Benessere dello spirito e del corpo, la grande funzione sociale delle terme

The_Baths_at_CaracallaLa cura per la forma fisica e l’attenzione al benessere, nell’uso comune nota col forestierismo fitness, non è un’invenzione moderna.

Era una delle attività più praticate e amate dai Romani, i quali nel tempo libero affollavano le terme per curare il proprio corpo in acqua con bagni caldi e freddi, per sottoporsi a benefici trattamenti, per praticare sport, per rilassarsi e infine per socializzare.

Oggi le chiamiamo SPA, senza neppure riflettere sul significato dell’acronimo, ossia salus per acquam, la salute attraverso l’acqua.

Benché le acque siano state utilizzate a scopo terapeutico anche in Grecia e nell’Oriente ellenizzato, solo a Roma, questo utilizzo divenne pratica comune e raggiunse la più ampia diffusione.

A tal proposito il poeta Giovenale che ci ricorda che l’uomo dovrebbe rivolgere agli Dei due sole richieste: la salute del corpo e dello spirito; nelle sue Satire (X, 356) scriveva: Orandum est ut sit mens sana in corpore sano, bisogna pregare (gli Dei) affinché ci sia una mente sana in un corpo sano.

Il merito di aver codificato a Roma il bagno termale elevandolo al rango di cura spetta all’abilissimo medico Asclepiade di Bitinia, vissuto a Roma un secolo prima dell’inizio dell’era comune. Asclepiade, già allievo scuola filosofica degli Epicurei e amico di Cicerone, divenne famosissimo diffondendo la cultura dell’igiene e prescivendo diete, ginnastica, terme, massaggi, moderazione nei cibi e nelle bevande come mezzi essenziali per mantenere la salute.
Sull’importanza delle terme anche a fini terapeutici, Cicerone ci ha tramandato l’espressione Quamdiu ad aquas fuit, numquam est mortuus (De Orat. II, 67, 274), finché si recò alle acque, è rimasto in vita.

Plinio il Vecchio inoltre afferma che la medicina del suo tempo fece ricorso alle acque come a una sorta di rifugio: medicina… quae nunc aquarum pertugio utitur, poiché nessun elemento naturale era più miracoloso dell’acqua stessa in nulla parte naturae maiora essere miracula (Nat. Hist. XXXI, 1, 2 6).

Nessun altro popolo nella storia può vantare una diffusione così capillare di stabilimenti termali pubblici e privati aperti a tutti tutto l’anno come i Romani. Ciò dimostra come l’idroterapia avesse assunto una funzione non solo terapeutica, ma anche sociale. Le terme erano infatti frequentate dal ricco patrizio, che aveva al seguito un lungo stuolo di schiavi, e dal povero plebeo che poteva permettersi il pagamento di un “biglietto d’ingresso” di un quadrante, pari più o meno al prezzo di una focaccia con un bicchiere di vino.

Robert Harris, autore di “Pompei”, scrive: “Le terme non erano un lusso, erano le fondamenta della civiltà, erano ciò che elevava il cittadino più umile di Roma al di sopra del barbaro più ricco e rozzo. Le terme educavano alla disciplina dell’igiene, della cura di sé e della rigorosa abitudine … Non era forse per alimentare anzitutto le terme che erano stati inventati gli acquedotti?” (e solo a Roma ce ne erano 11, contro i cinque di oggi).
Le terme (thermae) nella civiltà romana assumono poi un aspetto monumentale e simbolico: sono l’emblema del benessere della società romana. Non a caso, infatti, ogni città che si rispettasse possedeva un complesso termale pubblico all’ingresso del centro urbano, un chiaro biglietto da visita per i viaggiatori per comprendere subito la qualità e misurare il prestigio del municipio che si visitava.

