Le Metamorfosi di Ovidio. I, 76-112: Compare il genere umano, l’età dell’oro
I, 76-88 “Dē genere hūmānō”
- Sanctius hīs animal mentisque capācius altae
dēerat adhūc et quod domināri in cētera posset:
natus homo est, sīve hunc dīvīnō sēmine fēcit
ille opifex rērum, mundī meliōris orīgo,
- sīve recens tellus sēducta nūper ab altō
aethere cognātī retinēbat sēmina caelī;
quam satus Īapetō mixtam pluviālibus undīs
finxit in effigiem moderantum cuncta deōrum,
pronaque cum spectent animālia cētera terram,
- ōs hominī sublīme dedit caelumque vidēre
iussit et ērectōs ad sīdera tollere vultūs.
Sīc modo quae fuerat rudis et sine imāgine, tellus
induit ignōtās hominum conversa figūrās.
I, 89-112 “Dē aetāte aureā”
Aurea prīma sata est aetās, quae vindice nullō,
- sponte suā, sine lēge fidem rectumque colēbat.
Poena metusque aberant nec verba minantia fixō
aere legēbāntur nec supplex turba timēbat
iudicis ōra suī, sed erant sine vindice tūtī.
Nondum caesa suīs, peregrinum ut vīseret orbem,
- montibus in liquidās pīnus descenderat undās,
nullaque mortalēs praeter sua lītora nōrant.
Nōndum praecipitēs cingēbant oppida fossae,
nōn tuba directī, non aeris cornua flexī,
nōn galeae, nōn ensis erat: sine mīlitis ūsū
- mollia sēcūrae peragēbant ōtia gentēs.
Ipsa quoque inmūnis rastrōque intacta nec ullīs
saucia vōmeribus per sē dabat omnia tellūs,
contentīque cibīs nullō cōgente creatīs
arbuteōs fētus montānaque frāga legēbānt
- cornaque et in dūrīs haerentia mōra rubētīs
et, quae dēciderant patulā Īovis arbore, glandēs.
Vēr erat aeternum, placidīque tepentibus aurīs
mulcēbant Zephyrī nātōs sine sēmine flōrēs;
mox etiam frūgēs tellūs inarāta ferēbat,
- nec renovātus ager gravidīs cānēbat aristīs:
flūmina iam lactis, iam flūmina nectaris ībant,
flāvaque dē viridī stillābant īlice mella.
Traduzione
Il genere umano
Fino a quel momento mancava un animale piú caratteristico di questi e piú abile per l’alto intelletto, che potesse dominare sugli altri: nacque l’uomo. O l’artefice dell’universo, l’origine del mondo migliore, lo fece con un seme divino, o la giovane terra, appena separata dall’alto etere, conservava il seme del cielo parente. Il figlio di Giapeto (Prometeo) modellò della terra mista con acqua piovana a immagine degli dei che governano ogni cosa. E mentre tutti gli altri animali guardano verso terra, egli diede agli uomini un viso sollevato e ordinò di guardare al cielo e di innalzare lo sguardo alle stelle stando in posizione eretta. Quindi la terra che era stata fino a poco grezza e senza immagine, così cambiata si fu popolata delle figure umane che ancora nulla sapevano.
L’Età dell’oro
Cominciò per prima l’età dell’oro, nella quale si esercitavano spontaneamente la fiducia e la giustizia senza bisogno di un garante e senza leggi. Non c’erano punizioni e paura, né si potevano leggere minacce stampate nel bronzo, né una calca di gente supplicante temeva le parole del suo giudice, ma erano tutti sicuri pur in assenza di alcuna autorità. Il legno di pino non discendeva sulle onde limpide per vedere il mondo, dopo essere stato tagliato dai suoi monti, e i mortali non conoscevano nulla oltre alle proprie coste. Ripidi fossati ancora non circondavano le città, non c’era ancora la tuba, forgiata dritta nel bronzo, né i corni ricurvi, né le galee, né le spade: senza l’uso dell’esercito, le genti vivevano una pace tranquilla e in sicurezza. Anche la stessa terra, incontaminata e non toccata dal rastrello, né vulnerata da nessun aratro, donava da sola ogni cosa e gli uomini contenti dei cibi creati senza sforzo, raccoglievano corbezzoli, fragole selvatiche, corniole, le more attaccate ai duri roveti e le ghiande, che cadevano dal grande albero di Giove. C’era un’eterna primavera e i placidi zefiri accarezzavano con tiepide brezze i fiori nati senza seme; infatti la terra, anche se non coltivata, offriva spesso frutti e il campo, anche senza riposo, si schiariva per l’abbondanza di spighe: scorrevano fiumi di latte e anche di nettare, biondo miele stillava dal leccio verde.
Commento
L’uomo, come ogni cosa nell’universo, ha una fondazione divina, in sintonia con quanto letto in precedenza dove i fiumi, i mari, le montagne e le vallate sono opera diretta della divinità.
Ovidio ci offre due spiegazioni molto diverse sull’origine dell’uomo. Nella prima ipotesi spiega l’origine umana direttamente con l’azione del dio, attraverso un “dīvīnō sēmine”, con un seme divino. Questa ipotesi appare in continuità con i versi precedenti, richiamando nel verso 79 con “mundī meliōris orīgo” la “genesi” del mondo del verso 21, dovi si cita la “melior nātūra”.
