Oggi 10 febbraio, Giorno del Ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo istriano-giuliano-dalmata, celebriamo la ricorrenza con un omaggio in latino: la preziosa testimonianza del nostro sodale Mario Basile, esule anch’egli, resa nella lingua dei Padri.
Tessera IV – Prōgredere collēga (MMDCCXXVII aUc – MCMLXXIV ev)
Memoria similis fulguri ēst. Videor consessus in laevō sedīlī posteriore autocinētī Ōpelis Kadettis, sine balteō sēcūritātis, nondum obligātōriō, cum ab ītalicō ad iugoslavūm latus līminis in agmine raedārum experārēmus. Nesciō quid prius accīdisset. Velut pelliculae fragmentum cāsū in īmā arcā repertum, nullō modō scīre possum quid sit extrā fragmentum, quid fēcissem minutā ūnā anteriōre. Ultrā dissertāndum nōn ēst, utcumque esset, in sedīlī versābor consessus post patrem raedam gubernantem, cum sorore in meō latere dexterō post matrem.
Quāle annō hōc accideret difficile dictū, cum tamen in consciēntiā meā cogitātio logica et immaginātio mixtae essent, putō mē annōs VI nātum fuisse. Quā rē, hōc annō MMDCCXXVII (bīs mīllēsimō septingemtēsimō vīcēsimō septimō) aUc accīdisse. Attamen sī tempus illud sit, nesciam quā rē frāter autocinētō dēsit. Fortasse annō ūnō errō.
Quotiescumque ad līmen iugoslāvum adīrēmus, perturbātiō quaedam nōbīs gignebātur. Cum ad custōdiam viāriam pervēnerimus, autocinētī fenestrā dēmissā, pater commeātūs dīplōmata custōdiae iugoslāvae ostentum dedit. Militia, diplōmatibus inspectātīs, cōdicem magnum cum involūcrō cinerāceō et pāginīs eburneīs ēvolvere coepit, tardē rursum prorsum inquīrens, maximā tarditāte illā, quam regiminis potentēs ostentāre amant.
Repente ille digitō pāginam clāmore pulsat diplōmataque rursum spectat, et patris in faciē dēfixus haerens, illūdens, “prōgredere collēga” āit.
In itinere audiēbam patrem cum mātre anxius dubitantem quīn omnēs ītalicī mīlitēs ā mīlitiā sēcrētā in catalogō inscriptī investīgārentur. Rē vērā hōc metuendum erat.
Pōlam assecūtī, aviam salūtāmus. Post trīgintā minūtās, mīlitēs duō ad ostium pulsant quaerentēs quā rē raeda nōstra in statiōnē ante domum damnō affecta esset et ubi cāsus factus esset.
Reapse damnum haud longius palmō ūnō pater ante mensēs duās fēcerat apud raedae facem anteriōrem dexteram.
Mīlitēs duō patris diplōmata arripiunt, domō exeunt, nōs incrēdulōs exterritōsque relinquentēs.
Incrēdulus ego quidem sum multōs esse stercorem prō cerebrō habentēs quī adhūc in Ēlīsium commūnistārum credunt.
Diplōmatibus sequestrātis, quid faciendum?
Patri perturbātō ad Ītaliam redeundum operis causā. Tunc cum aviā Sāvum quemdam invīsamus, mīlitem gradū principālem, quem avia mea bellī tempore rēdemierat ā dēportātiōne nazistārum, sēd illa narrātio alia est.
Meminī nōs omnēs domī Sāvī fuisse, in coquīnā minimā apud tabulam consessōs. Pavīmentum album sīcut nosocomīum.
Ille paucum loquitur, numquam subrīdet, gravātim tamen it investīgātum quid accīdisset.
Sāvus diplōmata nōbīs nocte incipiente reddidit, sine ūllā explicātiōne. Fortasse perītiā atomicā mīlitiās intellexisse quod damnum in Ītaliā factum erat. Rē verā, territio fuit, arrogantia politica contra ītalicōs.
Num aliquis vestrī mihī narrāre velit fascistās quoque scelera multa ēgisse, et cētera? Excūsāte. In hāc narratiōne modo fascistam ūnum novī, imāginārium, mēmet, quem Slavī vidēbant cum ītalicī essemus, XXX (trīginta) annōs post bellum. Ergo nolite molestiam mihī afficere ratione perversā vestrā, quia in hāc narratiōne comunistae socialistaeque mālī, ego autem, fascista imāginārius, bonus.
