L’Europa Occidentale è da anni presa d’assalto da emigranti provenienti da paesi sottosviluppati o da paesi del terzo mondo. Parlare d’una Europa quale realtà multirazziale non è quindi avveniristico, né prematuro. L’impatto degli emigranti “extracomunitari” (come vengono chiamati eufemisticamente) con la società italiana è stato reso drammatico da fattori politici ed economici presentati dai media come liberistici ed umanitari, nonché cristiani. Si vuol tacere, infatti, che talune aree politiche intendono – non appena gli extracomunitari si saranno (o saranno) integrati – usare i nuovi cittadini come forza elettorale o forza di manovra politica, mentre scaltri produttori intendono usare una forza di lavoro “in nero” allo scopo di rimpiazzare quelli tra gli Italiani che non intendono più fare certi lavori o che pretendono equa retribuzione. Le esigenza politiche ed economiche anzidette sono sostenute da una consistente campagna antirazzista e di convincimento dell’ineluttabilità della creazione d’una società “multirazziale”: l’ideologia della società “aperta” accetta come fattori inevitabili – e di secondaria importanza – i problemi nascenti relativi alla giustizia e all’ordine pubblico (dallo schiavismo, allo spaccio di droga, alla prostituzione all’associazione criminale).
Per ciò che ci concerne, sia che ci si trovi a vivere o meno in una società multirazziale, quel che interessa qui è vedere come i nostri antichi padri considerassero simili situazioni.
Una premessa dev’esser fatta: i Romani prischi erano, secondo la tradizione, ripartiti in tre tribù di diversa composizione etnica: Ramni (Latini), Luceri (Etruschi) e Tiziensi (Sabini).
Essi, quindi, sono la risultanza di tre etnie solo in maggior parte riconducibili ad una comune ascendenza indoeuropea.
I Romani, per seguire una formulazione evoliana furono soprattutto una “razza dello spirito”.
Nella Città in espansione vennero accolti – e protetti sotto il “diritto degli stranieri”- quanti vi si vollero stabilire, dove, se il caso, acquisirono anche la cittadinanza romana. Mentre ai forestieri furono imposti gli obblighi comuni agli immigrati, i Romani nei loro rapporti con i forestieri, furono tenuti alla fides nei confronti dello Stato, sicché fu loro vietata ogni associazione che imponesse una lealtà “frazionata” (come nel caso dei baccanali).
Da un punto di vista romano, gli uomini erano o i Romani, appunto, o “gli altri”. I Romani erano quelli che si approssimavano quanto più potevano all’archetipo del Romano “vero”; il vir che è homo virtute praeditus, uomo dotato di tali qualità, da differenziarlo dagli altri uomini (gli “altri”), che, per non esser dotati di virtù sono “barbari”.
Il vocabolo venne mutuato dai Greci, ma il concetto che ad esso venne legato è prettamente romano. Chi come il Romano “si è fatto” al fuoco della volontà, dell’energia creativa, della pietas che gli consente di agire all’unisono con gli dei, appartiene all’humanitas, alla civiltà, alla pienezza della condizione umana: gli altri, finché non si elevano allo stato di Romano “vero” sono barbari.
Sono barbari non necessariamente “gli altri”, ma lo sono coloro i quali per le loro qualità non sono ascrivibili fra i veri uomini, poiché mancano di equilibrio (sono servi delle passioni e dello istinto, non seguono la ragione, sono vani, smodati, amano le apparenze, il fasto, ecc.) e sono incuranti dell’ordine sociale che non si riferisca al loro ristretto ambito. Vivono alla giornata (Cic. De Or. 2, 169), mentre i disegni del Romano si proiettano nell’eternità.
Al contrario del barbaro, il Romano vero, il vir, ha non soltanto piena coscienza di se, ma ha anche quell’energia che lo conduce a proiettare nel mondo in cui vinee l’immagine della società ideale in cui è realizzata la pax deorum horninumque e quindi la pax romana.
I barbari, poi, non sono indifferenziati per il Romano. I barbari dell’Occidente non sono uguali a quelli dell’Oriente: sono migliori, dato che rifuggono dalla corruzione dalle mollezze del fasto.
I Persiani, però, non sono barbari, come non lo sono i Greci. Ed allora nei confronti dei Greci e dei Persiani come sono i Romani? Stanno al di sopra: sono semplicemente superiori.
Si possono accusare, quindi, i Romani di essere stati dei razzisti anzi lettera?
No. Non lo furono.
Quelli. che, tra i barbari acquistavano la cittadinanza romana e si immettevano nella via ardua della realizzazione – in sé – del vero Romano (il Romano archetipo), entravano in pieno diritto nell’elite romana cui spettava di governare il mondo, di perdonare i vinti e di debellare i superbi (cioè quelli che respingevano l’humanitas).