Nella seconda ipotesi invece la formazione dell’uomo appare quasi accidentale e in una posizione di discontinuità rispetto al precedente programma divino. La Terra (madre generatrice, Gaia, componente ctonia, materiale e femminile) accogliendo il seme di Urano (componente celeste e maschile) ricevuto come pioggia, viene plasmata da Prometeo, il Titano, a immagine degli Dei. È notevole il fatto che la componente maschile e quella femminile si combinino armonicamente come condizione necessaria per la nascita dell’umanità, cosa naturale nella prospettiva politeista classica, dove il panteon è popolato da divinità maschili e femminili, con le ultime non necessariamente sottomesse alle prime.
Il punto di rottura rispetto l’ordine cosmico precedentemente esposto, viene rivelato dal testo “Sīc modo quae fuerat rudis et sine imāgine, tellus induit ignōtās hominum conversa figūrās”. La descrizione della terra come rude e amorfa rammenta il caos primordiale, un qualcosa che si pensava ormai relegato al passato. Inoltre l’intervento di Prometeo conferma la componente titanica nell’essere umano, dove è risaputo che nel mondo classico i titani rappresentavano le forze primordiali dell’universo, anteriori all’azione ordinatrice degli dei olimpici. Ovidio getta così un’ombra oscura di tensione e presagio che si manifesterà nella trattazione a seguire, caratterizzata dalla “caduta”, dall’età dell’oro alle epoche infelici.
Comunque sia, il tratto distintivo dell’uomo-donna, è di essere stato plasmato “in effigiem deōrum moderantum cuncta” ad immagine degli Dei che governano ogni cosa. La caratterizzazione degli Dei come coloro che tutto governano definisce la caratteristica principale dell’essere umano appena formato, come colui che aspira a governare ogni cosa seguendo la sua natura divina, quindi non come puro recettore della potenza divina ma come potenziale attuatore. Alzare lo sguardo verso il cielo e le stelle, per interrogarsi sulle questioni divine e filosofiche è una caratteristica tutta umana, che va oltre alla pura biologia e alla propria sfera, ma esprime un’aspirazione al ritorno verso quel cielo da cui forse la terra ha ricevuto il seme, o quella forma divina che assume una connotazione trascendentale.
I primi passi degli esseri umani sono nell’ignoranza, nella non-conoscenza (ignōtās figūrās), nell’innocenza primordiale, in primitiva e fanciullesca ingenuità. La quale non è né dolorosa né oscura, anzi, dà l’inizio ad un’epoca felice, l’età dell’oro.
Tutti noi, come probabilmente anche Ovidio, sogniamo a volte, forse dopo una lunga giornata di stress lavorativo, di ritornare alla nostra infanzia, dove l’incoscienza delle difficoltà della vita, della futura perdita dei nostri affetti, dell’inconsistenza del mondo, ancora erano totalmente sconosciute e molto al di là della sicurezza assoluta del recinto di un piccolo parco giochi. Ebbene, il fascino dell’età dell’oro risiede in questa sicurezza ignorante in un contesto privo di pericoli. I mortali ancora non costruiscono navi, anzi conoscono solo le coste del villaggio dove sono nati (nullaque mortalēs praeter sua lītora nōrant), né sentono il desiderio di esplorare perché tutto ciò che serve loro è a portata di mano. Cibo in abbondanza, tempo mite, raccolti spontanei. Nel paradigma di Ovidio noi non siamo il frutto di una selezione naturale, dove abbiamo dovuto ingegnarci ed evolverci per competere con le fiere. Al contrario, secondo Ovidio i nostri progenitori erano felici di ciò che la natura offriva loro e non avevano bisogno di nulla, non erano nomadi ma sedentari e raccoglievano i frutti che la terra donava loro spontaneamente, senza bisogno di lavori agricoli, vivendo alla giornata perché non dovevano preoccuparsi del futuro. Siccome tutti avevano tutto, non c’erano guerre. Nella descrizione dell’età dell’oro si presagisce un innaturale sfruttamento della natura nell’immagine: “il legno di pino non discendeva nelle onde limpide per vedere il mondo, dopo essere stato tagliato dai suoi monti”. Il contrasto del pino tagliato dal monte per finire in mare denuncia un sovvertimento dell’ordine naturale: uno dei primi segni della civiltà è proprio il disboscamento e lo sfruttamento della natura a fini tecnologici ed economici. Un’immagine sinistra che oggi ci fa venire in mente la tragedia della deforestazione mondiale, ma che sicuramente anche ai tempi di Ovidio si poteva osservare con le grandi opere di urbanizzazione in tutto l’impero.
L’ordine naturale delle cose dell’età dell’oro è descritto come assenza delle nefandezze umane rappresentate dai fossati attorno le città, dalle armi e dalle trombe di guerra. Può meravigliare come l’assenza dell’agricoltura sia menzionata nell’età dell’oro. Tuttavia il duro lavoro dei campi, la pianificazione delle semine, il rischio di un cattivo raccolto, i confini che naturalmente sono associati ai campi stessi sono elementi che già richiedono un’umanità uscita dal recinto dell’ingenuità primitiva. Noi nell’età dell’oro non possedevamo nulla, perché vivevamo in sintonia con la natura che ci offriva ogni cosa.
Ma le cose cambiarono, precipitarono, rendendo l’apparizione del genere umano come il punto centrale del chiasmo: dal caos all’uomo e dall’uomo al caos. Vedremo dunque la spettacolare caduta nel prossimo articolo.
Mario Basile
Malacae scripsit, IX Kal. Ian. MMDCCLXXII