L’Unione Europea è un grande progetto incompiuto, lasciato a metà, in balia delle banche e con poca attenzione ai suoi cittadini. Se non ci credete, provate a cambiare paese. Nella mia discreta esperienza di traslochi internazionali, sono stato residente in quattro paesi europei differenti e ho vissuto ogni volta gli stessi problemi: cambiare la targa dell’automobile, cambiare la banca, il numero di telefono, l’assicurazione sanitaria e sparpagliare i miei anni di lavoro in sistemi pensionistici che spesso non si parlano tra loro. Tutto ciò comunque è nulla di fronte al cambio di lingua. Certo, perché se qualcuno vi racconta che con l’inglese ve la cavate sempre e comunque, vuol dire che non ha esperienze di viaggio oltre al mero turismo. Infatti l’inglese NON è la lingua internazionale ufficiale dell’UE: se vi trasferite in Spagna, o in Francia, o in Germania, l’unica lingua in cui troverete scritte le leggi e tutti gli atti ufficiali è quella del paese ospitante – com’è giusto che sia – affiancata forse da qualche altra lingua minoritaria. Il buongiorno lo si vede quando cercate la prima casa in affitto: paginate di contratti di locazione in lingua aborigena con riferimenti a leggi e leggine di codici alieni. Dopodiché, se sopravviverete all’impatto, vi arriveranno a casa tonnellate di lettere in linguaggio burocratico locale per i contratti di acqua, luce e gas: auguri. I nostri nonni, quando emigravano, lo facevano per sempre: lo sforzo dell’apprendimento della lingua locale era giustificato e doveroso. Oggi, in Europa, la mobilità lavorativa assume una nuova dimensione che non giustifica l’apprendimento approfondito di ogni lingua alla quale si è esposti per una manciata d’anni.
Indipendentemente dalle vostre idee politiche e da come la pensiate sull’UE, quando andate a lavorare all’estero i vostri diritti sono automaticamente ridotti nella misura in cui non potete comprendere gli atti pubblici o anche le simpatiche diciture sotto i segnali stradali, specialmente quelli di pericolo. Automaticamente vi sentirete EXPAT, una simpatica e tollerata via di mezzo tra l’extracomunitario e il padrone di casa.
Se questa è la situazione per il comune cittadino europeo costretto a muoversi per lavoro, a Bruxelles c’è poco da ridere in quanto ci sono ben 24 lingue ufficialii. In nome del principio democratico che un cittadino possa essere eletto al parlamento europeo senza conoscere alcuna lingua straniera, occorre un numero sproporzionato di traduttori pari alla combinazione di ognuna delle 24 lingue con le altre 23: 24×23=552. Durante una sessione plenaria del parlamento europeo ci sono tra i 700 e 900 traduttoriii: un numero esagerato.
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Contemplando quest’immensa e poco pratica babele che si estende verticalmente dai nostri emigranti stile “Pane e Cioccolata” ai massimi livelli, è naturale chiedersi sul perché la lingua inglese non sia stata adottata come lingua europea. Il punto è che la scelta della lingua comune non è politicamente neutra. Una lingua si porta con sé un bagaglio di storia, una propria letteratura, un legame con il dominio, in quanto con poche eccezioni le lingue parlate oggi (o le loro derivate) provengono dai popoli che hanno conquistato e predominato o da popoli che hanno resistito alla conquista. Le lingue di chi si è fatto conquistare, senza riuscire a resistere, sono destinate all’oblio, seguendo una sorta di darwinismo linguistico. L’inglese si è imposto con la seconda guerra mondiale. Risulta difficile immaginare i Tedeschi accettarlo ufficialmente accanto alla loro lingua nazionale. I Francesi, che vantano secoli di rivalità con il Regno Unito, non cederebbero mai all’utilizzo della lingua inglese nei loro atti pubblici. Sicuramente nemmeno gli Spagnoli, con una questione territoriale aperta riguardo Gibilterra, lo accetterebbero. Per quanto detto, difficilmente l’inglese può essere proposto come lingua franca europea da utilizzarsi in tutti gli stati.
Tuttavia, di fronte a questo sproporzionato numero di combinazioni linguistiche che, ricordiamolo ancora una volta, ammonta a 552, si può immaginare una terza soluzione, rappresentata dall’uso di una lingua europea che non sia appannaggio di uno o di un gruppo di paesi, ma che possa sia garantire la neutralità, sia rappresentare la cultura e la storia europea. Per seguire questa strada, l’unica scappatoia dalla babele europea e dalla soluzione politicamente scorretta dell’inglese come lingua preponderante, occorre essere visionari e avere il coraggio delle grandi utopie.
