, nell’ambito del culto statale di Roma, la triade Giove-Giunone-Minerva. Questa trovò posto nel Tempio di Giove Ottimo Massimo, che Tarquinio il Superbo yolle costruire sull’antico Saturnius mons, cioè su quello che poi sari detto Capitolium, Campidoglio. Quel tempio fu dedicato agli albori della Repubblica dal console M. Orazio Pulvillo e valse sempre, da allora in avanti, come simbolo stesso dello Stato romano: uno Stato inteso come una realtà divina che Giove e, in subordine, le dee che lo affiancano, manifestano e, insieme, proteggono.
Quando Tarquinio il Superbo fece iniziare i lavori per le fondamenta del Tempio di Giove Ottimo Massimo, procedette innanzitutto all’exauguratio di tutti i sacelli relativi ad altri culti, poiché l’area doveva, come ricorda Tito Livio, essere libera a ceteris religionibus (I, 55, lsg.), ma gli uccelli consultati dagli auguri vollero che un sacello rimanesse: quello del dio Terminus, il dio della sacralità dei termini, dei confini. Ciò fu, secondo l’arte augurale, interpretato come un “auspicio di perennità” (I, 55, 3), ulteriormente confermato dal ritrovamento di una testa umana in stato di perfetta conservazione: un caput humanum che fece sì che il Saturnius mons divenisse il Capitolium: il caput mundi e, per se stesso, il punto di partenza della propagatio terminorum. Una propagatio indefinita, dal momento che l’inamovibile dio Termine presagiva a Roma un confine coincidente col mondo intero: “alle altre genti – dice Ovidio nei Fasti (2, 682sg.) – la terra e stata assegnata con un limite preciso, per la gente romana lo spazio dell’Urbe si identifica col mondo”.
Dal tempio capitolino di Giove partivano dunque i duci romani alla conquista del mondo e lì tornavano a celebrare, vestendo il rosso manto del dio, i trionfi dell’Urbe. In settembre, mese dedicato a Giove, il giorno 4, primo dei Ludi Romani, le effigi della Triade Capitolina sfilavano in processione dal Campidoglio al Circo Massimo, presenti i consoli e i pontefici. Alle Idi dello stesso mese, poi, con la partecipazione di tutto il Senato, si dava nel grande tempio un banchetto (lovi epulum) in onore di Giove, Giunone c Minerva, i quali apparivano, nei loro simulacri, seduti su di un divano.
Pochi avanzi rimangono oggi del Tempio di Giove Ottimo Massimo, e della Triade Capitolina fino a ieri non si conoscevano pin the raffigurazioni, peraltro piuttosto frequenti, su monete di età imperiale. Ma ecco che due anni fa degli esperti “tombaroli”, lavorando con una scavatrice nell’area archeologica detta dell’Inviolata, tra Tivoli e Guidonia, ritrovano un eccezionale gruppo marmoreo riproducente proprio la Triade venerata sul Campidoglio. ll capolavoro prende subito la via della Svizzera, dove un trafficante d’arte italiano, che io aveva acquistato per quattro miliardi, lo rivende ad un collezionista elvetico pronto a cederlo a sua volta, per sette miliardi, a qualche riccone americano o giapponese. Quest’ultimo commercio è pero bloccato dall’Arma dei Carabinieri, che segue le tracce della Triade fin dal suo abusivo ritrovamento. Con modalità avventurose, il gruppo marmoreo torna quindi finalmente in Italia. E’ il dicembre del ’93.
Dicembre: il mese dei Saturnali, del dio che occulto dorme nel Lazio e che ha nel Campidoglio il suo monte sacro: la Triade riposa celata tra le cure di studiosi e restauratori. Gennaio: il mese di Giano, il dio degli inizi e dei passaggi, dei rinnovamenti: la Triade si prepara a tornare alla luce del sole. Febbraio: il mese di Februo, il dio delle purificazioni e delle espiazioni che precedono l’inizio, alle Calende di marzo, dell’anno religioso di Roma e il riaccendersi del fuoco di Vesta: la mattina del 23, nella sala dei ricevimenti dell’ex collegio di San Michele in Roma, sede della direzione generale dei Beni Culturali, il ministro Alberto Ronchey, con al fianco il professor Federico Zeri, il nostro maggior storico dell’arte, presenta infine rimportante scultura al mondo intero.
