Da sempre il nostro mondo, e per nostro intendo quello che nel larario ha come Penati gli antenati dcell’Urbe, si arrovella sulle ragioni della fine dell’impero romano.
Il tema, tuttavia, è così importante che è divenuto uno degli snodi più dibattuti della storia. E questo è accaduto da tutti i punti di vista, tradizionali e non.
La bibliografia in argomento è sterminata. Su tutte, la tesi che va per la maggiore è quella settecentesca di Edward Gibbon, inconfutabile sul piano metastorico, secondo la quale fu il cristianesimo a erodere l’Impero Romano.
Ma la vexata quaestio torna ciclicamente a galla con anche nuove ipotesi intrecciate d’attualità, come sta accadendo con i parallelismi tra le odierne invasioni da sud di masse umane diseredate e le, allora, calate da nord di altrettante masse umane.
Basti pensare al recente saggio dello storico francese Michel De Jaeghere “Gli ultimi giorni dell’Impero Romano”, dove il direttore del Figaro Histoire fa capire che tutto cominciò col declino demografico. In sintesi, ci dice che: “i legionari, tornati a casa dopo anni di leva, non si adattavano a condizioni quasi servili e finivano, ciclicamente, con l’ingrossare la plebe urbana. Parallelamente, le virtù stoiche della pietas e della fidelitas alla Res publica venivano meno. Dilagavano sempre più l’edonismo, la contraccezione, il concubinaggio, il divorzio e l’aborto. Gente da tassare o da mandare a difendere il limes ce n’era sempre meno. Le regioni di confine divennero progressivamente lande semivuote e si pensò di arruolare i barbari che, in cambio dei benefici della civiltà, avrebbero difenso le frontiere. Ci si ritrovò così con intere legioni composte da barbari che non tardarono a chiedersi perché dovevano obbedire a generali romani e non ai loro capi naturali. Si sa come è andata a finire”.
Ora, del De Laeghere, se è certamente sostenibile, come causa della crisi, la tesi del crollo demografico e del default socio-economico dell’impero, appare opinabile e semplicistico limitare le ragioni scatenanti il crollo alla decadenza dei costumi, al celibato, alla corruzione degli spiriti e così via. Sono argomenti che hanno un po’ stancato e tradiscono un ricorrente pregiudizio antiromano (caro ai francesi e ossessione degli inglesi). Il ciclo dei dodici secoli di Roma è ricolmo di alti e bassi nei costumi, di cadute e ritorni nella religione, di abbandoni e risalite nella morale, di rallentamenti e accelerazioni, di decadenze e rinascite.
Le ragioni a fondamento dello spopolamento e di quella che tutti i libri di storia definiscono “la crisi del terzo secolo”, sono altre.
Facciamo un passo indietro.
Con l’ultima generazione di imperatori antonini, Marco Aurelio e Lucio Vero, l’impero aveva raggiunto il suo apogeo, con livelli di benessere ed equilibrio mai eguagliati, né prima né dopo.
La capitale era popolata da un milione e 200 mila abitanti (torneranno tanti solo nel 1951); il solido governo amministrativo, gestito da un articolato sistema di magistrature a matrice, da Roma si replicava speculare in tutti i municipi e le colonie; un’organizzazione religiosa stabilizzata curava la salute dello stato ed era sempre aperta a nuovi innesti coerenti; un esercito di legionari/ingegneri, al suo apice organizzativo con 360 mila uomini, gladio, groma e vanga alla mano, era impegnato a costruire il tessuto connettivo e a vigilare sulla Pax Romana ai confini del mondo; “autostrade” carrabili percorrevano in lungo e in largo tutto l’impero, con stazioni di posta a distanze cadenzate per cambio, ristoro e alloggio; il paesaggio era arricchito da una moltitudine di opere pubbliche come acquedotti, ponti, porti, anfiteatri, basiliche e terme, tutte a costellare il Mediterraneo e ad innervare la struttura della Res Publica. E Marco Aurelio apriva, a carico dello stato, quattro cattedre di filosofia ad Atene e mandava ambascerie in Cina.
Grande era la spinta dell’Urbe sotto il cielo, a immagine e somiglianza della Cittadella di Platone, e agli Dèi piaceva.
Poi, di colpo, in pochi anni, senza preavviso, con ragioni che ancor oggi ci sforziamo di assemblare, il crollo demografico, la crisi socioeconomica, lo svuotamento delle casse dello stato e delle rimesse erariali, lo sfaldamento della leva miliare, frotte di imperatori in successione che duravano lo spazio di un mattino, l’inizio dell’appalto ai barbari della difesa e, last but not least, l’esplosione di una religione introspettiva e alleviante, in arrivo dal deserto, che regalava a tutti una risposta … l’immortalità.
Cosa mai era successo?
Ancora, vi pare possibile imputare la svolta al solo rammollimento dei costumi?
Crediamo che le cause siano da ricercare altrove.
