Ogni atto religioso è tale soltanto se inserito in un contesto di spazio e tempo. Pertanto, per comprendere appieno il termine religio, occorre soffermarsi sull’attenzione scrupolosa che ha l’uomo romano per lo spazio e per il tempo.
Lo spazio, per il romano, non è genericamente il “cosmo”, l’immensità materiale; è il contesto spaziale nel quale svolgere il movimento, compiere l’azione. In latino actum non indica, infatti, solo l’atto in sé ma intende il suo spiegamento in avanti, esteso nello spazio; siamo di fronte ad un agire in vista di un risultato.
Iniziamo così a comprendere lo scrupolo con cui il romano scandisce i momenti di passaggio della sua vita: l’obiettivo è la salvaguardia dell’armonia naturale, la pax deorum, la quale è garantita dall’eufonia tra il cittadino, lo spazio e il tempo, altrimenti detto consensum civitatis.
La pietas, il sentimento morale e intellettuale con il quale esprimere il rispetto e l’obbedienza, favorisce questo consensum.
Il tempo dunque per i Romani congiunge, da un punto di vista etimologico, i sostantivi religio e pietas e i verbi augere, agere al termine fides, ossia la fiducia nell’equilibrio del mondo, che segue al caos primordiale; questa “fiducia” indirizza il romano verso la “virtù” per tutto lo spatium della sua vita.
Nell’accezione temporale spatium significa tempo vissuto. Tuttavia tra lo spazio degli uomini e lo spazio degli Dei esiste una netta frontiera, anche materialmente segnata. Basti pensare ai cippi o agli altri segni che delimitano gli spazi di proprietà private o pubbliche. La stele funeraria ricorda non solo il defunto, ma ne segna il limite della vita, il limite della realtà della esistenza.
Tempus è dunque il tempo vissuto dagli uomini, mentre Aetas è l’età intesa come periodo della vita dell’uomo ed Aevum è il tempo eterno.
Tempus è appropriazione di una porzione di tempo universale, staccata dal tutto. La grande arte consiste nel “regere fines” delimitare i confini della vita dell’uomo, senza perturbare gli Dei. Questa operazione complessa e importante non a caso a Roma è di competenza degli auguri e dei pontefici. Gli auguri, secondo una tradizione etrusca, interpretano i segni divini mentre i pontefici custodiscono il diritto sacro e sono i custodi della tradizione e gli arbitri del calendario.
Tempus è un giovane con le ali ai piedi, un ciuffo sulla fronte e capelli pressoché rasi sulla nuca. I Latini lo personificano sotto il nome di Occasio e Fedro lo rappresenta come uomo attempato, capelli fluenti sulla fronte e nuca calva, che corre tanto velocemente al punto di non poter essere raggiunto da Giove stesso. In altre raffigurazioni Tempus ha ali agli omeri, accompagnato da una ruota zodiacale, mentre grava sul piattello di una bilancia con l’indice della mano destra.
Aevum il tempo eterno, assoluto e continuo, è invece raffigurato come un giovane (come nella patera di Parabiago) o come un uomo attempato con la barba fluente, che regge la ruota zodiacale.
E quali sono per il romano le modalità di misurare il tempo vissuto?
Sono la loro fissazione in uno schema, ovvero il calendario.
Il calendario per il romano è dunque l’appropriazione del tempo e dello spazio e realizza la sintesi dei ritmi stagionali, giornalieri, nundinali, mensili e annuali, rispettando le feste religiose e politiche.
Ciò accade affinché il cittadino non solo sia integrato nel tempo, ma sia anche reintegrato quando attraversa da uno spazio-tempo all’altro: lo spazio-tempo del Fas o diritto divino e lo spazio-tempo dello Ius o diritto umano oppure quello della vita pubblica e quello della vita privata o ancora quello degli affari e quello dell’ozio.
Come gli altri popoli dell’antichità, i Romani ebbero un primo calendario: fatto risalire a Romolo il fondatore, era basato sulle fasi lunari. La parola latina mensis deriva infatti dal nome greco della luna e del mese, a designare il ciclo della lunazione. Publio Ovidio Nasone nei Fasti ricorda il momento della storia di Roma in cui l’anno era più corto “e tu Giano bifronte non aprivi la marcia dei mesi”. Questo anno era di 295 giorni, iniziava a marzo e si concludeva dicembre, ossia il decimo mese.
Numa Pompilio (715/672 a.e.c.), secondo re di Roma, modificò il calendario romuleo aggiungendo due mesi supplementari (Ianuarius e Februarius) per un totale di 355 giorni, ancora aderendo ad una visione legata alle fasi lunari (che sono di 354 giorni 8 ore e 48 minuti).
Le trasformazioni che subisce la luna fin dalla sua fase nascente durano 29/30 giorni, per cui il mese è misura del ciclo della luna che torna in una posizione di congiunzione con il sole, attraversando i segni dello Zodiaco.
