Nel mondo classico l’anno iniziava a marzo per tutti gli ambiti della vita sia pubblica che privata, ma anche successivamente alla riforma del calendario operata da Giulio Cesare nell’anno 45 a.C., in seguito alla quale l’inizio dell’anno politico e giudiziario fu fatto coincidere con l’inizio dell’anno solare, a gennaio, nel sistema religioso marzo continuò a segnare l’inizio dell’anno.
Questo dato è di fondamentale importanza per comprendere il significato più profondo della cerimonia degli Argei.
Il 16 e 17 marzo una processione formata dalle Vestali, dalla Flaminica Dialis (la moglie del Flamen Dialis, uno dei massimi sacerdoti romani) vestita a lutto e senza la tipica pettinatura nuziale normalmente portata dalla sacerdotessa, dal Pontifex maximus e dai Pretori si recava presso i 27 piccoli altari, chiamati Sacella Argeorum, dislocati in vari punti della città, e prelevava i 27 Argei, simulacri antropomorfi di giunco lì collocati negli altri giorni dell’anno. Con l’accompagnamento di canti e preghiere questi fantocci venivano poi gettati nel Tevere dal ponte Sublicio. Una seconda processione veniva fatta il 14 di Maggio e le Vestali gettavano nel fiume questi simulacri umani. Per altre fonti il lancio nel fiume avveniva solo in questa seconda celebrazione.
Secondo un’interpretazione superficiale tutta la celebrazione costituiva una delle tante cerimonie primaverili miranti alla propiziazione di un abbondante raccolto ed un anno prospero. Analizzando in modo più approfondito i due eventi si perviene tuttavia ad una interpretazione ben più profonda e si coglie un significato religioso ed esoterico ben più ampio.
Per prima cosa va notato il periodo in cui si svolgono le due cerimonie: l’inizio dell’anno sacrale. Va poi notato che nella prima fase la sacerdotessa (la Flaminica) indossa abiti neri, funerari. In sostanza si celebra la morte del vecchio anno, vale a dire si sancisce la chiusura di un periodo, la fine di un tempo. Si entra in una fase di non-tempo in cui la realtà viene sospesa, ma deve essere ricreata, altrimenti essa rimarrebbe intrappolata in una dimensione di non-tempo, quindi si trasformerebbe in irrealtà. Una cerimonia dal significato similare era compiuta anche presso i Germani nella festa dello Yule, celebrata però al Solstizio d’inverno. La necessità della ri-creazione della realtà normale era talmente sentita che per chi non partecipava alle celebrazioni veniva eretta la tomba, nella convinzione che colui che si era astenuto dalle celebrazioni dello Yule sarebbe rimasto intrappolato nella dimensione del non-tempo e quindi sarebbe inevitabilmente morto.
Nella seconda fase, celebrata il 14 maggio, erano le Vestali a svolgere la parte principale del rito. Erano esse, infatti, a gettare nel Tevere i fantocci di giunchi. Ora la cerimonia non era più caratterizzata da atmosfere di lutto. Si apriva una nuova fase, un nuovo anno si avviava sotto fausti auspici derivanti dalla purificazione della città e dei suoi abitanti che avevano riversato ogni sorta di negatività su quelle immagini. Questa era in effetti la funzione degli Argei. Essi assorbivano, grazie a impetrazioni, preghiere e formule magiche, tutte le negatività che si erano accumulate nel corso dell’anno precedente sia in ambito privato che in ambito pubblico e le trascinavano via con sé quando erano gettati nel fiume. La comunità romana poteva, così, iniziare un nuovo anno partendo da una condizione di purezza.
Cerimonie e rituali dello stesso tipo erano diffusi anche in Grecia, in cui ad Atene si celebrava il rituale che meglio conosciamo. Un capro, detto capro espiatorio, veniva scacciato dalla città dopo essere stato investito di tutte le brutture, le impurità, le negatività che si fossero addensate nell’anno precedente nella città.
Sappiamo che in tempi precedenti il capro espiatorio era rappresentato da uno schiavo, poi sostituito con l’animale. Anche a Roma i sacrifici umani non mancarono, ma le fonti, sia storiche che letterarie, sono concordi nell’affermare che in tutti i (rarissimi) casi in cui si sacrificò agli dei un essere umano si trattò di stranieri o schiavi. Festo, 334, afferma che questi fantocci erano i sostituti di esseri umani che in tempi più antichi venivano a tal scopo sacrificati a Dis Pater, confermando l’ipotesi su avanzata.
Autori contemporanei avanzano altre ipotesi. Per esempio W. Fowler in Roman Festivals, 119, pensa che si tratti di una cerimonia mirante ad impetrare la pioggia in momenti di siccità. Ma la regolarità e la scansione annuale della celebrazione del rito sembra smentire tale ipotesi, per il fatto che la cerimonia sarebbe stata celebrata solo nei casi di necessità e non tutti gli anni e nello stesso periodo. Un’altra spiegazione vorrebbe la celebrazione del rito quale risarcimento agli dei delle acque per aver profanato il loro regno con la costruzione di ponti.
L’antichità è documentata anche da Varrone il quale nel De lingua latina, VII, 44 afferma che gli Argei erano principi greci giunti in Italia al seguito di Eracle e poi stabilitisi nel villaggio edificato da Saturno sul Campidoglio. Questa affermazione farebbe risalire il rito ad epoca micenea, se non minoica, e sarebbe quindi ben più antico della fondazione di Roma. Peraltro la frequentazione delle regioni dell’Italia centrale da parte di elementi minoico-micenei è ormai ben documentata da ritrovamenti archeologici, che vanno a provare quanto affermato anche da poeti quali Virgilio. Per quanto riguarda la provenienza precisa da Argo, in riferimento agli Argei, bisogna tener presente che più di una volta il termine Argeo indica genericamente il greco, a volte perfino lo straniero in generale, ma in questo caso abbiamo il riferimento ad Eracle che riporta il contesto certamente in ambito geografico greco.
Le notizie più dettagliate circa la celebrazione ed i particolari del rituale ci sono tramandati da Ovidio nei Fasti, V, 621-659, ma anche altri autori antichi ci consegnano notizie al riguardo, quali Dione di Alicarnasso, I, 38; Plutarco, Quaestiones romanae, 32 e 86.
Recentemente sono stati individuati nelle vicinanze di via Merulana, a Roma, resti di un monumento sacrale che può essere con buona probabilità identificato come uno dei quattro sacelli dedicati agli Argei che le fonti ci dicono essere situati sul Colle Oppio. Esso è formato da un altare in blocchi di tufo racchiuso da un recinto pure in blocchi tufacei. Nelle vicinanze della struttura sono stati trovati anche i resti di una bottega di vasai, con abbondanti resti di scarti ceramici. Secondo le indicazioni delle fonti sul Colle Oppio erano collocati quattro degli altari degli Argei, ed uno di questi viene definito in figlinis, cioè vicino ad una bottega di vasai. La probabilità di aver trovato uno dei sacelli degli Argei è perciò concreta. Degli altri finora non abbiamo tracce, tranne le indicazioni territoriali generiche date dalle fonti, di cui si è detto.
Sandra Mazza