Segnatamente, il principato di Marc’Aurelio/Lucio Vero fu colpito dal più grave stravolgimento che il mondo antico abbia mai conosciuto e da cui la Romanità, almeno in Occidente, non si sarebbe più ripresa, neppure coi generosi innesti d’ossigeno d’inizio del nel quarto secolo, a principiare da Diocleziano.
La Romanità fu investita dall’uragano micidiale rappresentato dalla Peste Antonina (dal nome della casa regnante).
Si è trattato di un’epidemia ventennale(1) che provocò milioni di morti, tra cui gli stessi imperatori coevi Marco Aurelio e Lucio Vero, e che ha provocato addirittura la modifica della patocenosi nel mondo antico, cioè ha sconvolto l’equilibrio delle malattie presenti allora nella popolazione(2).
Diversi autori sostengono con dovizia di prove questa tesi, ma ciò nonostante la Peste Antonina non trova mai adeguato riscontro nei libri di storia e, soprattutto, non “buca” come causa scatenante della fine dell’impero romano
E’ forse una causa troppo banale?
Proviamo a fornire qualche elemento.
Intanto non fu peste come era la intendiamo oggi, avendo a mente il solito medioevo.
Fu una “pestilenza” (da peius, peggiore) che, ricorda il famoso medico Galeno – contemporaneo agli eventi – provocava febbre alta, pustole cutanee, lesioni al cavo orale e alla laringe, voce alterata, tosse sanguinolenta, emorragie interne, nausea, vomito, alitosi fetida, insonnia, disturbi mentali. Una malattia che portava alla morte se non si guariva entro il 12° giorno dalla manifestazione dei primi sintomi(3).
Era verosimilmente il vaiolo (o il morbillo).
Lo contrassero in Mesopotamia, nell’estate dell’anno 165, i soldati romani nella guerra vittoriosa contro i Parti, guerra che vide impegnati 250 mila uomini circa al comando del co-imperatore Lucio Vero. Il contagio avvenne in Seleucia, probabilmente con l’occupazione della capitale dei Parti, Ctesifonte(4). Il morbo proveniva dalla Cina(5), veicolato dalle scorribande degli Unni.
Altre fonti(6) narrano che la diffusione del vaiolo sia stata provocata di un atto di empietà romana nel tempio di Apollo nella vicina Babilonia (l’antica capitale caldea, anch’essa conquistata ai Parti insieme a Ctesifonte) dove i legionari avrebbero accidentalmente violato una teca d’oro chiusa dalle arti occulte dei Caldei, che avrebbe così sprigionato gli effluvi catastrofici contagiando i soldati di ritorno in patria.
Sia come sia, il vaccino non esisteva e il vaiolo si estese in poco tempo in tutto l’impero: dall’Iraq, oltre che devastare l’Egitto – il granaio di Roma, risalì la Turchia e i Balcani, entrò in Italia dall’Istria e si diffuse ovunque nella penisola, in Gallia, sul Reno e oltre. L’anno successivo, nel 166, lo stesso Galeno fuggì da Roma a causa della stragi di contagiati. Ma la strage non finiva mai: ventitré anni più tardi, nel 189, le fonti parlano ancora di 2.000 (duemila) morti al giorno solo a Roma(7). Lo stesso imperatore Marc’Aurelio emanò direttive severissime d’igiene pubblica e accollò le spese dei funerali privati allo Stato(8).
Questo devastante evento epidemico finì anche per intrecciarsi, tra il 168 al 182, con la guerra che Marco Aurelio condusse con Vero, e poi da solo, sui Marcomanni che avevano assediato Aquileia e con quella successiva che guidò il figlio adottivo Commodo su altre tribù barbare. Ad Aquileia, liberata dall’assedio nel 168, ritroviamo di nuovo Galeno(9) che ci parla di un altro scoppio dell’epidemia, grave e persistente, tra le truppe romane al seguito degli imperatori. Lucio Vero ne morirà di lì a poco, in una marcia militare di spostamento col fratello.
La guerra coi germani continuò sino a ricacciarli di là dal Danubio, ma provocò nel 180 anche la morte per contagio dello stesso Marc’Aurelio, impegnato tra Vindobona (Vienna) e Sirmium.
Il suo successore Commodo, dopo un’ulteriore impresa di guerra al di là del Danubio, abbandonò per sempre le terre a nord est del fiume, ritirando strategicamente il confine dell’impero.
Il motivo dell’arretramento fu proprio la carenza di soldati e di arruolamenti causata dalla Peste Antonina e dalla crisi socio economica. Furono questi sconvolgimenti ad attivare, rendendoli indispensabili, i barbari: iniziò così l’arruolamento sistematico di genti germaniche da “romanizzare” e da piazzare a difesa del limes come soldati e/o agricoltori. Non era mai accaduto prima in forma così capillare perché mai, prima di allora, era venuta a mancare la materia prima “romana” su cui contare.
L’annalista Girolomo scrisse(10) che nel 172 “tale era la pestilenza che colpì l’impero in lungo e in largo che l’esercito romano fu quasi estinto”. Sullo stesso tono Eutropio(11) “… l’epidemia era tale che dopo la vittoria sui Parti, una gran parte della popolazione a Roma, nell’Italia e nelle province e quasi tutti i membri dell’esercito caddero vittime del morbo”.
