“Il primo re” accende una luce su chi siamo: molto realismo, ma Roma c’è

il-primo-re-recensione-rovere-borghi-lapice-roma-romolo-remo-06Non è mai facile accontentare gli appassionati della tradizione romana, spesso divisi su tutto ma uniti nel criticare tutto. Se poi il guanto di sfida lanciato è nientemeno che la nascita del “nostro” mondo …

Ebbene, la sensazione è che stavolta non sia la solita volta: “Il primo re”, ambizioso e inconsueto colossal storico, italiano, buca lo schermo.

Il compito era effettivamente immane: dipingere un quadro di fronte al maestro Giotto (inteso come la narrazione millenaria di Roma) o, se volete, pretendere di dare un nome certo alla Gioconda.

Il risultato è un film crudo e potente: regista Matteo Rovere ha dato il meglio di sé e il prodotto appare ben costruito. Ci sono l’irruzione del divino, il senso del sacro, l’amore e l’odio, il dolore di uccidere. I colori, la violenza disperata e il sangue rompono gli schemi;  l’epica sposa la storia e la storia diviene metafora del mito.

Il film dunque stupisce, coinvolge e lascia il segno. Più di uno.

Prima di tutto è, incredibilmente, un film italiano che ci parla della nascita dell’Italia.

Inoltre prova a calare nello storico quella che da sempre, nell’immaginario collettivo, è una favoletta a tinte fumettistiche, ed era almeno mezzo secolo che non si tentava un’operazione del genere.

Poi, entrando nello specifico, la pellicola rende protagonista indiscusso il rapporto dei fratelli con il sacro, rappresentando Romolo come colui che unisce in comunità di destino una congrega di vagabondi senza patria senza cadere nel politicamente corretto immigrazionista.

Ancora, fa recitare gli attori in protolatino (più latino che proto): sfida originale e difficile senza doppiaggio.

Infine, ci regala ambientazioni naturali molto suggestive, tutte italiane, coerenze inattese (come ad esempio, il passaggio dall’inumazione all’incinerazione, ma non solo) e nelle didascalie scrive Dèi con la maiuscola.

Dunque Roma si vede bene nei suoi fondamentali.

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Innanzitutto nel rigore religioso di Romolo, che è l’architrave della vera pietas, cifra della romanità: non “un fare” senza l’essere uomo, ma “un fare” sacro che prende tutto l’uomo, a partire dalla sua essenza divina. E lo dimostra plasticamente la difesa del fuoco eterno di Vesta, che vede Romolo prima rapirne la custode, una vestale nemica e poi, riattizzarlo e consegnarlo a una seconda vestale dopo il suo inopinato quasi spegnimento da parte di un Remo, travolto dal suo delirio di onnipotenza, e infine sublimarlo nella sacralizzazione dello spazio (che Remo violerà).

Poi il concetto di Res Publica, di nascita della “politica”, che viene nel film tratteggiata da Romolo nel suo discorso finale: un’arringa in crescendo rossiniano da retore romano che esalta la (minuscola) folla di suoi prodi/disperati con piglio paterno e animo da condottiero.

Ancora, il furor del guerriero, che attraversa tutto il film, mitigato però dall’interesse comune e dalla disciplina: furor e disciplina, come noto, sono i pilastri della legione romana, modello militare vincente ancora insuperato.

Poi la contesa tra fratelli: nella loro lotta, ma anche nel bellissimo e commovente loro amore fraterno,  c’è tutto il dramma universale che attraversa la classicità, la scelta tra destino e affetti, tra leggi divine e leggi umane, tra necessità e libertà. E il risultato è di coinvolgere lo spettatore in questa lotta senza tempo.

Infine, la punizione con la morte di Remo per la violazione del limite lascia intravedere la grande elaborazione romana sulla sacralità dei confini, divinizzati.

Il regista Rovere, nel confrontarsi con il mito potentissimo della Città eterna, è riuscito dunque a riunire tutto questo, aggiungendo anche una sua personale rivisitazione in chiave emotiva e realistica dell’epopea.

Perché dico “personale”? Perché qui, a forza di crudité, gli scappa un po’ la mano.

Innanzitutto con la tiratina evoluzionista del primitivismo dei costumi: gli spettatori notano lo stacco tra la raffinatezza e la musicalità della lingua latina parlata e la rozzezza degli abiti di chi la parla; non solo, le vesti appaiono primitive anche rispetto alla fattura delle spade (mancano i foderi), degli scudi (giustamente rotondi), delle protezioni pettorali (che sarebbero etrusche) e degli utensili, tutti più raffinati. E poi non ci sono gli elmi. Insomma, Remo e Romolo – stranamente inconsapevoli del loro lignaggio regale – agghindati come i Flintstones stonano con le tracce che abbiamo dell’ottavo secolo ante l’era comune.

Inoltre – se non condividiamo chi scrive che Remo straccia Romolo in presenza e costruzione del personaggio (Romolo c’è, eccome) – spiace l’assenza quasi totale di riferimenti all’annalistica e il mancato rispetto di fonti archeologiche e di fatti riportati dalla tradizione: senza pretendere Numitore, Amulio, Faustolo, Rea Silvia, la lupa, almeno la presa degli auspici e il rito di fondazione! Anche perché poi si va a sbandare, facendo violare a Remo non il santo confine sul Pomerio, ma un cerchio sacralizzato che ospita … un pugno di morti in battaglia.

Infine, ci sarebbe da ridire sulla prevalenza dei riferimenti etruschi e sulle divinità. La Triplice Dea invocata da Romolo in ginocchio corrisponde alle Parche, ossia Nona, Decima e Morta? Chi è il Dio maschile del fuoco? Da dove viene la strana litania per i morti? Ancora, i Romani pregavano in piedi non in ginocchio.

Le incongruenze con le fonti che abbiamo sul Latium vetus sono tante. Però ci fermiamo qui, senza infierire oltre.

I segni “più” nel film superano i difetti.

Andate a vederlo, se potete. E aspettate il trionfo sui titoli di coda.

Paolo Casolari