Le terme romane di Chieti
Le terme romane di Chieti

In questi grandi “centri benessere” dell’antichità si poteva entrare al mattino e restare fino al tramonto, senza annoiarsi. Uomini e donne li frequentavano in spazi e orari separati e facevano il bagno completamente nudi. Presso le terme era disponibile ogni attrezzatura adatta al benessere fisico e mentale. Al centro dell’edificio solitamente c’era il salone dei bagni freddi frigidarium, mentre da un lato vi era l’ambiente circolare dei bagni caldi (ma mai bollenti) calidarium, Dal lato opposto c’era la natatio, cioè una piscina fredda solitamente scoperta per nuotare. Fra il frigidarium e il calidarium v’erano gli ambienti del tepidarium cioè delle vasche con acqua tiepida per permettere un passaggio più graduale dal freddo al caldo. Accessibile dal calidarium era il lacònicum, sala dove si praticavano saune disintossicanti. C’erano inoltre spogliatoi, sale per massaggi, palestre, bagni pubblici.
Le attività ginniche si svolgevano in grandi atrii, spesso all’aperto, circondati da porticati. Vi si giocava a palla e col cerchio, si praticava la lotta, il pugilato e la scherma. Dopo l’allenamento, ancora sufficientemente sudati, anche gli atleti, come i comuni cittadini, andavano a fare il percorso “benessere” dei bagni caldi e freddi. Dall’apodyterium (spogliatoio), si accedeva alle sale termali. Si iniziava col “calidarium“, per far assorbire dal corpo l’umidità dei vapori, per poi trasferirsi nel tepidarium, e infine si arrivava al frigidarium, per rinvigorire con l’acqua fredda sia il corpo che la mente. Attraverso questo sistema graduale, il fisico aveva la possibilità di adattarsi alla nuova temperatura senza subire sbalzi troppo bruschi e quindi pericolosi; i salutisti più esigenti, a fine sessione, non disdegnavano una seduta di massaggi fatti da mani esperte con l’ausilio di oli e unguenti profumati.
Le terme romane erano anche straordinarie opere di ingegneria, dotate di un impianto ipocausto, un raffinatissimo sistema di riscaldamento sotterraneo.  Speciali caldaie e lastre metalliche inserite sul fondo delle vasche,  file di particolari mattoni forati (tubuli),  e tegulae mammate nel pavimento e nelle pareti, favorivano il riscaldamento. I pavimenti e  il sottofondo delle vasche erano sospesi su pilae di mattoni che creavano degli spazi attraverso cui passava l’aria calda proveniente dai forni (praefurnium), o in alcuni casi, da vapore captato da sorgenti naturali, come nel caso di Baia (Baiae), cittadina e lussuoso centro termale nel golfo di Pozzuoli, meta di villeggiatura degli imperatori e dei nobili romani, sprofondata sotto l’acqua  a causa del fenomeno del bradisismo dei Campi Flegrei. Infine, gli ambienti riscaldati avevano finestre più esposte al sole per ricevere i raggi fino al tramonto. Le vasche e le sale erano decorate da mosaici e da dipinti, solitamente rappresentanti le divinità marine e quelle legate alla salute.
L’edificio era immerso nel verde di giardinetti, dove i cittadini passeggiavano e chiacchieravano, discutendo anche di cultura e di affari, fra vialetti, fontanelle dove dissetarsi, fontane monumentali, statue degli Dei e di personalità pubbliche. Nelle strutture termali più grandi e dotate di servizi, vi erano anche biblioteche, sale per convegni, spettacoli musicali, teatrali o recite di poesie e finanche sale per feste e celebrazioni.
Come per ogni aspetto dell’esistenza, cosa, anche per le terme i Romani avevano delle divinità protettrici, a cui i centri erano spesso dedicati i  e a cui si rivolgevano invocazioni.

La più ricorrente che veniva raffigurata nei mosaici che abbellivano i complessi termali, è ovviamente Nettuno, Dio del mare e, inizialmente, divinità delle acque sotterraneee (vedi nella foto il Nettuno realizzato nel frigidarium delle terme di Histonium, rinvenuto nel 1997 l’attuale Vasto in provincia di Chieti. Poi Salacia, Dea dell’acqua salata, Fons, dei pozzi e delle sorgenti d’acqua pura; Giuturna (madre di Fons), delle fontane e sorgenti, Tiberinus, del fiume Tevere, Volturno (padre di Giuturna), dei fiumi in generale e infine le ninfe, divinità degli specchi d’acqua.
Inoltre, considerata l’associazione acqua/salute, le dedicazioni investivano divinità come Apollo, Dio del Sole, che tra i tanti attributi aveva le arti mediche, suo figlio Esculapio (in Grecia Asclepio), Dio della medicina, le sue figlie Salus (Igea in Grecia), dea della Salute e Panacea che curava tutte le malattie, senza dimenticare Minerva, Dea della scienza e quindi anche della medicina.
Alle divinità prettamente romane, vanno poi aggiunte le divinità locali, che i nostri antenati associavano sincretisticamente alle proprie.