Le incongruenze del calendario di Numa, che voleva tenere insieme cicli lunari, durata fissa dei mesi e alternanza delle stagioni, provocò slittamenti importanti, tanto che i pontefici furono costretti più volte ad accorciare o ad allungare gli anni. La soluzione la trovò finalmente Caio Giulio Cesare, pure lui pontefice massimo, il quale, con l’ausilio dell’astronomo greco Sosigene, riformò il calendario tenendo conto non più delle fasi lunari, ma del ciclo solare. La durata dell’anno civile fu così fissata a 365 giorni. I dieci giorni supplementari rispetto al calendario lunare furono ripartiti tra i mesi, in modo che ebbero 30 giorni aprile, giugno, settembre, ottobre e dicembre e 31 giorni gli altri (i mesi dispari erano fasti perché gli Dei amano il dispari); febbraio, in quanto mese di purificazione, rimase di 28 giorni con l’aggiunta di uno ogni quattro anni. Tutti i calendari di età repubblicana, dopo la riforma calendariale di Cesare, vennero così corretti.
I pontefici non riuscirono però ad applicare subito la regola del giorno in più ogni quattro anni e, scegliendo di aggiungerlo ogni tre, provocarono nuovi slittamenti che risolse Ottaviano Augusto stabilendo per 12 anni lo stop ai bisestili. In segno di gratitudine, il senato decretò di nominare Augustus l’ottavo mese dell’anno.
I calendari venivano calati (proclamati) pubblicamente come editti. E pertanto avevano valore di legge. Il primo affisso vicino al Foro risale al 304 a.e.c.. Si ricorda che nel 186 a.e.c. il console Fulvio Nobiliore ordinò che il tempio di Ercole e delle Muse fosse adornato con un calendario.
Il mese aveva inizio con le Calendae, dal verbo calare, usato nella formula rituale “Calo Iuno Covella” giorno in cui il popolo veniva chiamato a raccolta per ascoltare la proclamazione dei Fasti e delle Feriae e quindi i riti e le leggi da seguire nel mese affinché il mondo potesse mantenere il suo ordine.
Il quinto o settimo giorno del mese, sotto la protezione di Giunone Covella, si festeggiavano le Nonae, che davano inizio a un periodo fisso di nove giorni fino a raggiungere la metà del mese. Le Idi (Idus) cadevano il tredicesimo (o quindicesimo) giorno del mese e rappresentavano il taglio del mese alla sua metà. La luce non cessa con il giorno ma si prolunga anche nella notte e la luna è completamente splendente di luce, simbolo dello stato di illuminazione intellettuale che permette di “videre”.
Nel calendario romano la maggior parte delle feste e delle ricorrenze religiose e civili ricorreva secondo date sostanzialmente fisse, con un sistema abbastanza complesso e articolato (qui l’approfondimento in dettaglio: https://www.saturniatellus.com/kalendarium).
Abbiamo così visto che l’attenzione dell’uomo romano è soprattutto all’aspetto qualitativo del tempo: la sua giornata è scandita perfettamente dalla struttura calendariale e in questo si riconosce la scrupolosa attenzione del civis verso tutto ciò che riguarda la sua integrazione nel tempo e nello spazio. Sin dalla nascita gli astri indicano al nascituro il destino e la sorte, come ricorda Plutarco; ogni passaggio o cambio di stato (da noi definito “crescita”, in un concetto non più ciclico della vita) è scandito da una ritualità precisa e prevede chiari doveri e possibilità nuove. Persino la vecchiaia si trova ad avere un senso.
La cifra autentica del calendario romano è dunque quella di conferire alla vita una pacata armonia, priva di affanni inutili, che sia giudiziosa custode del significato profondo dell’esistenza. Armonia con il cosmo, con gli Dei, con l’uomo stesso: Fas e Ius ne sono i garanti, e pertanto sono i pilastri del calendario stesso.
Prendendo a prestito la riflessione del sociologo Baumann, non è casuale che la rottura di questa armonia, profanando il diritto sacro, abbia causato all’uomo romano la progressiva dissonanza dal ritmo della vita; e via così nei secoli sempre con minor sintonia, sino a giungere alla moderna completa liquidità temporale.
La grandezza inarrivabile di Roma risiede dunque nella coesione e nella disciplina della sua profonda espressione religiosa, capace di unificare – come in un contesto familiare – una città, una Res Publica, un impero.
Ne ebbe assoluta contezza Marco Tullio Cicerone il quale (De Natura deorum), fine giurista, scriveva: “i Romani hanno vinto l’universo perché se sotto diversi aspetti possono essere eguali od inferiori ad altri popoli, nel culto degli Dei li superano tutti di gran lunga”.
Italo Linzalone