Ad oggi, due candidati sembrano possibili per la lingua franca europea: l’esperanto e il latino. L’esperanto è una scelta neutra, essendo una lingua artificiale proposta nel 1887 da Zamenhof, un ebreo polacco. L’esperanto è strutturato come una lingua indoeuropea, con un lessico che in buona parte deriva dal latino e dalle lingue slave, una grammatica molto semplificata. Tuttavia questa lingua ha una storia estremamente breve e una letteratura insignificante rispetto al latino. Affidare lo spirito d’Europa a una lingua artificiale e senza vera storia andrebbe nella direzione opposta alla domanda di ricerca delle radici europee. Non dimentichiamo che una delle cause della crisi dell’UE è proprio l’identità culturale dell’Europa come continente. L’esperanto non va nella direzione di un recupero storico ma, anzi, nel verso opposto.
Il latino invece ha una storia lunghissima. Si tratta di una lingua italica nel panorama indoeuropeo, quindi imparentata e affine in primo luogo alle lingue celtiche, poi a quelle germaniche e slave, e al greco. Dal latino sono derivate 5 delle lingue ufficiali europee: italiano, spagnolo, francese, portoghese e romeno, senza contare tantissime altre lingue non ufficiali a Bruxelles ma riconosciute come tali (un esempio per tutti: il catalano). Le lingue neolatine condividono una buona parte del loro lessico con il latino, per cui il lessico latino può risultare facile a circa 205 milioni di abitanti su un totale di 508 milioni. Se consideriamo inoltre che l’inglese, pur essendo una lingua germanica, attraverso la coesistenza con il mondo latino prima e con il mondo francese poi ha assorbito circa il 60% del suo lessico dal latino, possiamo aggiungere altri 71 milioni di abitanti, per un totale di 276 milioni su 508 milioni: praticamente un cittadino europeo su due può riconoscere nel latino molte parole usate nella propria lingua madre.
La grammatica latina, con la sua declinazione, presenta una grande affinità con le lingue moderne che sono state più conservative nell’evoluzione mantenendo i casi originari dell’indoeuropeo, come le lingue germaniche e le lingue slave: genitivo, dativo, accusativo sono utilizzati tutt’ora. Quindi questi paesi, anche se non hanno una porzione significativa del loro lessico derivante dal latino, ne condividono l’origine e la grammatica. Inoltre molte parole sono imparentate con il latino sia attraverso la comune matrice indoeuropea, sia attraverso contatti nel tempo e acquisizioni di parole straniere. Per fare un esempio, la parola inglese “elevator” (ascensore) ha un’origine latina da elevare, che contiene la radice “levis” (leggero in latino). Levis a sua volta deriva dall’indoeuropeo h1lengwh iii dal quale – attraverso la derivazione germanica – trae origine l’inglese “light” (leggero). A titolo di curiosità, ritroviamo la radice latina persino in una lingua lontana come il giapponese che per indicare l’ascensore usa il derivato latino attraverso l’inglese: “erebeetaa” da “elevator”,
Oltre all’aspetto meramente linguistico, è da considerare la ricca storia europea della lingua latina, che si estende ben oltre alla caduta dell’Impero Romano, confermandosi come lingua Europea durante tutto il Medioevo e oltre. Per quanto generalmente nelle scuole ci si limiti allo studio del latino classico, la letteratura latina si estende fino al Settecento, per poi riprendere al giorno d’oggi. Per fare qualche esempio e dare un’idea della continuità temporale dell’uso del latino, ricordiamo che già Gregorio di Tours descrisse una truculenta storia dei Franchi e della loro invasione della provincia Gallia nel V secolo. Una delle prime opere della letteratura inglese fu in lingua latina, a opera di Beda il Venerabile che scrisse nell’VIII secolo la storia dell’Inghilterra dall’arrivo di Cesare nel 59 ante era volgare al 731 era volgare. Carlomagno, fondatore del Sacro Romano impero, incoronato ad Aquisgrana (moderna Aachen in Germania) fu un grande propulsore dell’istruzione in latino. Ci resta un’ottima biografia in latino a cura di Einhard, che si basò sulla struttura delle biografie di Svetonio.
A seguito delle riforme culturali di Carlomagno, il latino nel XI secolo godeva di ottima salute e continuava ad espandersi in tutta Europa, per almeno altri cinque secoli. In Inghilterra, dopo le invasioni normanne, il latino divenne la lingua scritta a tutti i livelli della popolazione. La cultura era principalmente espressa in latino, basti ricordare Giovanni di Salisbury che nel XII secolo scrisse le opere filosofiche Policratus e Metalogicus. Si consideri inoltre l’importanza della Magna Carta Libertatum, redatta appunto in latino nel 1215, pietra miliare della storia del Regno Unito. Esiste anche una Historia Regum Britanniae, a opera di Goffredo di Monmouth che rappresenta il punto originale di tutta la saga di Merlino, re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda.
