La Gran Madre è la Dèa della fertilità della terra e dei cicli dell’eterno ritorno della vita presente in diverse culture mediterranee.
Di Grandi Madri è piena la vicenda dei popoli italici preromani dell’Appennino centrale.
Si tratta di divinità con fortissime analogie e simili caratteristiche, ma con nomi ovviamente diversi: la ritroviamo in Bona Dea e in Cerfia (tra i popoli Marrucini e i Frentani), in Feronia (tra i Vestini), in Angizia (tra i Marsi, i Peligni e i Sanniti), in Opi (dai Sabini) e in Sicinna (presso i Subequani).
A Roma, la Gran Madre verrà volta sia in Tellus, sia in Cerere (da cui cereali), ma anche nell’intera declinazione della Triade plebea – Cerere, Libero e Libera, ovvero Cerere, Bacco e Proserpina – un ciclo di manifestazioni tellurico-infere che rappresentano l’eterno alternarsi della vita e della morte.
Il grande Virgilio, nelle Georgiche, nella sua opera di ricostruzione poetico mitologica della religiosità degli antenati a partire dall’Età dell’Oro della Saturnia Tellus (cui è dedicata la testata ove scriviamo) – praticata da Augusto – sintetizzerà la suggestione della Grande Madre in Italia/Tellus.
Il rapporto con la/le Divinità della terra – anche se non prevalente sull’approccio solare della religione romana – segnò, comunque, tutta la vicenda religiosa dell’Urbe (vedi l’interessante recente saggio di Gerardo Bianco “Tellus – La sacralità della terra nell’Antica Roma”) e arrivò a lambire le concezioni sincretiche che andavano maturando del II secolo, almeno sino a quando la classe dirigente dell’ecumene romano rimase di origini senatorie e italiche. Testimonianze in tal senso le possiamo trovare rappresentate sulle monete: sul recto la corona d’alloro dei Cesari, sul verso la personificazione dell’Italia, turrita, seduta su un globo con in mano lo scettro del dominio da un lato e la cornucopia dell’abbondanza e della ricchezza dei raccolti dall’altro; la corona turrita rappresenta le città di Jus Italicum, cioé di diritto italico, quindi di cittadini romani. Il primo imperatore che adottò sistematicamente questa iconografia fu Adriano; si continuò nei coniì di Antonino Pio e di Marco Aurelio. Dunque, l’immagine di Italia/Tellus era divenuto elemento unificante e integrante per i popoli della nostra penisola che costituivano l’ossatura dell’impero.
Ma vediamo più da vicino il culto delle divinità italiche agresti in base ai reperti trovati, disegnando una sorta di mappa del culto della Gran Madre fra le genti italiche dell’Appennino abruzzese.
BONA DEA e CERFIA (Marrucini e Frentani).
La Bona Dèa é una antica divinità venerata nel centro – sud Italia sia dai Latini, sia dalle popolazioni di ceppo Osco – Sabellico.
Nella frazione di Santa Maria Arabona a Manoppello (PE), alle pendici della Maiella centro – orientale, in base al toponimo “Arabona”, (dal Latino “ara”, cioè altare di Bona) v’era un tempio o un luogo di culto di Bona Dèa (identificata a volte anche con Fauna). Nella zona oggi si erge l’Abbazia di Santa Maria Arabona.
Nella vicina Rapino (CH) v’è la Grotta del Colle un vero e proprio santuario Marrucino. Qui hanno rinvenuto una statuetta anche nota come la “Dèa di Rapino”, il cui culto e funzione può essere spiegato tramite la cosiddetta “Tabula Rapinensis”, piccola lamina di bronzo di cm.15×15 cm con incisa una legge sacra in idioma marrucino riguardante il culto di Giove e di Giovia (nome con cui veniva chiamata la Dèa Cerfia) a cui è legata la pratica del sacro meretricio.
FERONIA (Vestini).
Nell’area attigua al Parco Nazionale del Gran Sasso viveva il popolo dei Vestini, distinti in “Vestini cismontani” (versante occidentale aquilano del Gran Sasso) e “Vestini transmontani” (versante sud – orientale pescarese del Gran Sasso).
Fra queste popolazioni di stirpe osco – sabellico era molto sentito il culto di Feronia.