Mosaico con il Dio Nettuno nelle terme di Bath
Mosaico romano con il Dio Nettuno 

Evidenze sono presenti un po’ ovunque nelle province dell’impero. Ricordiamo qui alcuni casi noti di centri termali romani di Britanna (Inghilterra), d’Italia e delle Gallie (Francia).
Nell’attuale Bath (la città romana di Aquae Sulis), adiacente alle terme costruite da Vespasiano, c’è il tempio dedicato a Sulis Minerva, cioè alla divinità celtica Sulis a cui è stata associata Minerva. In virtù del sincretismo con la dea romana Minerva, i mitografi hanno teorizzato che Sulis fosse anche una Dèa della saggezza e delle decisioni (Vedi Barry Cunliffe ed. Roman Bath, Oxford University Press, 1969, Vedi sito ufficiale del museo del sito archeologico delle Terme di Bath). Sulis, secondo l’interpretazione classica era una divinità solare, una sorta di “Gran Madre” dispensatrice di vita, come dimostrano le tavolette votive ritrovate. Sulis viene identificata spesso con le Suleviae, citate nelle epigrafi dei siti di Bath, gruppo di divinità celtiche le cui iscrizioni votive sono state ritrovate anche a Roma (1). Sul frontone del tempio adiacente alle Terme di Bath, c’è invece una testa di Nettuno (o di Oceano), raffigurato con serpenti e ali intrecciate nella barba, come una non ben identificata divinità celtica, forse solare (2).

In Italia, nei pressi di Albano Terme (Padova) in località Montegrotto, sul colle Monteortone, è stato ritrovato un tempio del primo secolo dell’era comune dedicato a Fons Aponi, cioè ad Aponus, antico Dio veneto delle acque termali (identificato anche con Apollo) a cui si associava il romano sorgenti Fons che dava così il nome all’antico centro termale (3). Si ipotizza che sia dedicato anche a Maia, il complesso termale dell’antica capitale dei Marrucini Teate Marrucinorum (l’attuale Chieti), considerata la sua esposizione alla Maiella, il massiccio montuoso che secondo leggenda avrebbe assunto le fattezze attuali allorché Giove, il padre degli Dei, impietositosi dalla morte di Maia e di suo figlio Ermes, li rese immortali, dando al Gran Sasso e alla Maiella le loro fattezze; così il Gran Sasso divenne il gigante addormentato Ermes e la Maiella, la madre Maia che piange disperata riversa su di sé il figlio morente (4).

Nelle Gallie, dopo la conquista romana, Apollo, è stato sincretisticamente associato a diverse divinità consimili, solitamente legate alle sorgenti termali e ai loro poteri curativi oggetto di venerazione presso diverse tribù galliche. Abbiamo numerosi rinvenimenti epigrafici che ci riferiscono di epiteti riferiti ad Apollo, spesso affiancati a quelli di una dea consorte con la quale formava una coppia divina. Tra gli epiteti più ricorrenti di ricordiamo Belenos (luminoso), Grannos (solare) e Bormo (ribollente). A Grannos si rivolse ammalato, nel 215, l’imperatore Caracalla (5).  Le dediche sono state ritrovate incise in tavolette o su oggetti votivi raffiguranti parti del corpo malate che i pellegrini donavano a questi Apollo, sperando in una rapida guarigione. Ad esempio, l’Apollo Vindonnus (bianco) dei Lingoni, era specializzato nella cura degli occhi. Nei santuari annessi ai centri termali oltre ai sacerdoti consacrati al Dio, v’erano abili medici e dormitori in cui i pellegrini potevano riposare, sperando di essere guariti dal Dio in sogno.

Cristiano Vignali

 

  1. John T. Koch, Celtic Culture: A Historical Encyclopedie, Santa Barbara, California, ABC-CLIO, 2005, p. 1636, ISBN 1-85109-440-7 e Barry W. Cunilife, Roman Bath discovered, Londra Routledge, 1984, pag. 188 – ISBN O-7102-0196-6.
  2. “New addition to Gorgon’s head” su Bath and North East Somerset Council e “The Roman Baths” su Time Travel Britain.
  3. Carla Marcato, alla voce Abano Terme in dizionario di toponomastica, Torino, Utet, 1990, pag. 3, ISBN 8802072280.
  4. Cfr. “La leggenda della nascita del Gran Sasso e della Maiella: la storia di Ermes e Maia”, di Cristiano Vignali, Ilaria Catani, Abruzzo Consulting 2017 e  LUisa Gasbarri, “101 cose da fare in Abruzzo almeno una volta nella vita”,  2010.
  5. Erodiano, “Storia dell’Impero dopo Marco”, VIII, 3:8

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