L’ambizione di Carlo (Magno) e dei Franchi fu quella di opporre all’unità religiosa dei territori (già facenti parte fino al V secolo e.v. dell’impero romano d’occidente) realizzata della Chiesa di Roma, una unità politica e religiosa insieme, sotto un unico scettro.
Ciò nel quadro della ripresa dell’idea imperiale di Roma da autenticare, potendolo, o con la contestazione della legittimità del potere dell’imperatrice d’Oriente lrene o … con il matrimonio con la stessa imperatrice.
Erede della politica dei re Franchi – figli prediletti dal la Chiesa da Roma – e desideroso di ammantarsi della porpora imperiale romana, priva di titolare da quasi tre secoli, Carlo si acquistò così grandi meriti presso la Chiesa sia con le imprese militari (che estesero non solo i suoi domini ma anche gli spazi di penetrazione del cattolicesimo), sia con l’influenza attribuita al clero romano nella vita dei suoi sudditi.
Nel contempo, con l’occhio volto a Costantinopoli – ove com’è noto il sovrano era anche isapostolo e capo supremo della Chiesa d’Oriente – nonché memore del fatto che almeno fino a Costantino il romano imperatore era anche Sommo Pontefice, cominciò a far circolare tra i dotti della sua corte la domanda: “Imperatore o Imperatore e Pontefice Massimo?” L’anno 799 fu quello in cui i vari Alcuino, Algilberto e Teodolfo cominciarono a far circolare poesie, epistole, panegirici in cui Carlo era detto “Onore e gloria dei popoli”, “Capo del Mondo”, “Augusto”, “Colui che regge il clero e il popolo”, “Colui che tiene in pugno ambe le chiavi … della Chiesa”…
Mandò dei messi a Roma perché compissero inchieste e sondaggi tra le persone più eminenti e a costoro se ne unirono altri che si diedero a tessere rapporti e accordi con l’alto clero e con la nobiltà. Ciò in preparazione di quel che massivamente ambiva: la sua elevazione alla porpora imperiale con il crisma della Chiesa, ma, possibilmente, non per grazia della stessa – che altrimenti non avrebbe potuto vantare alcuna supremazia. Al ritorno dei suoi homines, lui stesso sostenne davanti al clero che l’Oriente e l’Occidente mancavano dell’imperatore e che era necessario provvedere per il bene del genere umano.
Ciò, in effetti, lo pensava Carlo. E’ da chiedersi che cosa ne pensasse il papa, che era Leone III.
Lo sapremo quando getteremo un sguardo sulla famosa incoronazione.
A Paderborn (Nord Reno-Westfalia), dove si era rifugiato per mettersi sotto la protezione di Carlo, il papa si dovette sentire obbligato dalla gratitudine per non riuscire ad obbiettare alle esorbitanti richieste di Carlo. Leone III era, infatti, scampato a stento ad un’aggressione nella quale si era tentato di accecarlo. Gli aggressori ben noti a Roma, erano esponenti della rivolta popolare contro Leone il quale, per riaffermare l’autorità temporale del vescovo di Roma, si era alienato anche la nobiltà – oltre al popolo ed al basso clero. Da quel che seguirà, possiamo intuire che Leone III abbia espresso la sua adesione ai progetti di Carlo con molte riserve mentali. Meglio però un atteggiamento condiscendente che esser ricondotto Roma tra i suoi nemici, senza un difensore alle spalle.
Carlo da un lato e Leone III dall’altro prepararono accuratamente la loro discesa a Roma. Si giunse ad un compromesso: Carlo sarebbe stato elevato alla porpora, ma Leone non sarebbe stato giudicato da alcun tribunale terreno per le colpe (politiche) che gli si addebitavano. Al clero romano, d’altronde, conveniva da ogni punto di vista che Roma, sede del papato, diventasse anche sede dell’Imperatore d’Occidente. Il fondamento giuridico della restaurazione, si dovette pensare, sarebbe stato trovato senza difficoltà dai giuristi. Ed effettivamente venne trovato, ma in forma tanto equivoca che ancora se ne discute.
Finalmente a Roma insieme con Carlo, il 23 dicembre dell’ 800, papa Leone giurò sul Vangelo la sua innocenza “non costretto ma di mia spontanea volontà … affermando di non aver sommesso i delitti che mi si rimproveravano, né di aver comandato che si commettessero … E questo faccio – concluse – non perché lo imponga legge alcuna, né perché io voglia ordinarlo come usanza o come decreto di Santa Chiesa ai miei successori od ai vescovi confratelli miei, ma per darvi certezza ancor maggiore, che vi liberi di sospetto ingiusto”.
Due giorni dopo papa Leone III, in San Pietro, durante la messa di Natale, poneva sul capo di Carlo una corona d’oro mentre gli astanti gridavano “A Carlo Augusto coronato da Dio grande e pacifico Imperatore dei Romani, vita e vittoria”.
Gli annalisti contemporanei sono più o meno d’accordo sullo svolgimento della cerimonia, ma non su quel che era stato gridato dal popolo astante. Una versione dice che che si gridò: “A Carlo piissimo Augusto coronato da Dio grande e pacifico imperatore, vita e vittoria” (Vitae Pontificum, in Muratori, R. I. Scr.., X, III).