A Loreto Aprutino (PE), in località Poggio Ragone, in posizione panoramica sopra la vallata del fiume Tavo, a ridosso del fienile della “Masseria Giampietro”, vi sono i resti del tempio italico – romano della Déa Feronia (I secolo a.e.c.) ben preservati da una frana che lo seppellì dopo la metà del III secolo, sono stati riportati alla luce nel biennio 1992 – 1994.
Ad Amiternum, nei pressi di l’Aquila, recenti scavi hanno riportato alla luce i resti di un tempio dedicato a Feronia del I secolo a.e.c.
ANGIZIA (Marsi, Peligni e Sanniti).
Angizia era una divinità italica, il cui culto associato ai serpenti era diffuso in Italia centro – meridionale fra i Marsi, ma anche fra i Peligni e i Sanniti che la consideravano la loro Déa Madre a cui dedicavano riti propiziatori della fertilità. La circostanza che il suo culto sia legato a quello dei serpenti, si evince dalla derivazione del nome marsicano ripreso dai Latini “Angitia” da “Angius” (cioè serpente). I Sanniti invece la chiamavano Anagtia e i Peligni Anaceta.
Tracce del suo culto sono presenti a Luco dei Marsi (AQ) dove é stata ritrovata in un bosco sacro una sua statua, dove vi sono anche i resti dell’area sacra marsicana e romana di Angizia Luco (Lucus Angitiae III – I secolo a.e.c.) che dà il nome anche alla locale squadra di calcio. Per quanto riguarda le eredità dei riti propiziatori della fertilità e del culto dei serpenti in Abruzzo legati alla dea Angizia, v’è da registrare, sempre nella Marsica, la “Festa dei Serpari” a Cocullo (AQ) che si svolge dal 2012 sempre il 1 maggio (in precedenza, il primo giovedì di maggio). Il cristianesimo ha dedicato la festa di s. Domenico Abate.
SICINNA (Peligni subequani).
All’ombra dei boschi sacri del Sirente nei territori dell’attuale Parco regionale del Sirente – Velino, nella Valle Subequana, dove passa la Tiburtina – Valeria, fino all’avvento del cristianesimo è sempre stato sentito il culto della Dèa Sicinna, ninfa del corteo di Bacco/Libero, benché il senato romano lo avesse vietato nel 186 a.e.c. per la sua danza orgiastica (la Sicinnide) e quindi contrario al Mos Maiorum.
In zona v’è anche il borgo di Secinaro (AQ), le cui origini deriverebbero da questo antico culto locale. Sul suo territorio, negli alti prati del Monte Sirente, v’è un laghetto, probabilmente di origine meteoritica, che secondo una leggenda medievale si sarebbe formato con la cometa che Costantino vide prima della battaglia di Ponte Milvio contro Massenzio, la quale avrebbe concluso la sua corsa proprio in questa area selvaggia e remota dell’Appennino centrale abruzzese dando vita allo specchio d’acqua e distruggendo un altare della Sicinna. La leggenda rimane ancora nella tradizione orale della gente del posto.
OPI (Sabini).
Divinità arcaica romana di origine sabina, sposa di Saturno, legata all’abbondanza. Tracce del suo culto in Abruzzo sono evidenti nel toponimo del comune di Opi (AQ), incantevole borgo incastonato nel Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise.
Possiamo dunque affermare che il culto della Gran Madre è una cifra fondamentale delle popolazioni italiche nell’Appennino centrale, rivestendo altresì il ruolo di primordiale feconda culla di religiosità tellurica trasfusa nella successiva epopea della Romanità.
Consentiteci di chiudere con la virgiliana suggestione che la nostra Italia Perenne, la nostra civiltà, sia germinata nell’Età dell’Oro (quell’età che – per dirla col Mazzoldi – precedette il grande cataclisma italico o diluvio con eruzioni vulcaniche) dall’unione fra Saturno – Dio dell’agricoltura, dello spazio, del tempo, della rigenerazione della vita e dei cicli – con Opi, la Grande Madre, da cui deriva la fertilità della terra eterogenea nelle quattro stagioni dell’anno.
Cristiano Vignali
5 pensieri riguardo “La sacralità della terra : le Grandi Madri italiche dell’Appennino centrale”
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