Ecco di nuovo la Triade di Roma: i tre dei sono seduti su di un sobrio divano, ed ognuno ha ai suoi piedi ii relativo animale simbolico: Giove l’aquila (l’imperium)„ Giunone ii pavone piumato (la bellezza generosa della terra), Minerva la civetta (la sapienza). II professor Zeri, datata l’opera al 11-111 secolo d.C., spiega: “…doveva appartenere a un cittadino romano di altissimo lignaggio, dell’aristocrazia senatoria o della famiglia imperiale stessa. La Triade 6 in uno stato di conservazione eccezionale. Anche i danni visibili sarebbero stati prodotti nell’antichità, quando i simulacri degli dei pagani iniziarono ad essere sfregiati e fatti a pezzi dall’avanzare della religione cristiana “. E ai microfoni del TG2 dichiara sorridendo: ” E’ di buon augurio!” Gli fa eco il ministro Ronchey, uno dei pochi di questa “Prima Repubblica” degni di un buon ricordo, che avverte con aria grave ma soddisfatta: “E’ un simbolo del culto dello Stato. Mi sembra significativo che venga ritrovato in questo momento in cui l’Italia 6 alla ricerca di una nuova cultura dello Stato”.
Lo Stato antinazionale, clericale e corrotto sta crollando e, malgrado le incertezze le difficoltà e le brutture che ancora si dovranno sopportare, chiunque abbia ad avere provvisoriamente l’egemonia nell’immediato futuro, forse si riaprono le vie del sogno di un’Italia romana. Nel lontano inverno del 415 d.C., viaggiando per un’Italia in rovina, Rutilio Namaziano poteva pur scrivere: E’ ciò che guasta gli altri regni a rinforzarti: rinasci perché dai tuoi danni sai trai forza e crescita. Parole di un poeta illuso e nostalgico, si dirà. La verità, diciamo noi che sappiamo. Nessuno se n’è accorto, ma il 23 febbraio, giorno in cui Roma ha rivisto gli dei dello Stato, sul suo antico Kalendarium era segnata la festività del dio Terminus, cioè di quel dio che non voile essere allontanato dal Campidoglio perché doveva rimanervi insieme alla Triade Capitolina, come garante per sempre del destino immortale dell’Urbe.
L. Aurelio Cusiano
TRIADE ARCAICA E CAPITOLINA, SIGNIFICATI
Il rinvenimento e la presentazione del gruppo statuario della Triade Capitolina ci offre occasione di illustrare genesi, formazione e azione della Triade, la pii antica o la più recente che sia.
Il fatto che – a parte il Rex Sacrificus che potrebbe essere il Sacerdote di Giano, i1 primo degli dei (1) – i massimi sacerdoti di Roma siano i Flanmini Diale, Marziale a Quirinale (2), fa pensare che Juppiter, Mars, Quirinus costituissero In pie antica triade divina dei Romani.
Il Dumezit (3) mette i piena luce in polivalenza della triade in cui Giove esprime la potenza della regalia magica, Marte quella del combattimento (cum saevit dice Servio) e Quirino quella dell’ attività pacifica ma non imbelle (Mars tranquillus aggiunge lo stesso A.),I tre dei sono poi patroni dei principali gruppi di uomini the costituiscono i1 corpo sociale romano: re/sacerdoti magistrati; guerrieri; produttori. Essi possono essere riferiti a luoghi significativi della Città: Campidoglio, Palatino, Quirinale ed alle tribù primitive di Roma (4): Ramnenses, Luceres, Titienses.
E’ da notarsi, non incidentalmente, che la triade è composta da déi che agiscono con diverse modalità nelle attività belliche ed in quelle pacifiche. Giove (come Statore) ferma i legionari romani che stanno per fuggire davanti al nemico e Marte (come Gradivo) apre loro la via alla vittoria. Quirino è però detto “fratello di Marte” (5) e in quanto tale svolge una funzione alternativa a quella del guerriero. quando agisce uno è in quiete l’altro: la pace è alternativa alla guerra. Quirino non e il dio dei pacifisti, imbelli, infatti i Romani nelle loro attività civili sono detti Quiriti, anzi il Popolo Romano è detto ufficialmente “il Popolo Romano dei Quiriti” come a voler rivendicare la filiazione dei Romani da Romolo, annoverato tra gli del con il nome di Quirino. Abbiamo già detto che a simiglianza dei due suoi divini compagni nella triade anche Quirino era armato (6), quantunque si supponesse che le armi non fossero da lui usate se non quando da Marte “tranquillo” diventava Marte “bellicoso”.