Con ciò in effetti, venne attuata la translatio ad Francos di un’autorità imperiale, che in sostanza derivava da Dio, tramite il suo Vicario in terra, il vescovo di Roma. Roma dava al novello impero il lustro di un nome legato ad un mito del quale si negavano le implicazioni.
Subito dopo la cerimonia cominciò il sottile gioco politico delle parti (Carlo, la Chiesa di Roma, l’Impero di Oriente) allo scopo di metter in rilievo la rispettiva posizione sull’avvenimento d’interesse generale.
In quanto alla cerimonia, mentre taluni annalisti avevano parlato dell’atto di adorazione dell’Imperatore da parte del Papa, il “Liber Pontificalis” tace sul punto, per niente formale, come tace sulla relazione fatta diffondere dalla Chiesa di Roma in Oriente. Anzi, nella relazione vien detto che Carlo fu appellato “Grande e Pacifico Imperatore” tout court e, infine, non si fa menzione dei personaggi “bizantini” che durante la cerimonia d’incoronazione avrebbero dichiarato la fine dell’Impero d’Oriente caduto illegittimamente nelle mani di una donna (Irene, della dinastia Isaurica) e quindi l’unicità dell’Impero era tornato nella sua sede di Roma. La «responsabilità dell’elezione» viene fatta, per giunta, risalire al “popolo” ed all’Europa tutta: il papa non avrebbe fatto altro che ungere chi Dio aveva già designato.
Dal canto suo Carlo non fu da meno nella suppressio veri et suggestio falsi: nelle cronache caroline (Chron. Moisaiac e negli Annales Lauresham, per esempio) viene affermato come Carlo fosse già Imperatore prima di esser incoronato, giacché era non solo Patrizio Romano, ma comandava su Roma che era la sede naturale dell’Impero Romano; come se il papa non avesse compiuto altro che la ratifica della volontà divina e che un’ambasceria bizantina aveva dichiarato la fine dello Impero d’Oriente e lo aveva, in tal modo, riconosciuto come Imperatore unico.
Carlo ed il papa avevano “creato” di fatto un Impero a cui avevamo attribuito l’eredità dell’Impero Romano, però era per loro impossibile ignorare l’esistenza dell’Impero d’Oriente, anche se retto da una “usurpatrice” (madre del minore Costantino VI). Da qui un doppio gioco: la Chiesa, che non vuole inimicarsi gli Orientali, in grandissima parte cristiani; Carlo, che cerca una “legittimazione” del suo Impero da parte bizantina!
Così dopo aver per ben sei anni diffamato in tutti i modi Irene, si risolve al passo più semplice e disinvolto: la chiede in moglie. Con il che affretta la rovina della già periclitante imperatrice, che viene cacciata dal trono a opera di grandi dignitari che temono (non a torto) un’annessione dell’Impero d’Oriente a quello carolingio.
A situazione nuova, tattica nuova. Al nuovo Imperatore d’Oriente, Niceforo I, con il quale si trattavano i confini comuni tra i due imperi, Carlo fece allora sapere (ma fece diffondere pubblicamente la relazione) che la notte del Natale dell’800, mentre ascoltava la messa solenne, era stato “a sua insaputa incoronato Imperatore da Leone III”, ed assicurava che se “avesse previsto ciò che purtroppo era occorso, non avrebbe posto piede in San Pietro”!
Tutto ciò gli valse ad ottenere, in seguito, il riconoscimento della qualità di Imperatore dell’Occidente, ma mai quella di Imperatore dei Romani d’Occidente, come sarà fatto rilevare dagli imperatori Michele e Teofilo a Ludovico il Pio durante il sinodo tenuto a Parigi nell’anno 826.
Non rassegnato allo smacco, ma contentandosi di riaffermare la sua indipendenza dalla Chiesa, Carlo fissò le sue titolature ufficiali come segue: “In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, Carolus serenissimus Augustus a Deo coronatus magnus pacificus Imperator Romanus gubernans imperium, qui et per misericordiam Dei, Rex Francorum et Longobardorum“.
Con l’a deo Carlo stabiliva che non il papa, ma Dio stesso l’aveva incoronato; con il Romanus lasciava tuttavia all’Imperatore d’Oriente il Romanorum, che indicava quindi l’essere il basileus il legittimo, vero, imperatore dei Romani.
A conclusione del sommario excursus “sull’imbroglio” c’è da dire che:
- per quanto i Romani si attribuissero l’autorità di eleggere l’imperatore, non vi fu alcuna elezione;
- per quanto il Papa si arrogasse il potere di conferire, non vi fu una legittimità del conferimento della consacrazione;
- per quanto Carlo potesse vantare una successione alla porpora in base al diritto di conquista, non vi fu alcuna conquista di Roma.
Quanto l’ambizione di Carlo sia costata all’Europa è ben noto, ma non minore responsabilità va attribuita alla debolezza di Leone III.
Il conflitto tra Chiesa ed Impero, iniziatosi appena dopo l’incoronazione, avrà termine solo nel 1648 (pace di Westfalia) con la fine dei contendenti quali istituzioni universali.
Salvatore C. Ruta
(da LA CITTADELLA n° 12 aprile – giugno 1987)