Rē verā omnēs scimus quod socialcomunistae fascistās ubicumque fingunt et cōnsuetūdinem hanc in annīs illīs, sicut hodiē, nōn dēsiērunt. Stultitia numquam perit.
Tessera IV – Avanti collega (1974 ev, 2727 aUc)
I ricordi si manifestano all’improvviso, come una sequenza di flash. Mi vedo seduto sui sedili posteriori bianchi della Opel Kadett, lato sinistro, senza cintura, in fila dall’Italia per il confine iugoslavo. Che cosa era successo prima? Non lo so. È come lo spezzone di una pellicola miracolosamente trovato sul fondo di un vecchio scatolone dimenticato per troppo tempo: non c’è modo di sapere che cosa stessi facendo un’ora, o un minuto, o un secondo prima. Ero là in macchina e basta, davanti a me mio padre al volante, mia madre al suo fianco, e accanto a me, alla mia destra, mia sorella. Che anno era? Difficile dirlo, ma i miei sentimenti mostrano già una certa consapevolezza e pensiero logico misto a fantasia. Diciamo che avevo circa sei anni e quindi si era nel 1973. Ciò è problematico, perché allora non so dove sia mio fratello, che dovrebbe essere nato da poco. Forse mi sbaglio di un anno.
Arrivare alla parte iugoslava del confine metteva sempre una certa ansia. Quando arrivammo al casello, mio padre abbasso il finestrino, che quella volta era manuale, e presentò i passaporti. Il poliziotto cominciò a scartabellare un quadernone grande con copertina grigia e fogli ingialliti scritti a penna, come un elenco telefonico, sfogliando le pagine avanti e indietro con una flemma propria di chi detiene il potere assegnatogli dal regime. All’improvviso, sbattendo sonoramente il dito su un area di una pagina e riguardando il passaporto, bofonchiando gutturalmente in croato, guardò beffardamente mio padre e nel gesto di restituzione dei passaporti, li tenne in mano un poco più a lungo del dovuto, quasi soffermandosi disse: “avanti collega”.
Sentivo mio padre preoccupato che si chiedeva durante tutto il viaggio se tutti i militari di Trieste, o gli ufficiali come lui, o quelli che avessero parenti italiani in Istria, fossero schedati e controllati dalla polizia segreta iugoslava nell’attraversamento del confine. La cosa era abbastanza inquietante.
Arrivammo a Pola. Baci e abbracci alla nonna. Dopo mezz’ora, suona il campanello e appare la “milicia”, due militari, chiedendo di papà. La macchina di mio padre aveva un’ammaccatura di circa dieci centimetri sul lato anteriore destro, fatta due mesi prima. Comunque sia, quello che sembra il capo chiede dove avevamo fatto l’incidente. Chiedono il passaporto di mio padre e se ne vanno via lasciandoci increduli e sgomenti. Come resto incredulo io oggi a pensare che ci siano ancora stronzi in giro che credono nel paradiso socialista.
Tornando al passato, che fare? Mio padre disperato, deve tornare in Italia per il lavoro. Mia nonna dunque ci porta da tale Savo, un ufficiale della “milicia” che in realtà doveva un grande a favore a mia nonna, la quale in passato lo aveva salvato dalla deportazione dei nazisti mettendogli un cappotto sulle spalle e prendendolo sottobraccio mentre lui era in fila come prigioniero, ma quella è un’altra storia. Mi ricordo che eravamo andati tutti a casa di Savo, e sedevamo in una cucina piccola, dove entrava a malapena un tavolino, e c’era un pavimento bianco quasi da ospedale. Il tipo è di poche parole, timido, ma a malincuore, controvoglia, accetta di andare a vedere che fine avevano fatto i passaporti. Dopo un pomeriggio di apprensione, ricevemmo i passaporti in serata, senza spiegazione. Chissà se facendo una scansione atomica dei documenti avevano capito che la botta della macchina era stata fatta in Italia. In realtà era una minaccia implicita, una pura prepotenza politica ed etnica. Avete voglia a raccontarmi che anche gli Italiani o i fascisti eccetera eccetera? Mi spiace per voi, questa è la mia storia, la storia di un bambino negli anni settanta, quando la guerra era finita da un pezzo, e l’unico fascista che ho conosciuto era quello immaginario, che gli Slavi identificavano in me per essere italiano. Quindi non mi rompete i coglioni con la contrologica: in questa storia i socialcomunisti sono i cattivi ed il buono sono io, fascista inventato. D’altra parte che i socialcomunisti inventino fascisti da ogni parte non è una pratica che si è estinta negli anni settanta, ma continua tuttora. L’idiozia è dura a morire.
Mario Basile