Il latino rimase lingua obbligatoria per la diplomazia fino al XVII secolo e comunque la lingua dotta per la filosofia e la scienza, basti ricordare Cartesio con il suo “cogito ergo sum”, o il nostro Galileo Galilei che fece tremare la chiesa con il suo “Sidereus Nuncius” pubblicato nel 1610 o Newton con la celeberrima teoria della gravitazione universale nell’opera “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica” nel 1687, seguita da varie edizioni fino al 1726.iv
Il latino dunque non è stata solo la lingua di Roma, ma è stata a tutti gli effetti la lingua della cultura europea per quasi millesettecento anni, senza mai cadere nell’oblio, a tal punto che il suo lessico presenta un continuo aggiornamento fino alle ultime scoperte e tecnologie. Il latino infatti è ancora utilizzato e parlato da una notevole cerchia di persone. Si trova una buona fonte in Vicipaedia dove ci sono voci come “astronavis” astronave o “quarcium” quark.v Varie scuole insegnano latino come lingua viva utilizzando la pronuncia classica (senza la palatizzazione, mantenendo i suoni originari nei dittonghi ae e oe e differenziando le vocali lunghe dalle brevi). Ci sono anche opere moderne tradotte in latino come Harry Potter (Harrius Potter et Camera Secretorum, e Harrius Potter et Philosophi Lapis). In rete, oltre a vari circoli e scuole, si può trovare anche un notiziario in latino con base a Varsaviavi.
Il latino è una lingua difficile? Credo che la risposta dipenda dal metodo d’insegnamento. Applicando pedissequamente la grammatica, cominciando con uno studio mnemonico della declinazione (rosa – rosae, per intenderci), direi che lo sforzo è notevole. Si dice che gli adulti facciano più fatica dei bimbi ad apprendere una lingua. D’altra parte un bimbo, quando nasce, viene esposto alla lingua per almeno 5 anni prima di cominciare a studiarne la grammatica. Oggi si comprende che l’utilizzazione di metodi di apprendimento naturali, basati sull’esposizione a semplici dialoghi e conversazioni, seguiti da una breve spiegazione della grammatica, funzionano anche sugli adulti in maniera più efficace che uno sterile insegnamento teorico totalmente basato sulla grammatica. Con metodi d’apprendimento “moderni”, il latino può risultare facile. Ci sono varie scuole in rete e circoli che utilizzano il latino come lingua parlata.vii
Il latino è un retaggio di cui dobbiamo essere fieri. Proporre il latino come lingua ufficiale delle istituzioni europee e come lingua da affiancare a quelle nazionali negli atti pubblici potrebbe essere un’elegante soluzione per l’accozzaglia di traduzioni e per le difficoltà che il cittadino europeo incontra cambiando paese per lavoro. Inoltre sarebbe un passo verso il ritrovamento dell’identità europea. Alla luce di questi fatti, sorge l’interrogativo se sia lecito scartare a priori la possibilità dell’introduzione del latino come lingua franca europea semplicemente perché utopica: considerata la posta in gioco, varrebbe la pena affrontare un serio dibattito.
Mario Basile
i Bulgaro, ceco, croato, danese, estone, finlandese, francese, greco, inglese, irlandese, italiano, lettone, lituano, maltese, olandese, polacco, portoghese, romeno, slovacco, sloveno, spagnolo, svedese, tedesco e ungherese
ii http://www.europarl.europa.eu/news/it/faq/21/quali-lingue-sono-utilizzate-al-parlamento
iii Vedere il dizionario delle radici indoeuropee di Pokorny in https://indo-european.info/pokorny-etymological-dictionary/index.htm#ad-1.htm. Il simbolo h1 si riferisce al suono neutro della teoria delle laringali. Vedere in https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_delle_laringali
iv Un buon riassunto sulla storia del latino lo si trova nel prezioso libro: “A Natural History of Latin” di Tore Janson.
v https://la.wikipedia.org/wiki/Vicipaedia:Pagina_prima
vi http://ephemeris.alcuinus.net/
vii Per l’apprendimento si consiglia il metodo “Il latino senza sforzo” di Clément Desessart, che fu un pioniere nell’applicare metodi moderni alla lingua latina.
Un pensiero riguardo “L’Europa ha masticato il latino per 20 secoli, non l’inglese. Ripartiamo da qui”
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