La triade, nella quale primeggiava Juppiter Optimus Maximus, era ospitata nel tempio di Giove O.M. sul Campidoglio, tempio fatto erigere dai dinasti Tarquinii, ma pubblicamente dedicato dal console M.Orazio Pulvillo nel primo anno della Repubblica (7).
Forse per influenza greca, tramite gli etruschi, quell’arcaica triade venne poi sostituita dalla triade Juppiter, Juno, Minerva, nella quale vengono confermati i riferimenti funzionali notati nella precedente. Giove è, infatti, sempre il re-mago, Giunone, vista politicamente come “regina”, appare talvolta come armata (8), come lo è pure Minerva. Si conferma però la sapienziale pratica cultuale del collegio pontificate per cui ogni cambiamento non presuppone una soppressione, bensì una sommatoria più o meno palese. Così alla dea Fidia i Flamini Diale, Marziale e Quirinale, insieme ed annualmente, offrivano un sacrificio (9). Questi tre Flamini si recavano al tempio di Fides sullo stesso carro, per andare a porre, chiarisce il Dumezil, sotto la garanzia della dea e la coesione delle tre cose, di cui Giove, Marte e Quirino sono patroni particolari” (10),cose che fanno Roma.
Nella prima triade Mars e Quirinus erano aspetti non secondari della regalità rappresentata da Giove, esprimendo Marte la funzione difesa e Quirino la funzione produzione, inerenti al re degli dei.
Come re degli déi, Giove assicurava agli uomini giustizia e ordine (anche religiosa), protezione e benessere: era naturale che cacciati i re che ripetevano le funzioni tra gli uomini, Giove Ottimo Massimo divenisse il dio che ha in sua tutela lo Stato (Respublica).Le altre due divinità, Giunone e Minerva (11), assumono valenze differenti da quelle proprie a Marte e Quirino. Giunone è vista come “regina” e protettrice del Campidoglio (le oche a lei sacre sventano l’assalto dei Galli all’arce capitolina), mentre Minerva è la patrona dei Collegia Fabrorum in una società in cui l’industria si affianca prepotentemente all’agricoltura (12).
Giove Ottimo Massimo, re degli déi e degli uomini, mostra il suo emblema di Patrono della Repubblica: aquila che stringe fra gli artigli i fulmini. Vediamo questo emblema sui vessilli delle legioni oltre che sui fregi architettonici.
Insieme le tre divinità rappresentano la vita dello Stato nelle sue funzioni e suoi valori che non sono politici se non subordinatamente a quelli religiosi. Come è ben stato detto “Ogni atto, ogni manifestazione dello Stato romano è, in pari tempo, atto religioso, manifestazione religiosa” (13).
Claudio Rutilio
NOTE
1) G. DUMEZIL, “La Religione romana arcaica”, Rizzoli, 1977 ,p.295. M. POLIA “Cinque questioni di tradizione romana”, in I Quaderni di Avallon, I, dic.1982- mar. 1983, pp. 30-33. C. RUTILIO, “Il significato del Rex Sacrorum” in La Cittadella” n.2 Ott.-Die 1984, pp. 3-9.
2) FESTO, cit. in G. Dumezil, “Iuppiter, Mars, Quirinus”, Einaudi, 1955, p.49.
3) DUMEZIL, “J.M.Q.” cit., pp.50-5
4) DUMEZIL, “J.M.Q.” cit., p.52.
5) VIRGILIO, “Eneide” 1, 292.
6) FESTO (voce persillum in JMQ cit. p.269). Il flamine portunale era incaricato di ungere le armi di Quirino.
7) R. DEL PONTE, “La Religione dei Romani”, Rizzoli 1992, p.133.
8) La Giunone di Lanuvio (detta anche Giunone Sospita) raffigurata con la lancia in pugno, lo scudo nella sinistra (questo somiglia ad un ancile, lo scudo dei Salii) ed una pelle di capra buttata sulle spalle.
9) LIVIO, I, 21,4.
10) DUMEZIL, “JMQ” cit., p.52.
11) Anche queste due dee sono talvolta in armi.
12) Quando l’esercito romano aumentò il numero delle sue legioni, sorse la necessità di creare fabbriche di armi, atte alla produzione di serie. Nel tardo periodo repubblicano vennero create delle vere e proprie cittadine nelle quali si fondeva il ferro e lo si forgiava per la fornitura di armi all’esercito.
13) A. BRELICH, “Giove e Fides miliaria dello Ste” (1940 in “Arthos”, n.30, pp.236-237.