Declinò così il numero delle legioni di “romani”, si decimarono i contribuenti, si allungarono gli affitti agrari, si bloccarono le opere pubbliche e le manutenzioni, si ridusse l’emissione di moneta, si spopolarono i villaggi, gli oneri fiscali misero in ginocchio l’economia, si scatenarono crisi alimentari e infine anche l’arte ne risentì, sostituendo al naturalismo classico un approccio introspettivo. Per un’intera generazione s’innescò un circuito perverso che si alimentava da solo e che sconvolse la vita dei popoli che viveva sotto l’impero: un colpo dal quale il mondo romano non si è rialzato(12). Solo la capacità fuori dal comune di Marc’Aurelio e la ferrea organizzazione dell’esercito romano (o meglio, di quanto ne era rimasto in piedi) riuscì ad evitare che il catastrofico collasso fosse immediato e generalizzato.
Alcuni autori ci dicono che il vaiolo in vent’anni fece trenta milioni di morti(13). Stime sugli abitanti dell’impero, nel corso del secondo secolo, ci parlano di una popolazione complessiva non superiore ai sessanta milioni di anime(14). Se così fosse, saremmo di fronte addirittura a un dimezzamento.
Ancora. I focolai si ripresentarono dopo anni di apparente scomparsa, culminando di nuovo, nel 251, con l’altra catastrofica epidemia di vaiolo o di morbillo, la Peste di Cipriano, che arrivò a mietere cinquemila persone al giorno solo a Roma città e uccise un altro imperstore, Ostiliano (e di cui, oltre a quelle letterarie, vi sono ora le prime evidenze archeologiche scoperte da ricercatori italiani in tombe romane d’Egitto(15)).
Ora, è facile immaginarsi centinaia di migliaia di persone, nei territori colpiti dell’impero (Italia ed Egitto in primis), devastati per anni dai lutti e dalla povertà, continuamente in preda al panico e mossi dall’ansietà, affannarsi a interpellare gli oracoli, a cercare rifugio nel fervore religioso e a voler vedere un riscatto personale nel sovrannaturale.
Era, insomma, il buio Medioevo che annunciava il suo inquietante arrivo, sfondando a martellate le porte del Tempio di Giove; in cinque/sei generazioni, a ciclo romano chiuso, lo avrebbe raso a suolo.
Paolo Casolari
Note
- Lo Cascio E. (a cura di), L’impatto della peste antonina, raccolta di saggi, Bari, 2012
- Gourevitch D., The Galenic Plaghe: a Breakdown of the Imperial Pathocoenosis. Pathocoenosis and long Durée. Hist. Phil. Life Sci. 27, 2005. Il termine patocenosi, introdotto da Mirko Grmek (1969), descrive il mescolamento di malattie presenti durante un certo periodo di tempo, all’interno di una popolazione definita, vivente nell’ambito di confini geografici circoscritti. Tutto ciò costituisce un sistema strutturale caratterizzato che tende a raggiungere un equilibrio. L’introduzione repentina di un evento epidemico, specialmente se ad alta morbosità e mortalità, può avere effetti catastrofici.
- Littman R.J.- Littman M.L., Galen and the Antonine Plague. Am. J. Philol. 1973.
- Luciano di Samosata, Quomodo historia conscribenda,
- Duncan-Jones R.P., The impact of the Antonine Plague, Journal of Roman Archaelogy. 9, 1996.
- Ammiano Marcellino, Res Gestae, XIX, 4 e Scriptores historiae Augustae, Verus
- Cassio Dione, Dionis Cassii Cocceiani Historia Romana, LXXXII, 24, 3-4.
- Scriptores historiae Augustae, Vita Marci Antonini Philosophi,
- Claudii Galeni Pergameni, Scripta minora, In aedibus B.G. Teubneri MDCCCXCI, V. II, Lipsiae.
- Eusebius Werke, Die chronik des Hieronymus, D. 172 Von Rudolf Helm, Akademik Verlog 1984,Berlin.
- Helm R., Hieronymus und Eutropio. Rheinisches museum fur Philologie, 1927, 76, Frankfurt am Main.
- Niebuhr B.C., Lectures on the History of Rome, Vol. III p. 251, lecture CXXI, 1849. London.
- Malanima P., http://www.multiversoweb.it/rivista/n-08-09-crac/un-crac-nell%E2%80%99impero-la-peste-antonina-e-la-fine-del-mondo-antico-2614
- Durand D., Historical Estimates of World Population: An Evaluation, 1977.
- Tiradritti F., Missione archeologica italiana a Luxor – scavi nel complesso funerario di Harwa e Akhimenru https://www.harwa.it/dati/campagne_scavo/files/italiano.pdf,
I riferimenti bibliografici, dalla nota 2 alla 12, sono tratti dal saggio “La peste antonina e il declino dell’impero romano”, pubblicato sulla rivista Le infezioni in medicina n° 4 del 2009, autori Sergio Sabbatani e Sirio Fiorito, che qui ringraziamo