Nessuna considerazione di razza e di colore veniva opposta a colui il quale entrava nella “via romana agli dei”.
E però vi era una terra privilegiata, l’Italia, che Virgilio cantava quale magna parens frugum, Saturnia Tellus, magna virum – terra feconda di messi, terra di Saturno, terra degli eroi. Terra privilegiata in seno alla quale il dio degli dei, Giano, aveva stabilito il suo regno, entro il quale sarebbe sorta Roma.
I detrattori della Romanità – che imputano ai Romani ogni iniquità ogni qualvolta (e ciò avviene da più di un millennio) la forza dell’Urbe si manifesta più viva – dimenticando i caratteri della loro epoca, guaiscono come cani che sentono l’odore del lupo. E cosi i Romani sarebbero in assoluto crudeli, orgogliosi, devastatori, grossolani, avidi, schiavisti, ecc. e dimenticano gli atti di estrema crudeltà e di devastazione attribuibili ad ogni altro popolo del mondo sia antico, sia medievale, sia moderno; l’orgoglio ed il fanatismo degli Ebrei; lo schiavismo che fu proprio a tutto il mondo antico e non solo romano, ma che fu praticato da popoli cristiani fine alla meta del secolo scorso.
Non è facile dunque far dei Romani i razzisti dell’antichità.
Furono però antisemiti?
Durante la guerra siriaca (192-188) combattuta dai Romani contro Antioco III, gli Ebrei furono alleati dei primi contro il secondo. In quel periodo gli Ebrei lottavano accanitamente contro l’ellenismo per difendere la loro indipendenza, e, distruggendosi ferocemente tra loro, vivevano nella guerra e nelle atrocità, e pur sempre in evidenza per il loro esigente particolarismo, per il loro fanatismo (Y. A. Dauge, “Le barbare”, Bruxelles 1981,p.81).
I Romani rinvengono in quel popolo i caratteri d’una patente barbarie, tanto che Seneca (de Superstitione, cit. da Aug. De Civ. 6, 11) li definisce sceleratissima gens. “Il loro orgoglio, la loro instabilità, la loro incoercibile violenza, le spinte periodiche di fanatismo, quell’agitazione religiosa, politica e sociale che sembra capace di distruggere l’ordine costituito, tutto ciò suscita il disprezzo e l’ostilità. I conflitti continui che li oppongono sia ai Greci che agli altri goyim, sia tra loro, – soprattutto dopo l’apparir degli zeloti- non mancano di colpire gli spiriti per il loro carattere accanito e spesso atroce. Altra fonte di diffidenza: il proselitismo esercitato risolutamente sia in Italia come in Oriente: alcuni Romani si lasciano sedurre da certi aspetti superiori del giudaismo, ma sono allora considerati come pericolosi transfughi della Romanità” (Dauge, op. cit. p. 90). La stessa guerra giudaica, culminata nel 70 con la distruzione di Gerusalemme, non costituisce prova di antisemitismo: gli Ebrei viventi al di fuori della Palestina non vennero disturbati. Ne fa prendere contro di loro provvedimenti generalizzati l’esplosione di torbidi di straordinaria violenza, tra il 115 e il 117, promossa proprio dagli Ebrei in Cirenaica, Egitto e Cipro. Né ne causò la rivolta di Bar Kokheba, un “messia” che sollevò tutta la Giudea e comportò una terribile repressione. Malgrado ciò, sono gli Ebrei che chiamano l’impero romano “Il Regno dei Malvagi”! Non meravigli, quindi, se Marco Aurelio, passando attraverso la folla giudea, abbia esclamato: ‘o Marcomanni, o Quadi, o Sarmatae tandem alios vobis inquetiores inveni’ (“o Marcomanni, o Quati, o Sarmati – quanti altri più inquieti di voi ho trovato!”).
In conclusione, quella dei Romani fu una razza dello spirito, vero e proprio “popolo di signori” che, come ha creato se stesso (razza eracliana, dei figli di Giove), intende ricreare il mondo in una visione cosmica unitaria nella quale gli uomini (viri) e gli dei operino insieme in sempiterna alleanza: pax deorum hominumque.
Della pace che per l’opera loro si viene a stabilire nel mondo (pax romana) saranno custodi i Romani veri, quelli di cui Virgilio disse (Aen. 12, 838-840) “… e la stirpe ausonia che, mista per sangue, sorgerà, la vedrai superar gli uomini e gli dei in pietà”!
Claudio Rutilio
(da La Cittadella n° 28 – aprile/giugno 1991)