In memoria di M. Gallo: da francese definì Cesare “l’italiano” che dominò il mondo

giuliocesare-1.630x360Ci piace ricordare oggi Max Gallo, lo storico di Nizza appena scomparso, che ebbe l’ardire politicamente scorretto di sottotitolare il suo lavoro del 2004 su Caio Giulio Cesare “L’Italiano che dominò il mondo”.

Ebbene, nessun biografo “nostrano” di Cesare lo ha mai definito “italiano”: ci voleva un transalpino, pur oriundo, a rammentarcelo e a sottolinearci così il nostro atavico irrisolto complesso di inferiorità e il nostro pervicace oblio della memoria patria.

La biografia di Gallo ricostruisce la storia dell’uomo che ha creato l’Impero di Roma e che dominò il mondo per oltre quattro secoli.

Al di là dell’aneddottica che lo vede vincitore di Vercingetorige o amante di Cleopatra, brillante scrittore e abile oratore, il Cesare di Gallo emerge per la sua eccezionale abilità militare che lo condusse a conquistare l’intero bacino del Mediterraneo e la sua innovativa visione politica, che gli fece promuovere la riforma della proprietà della terra e la redistribuzione più equa delle ricchezze.

È la storia del Condottiero dalla nascita alla morte, scritta in stile poco scientifico, molto “dal di dentro” e anche esaltante. I fatti storici sono dati per scontati, perché quello che conta nel libro è l’immagine che l’autore vuole dare di Cesare, mentre tutto il resto deve già essere noto. Tutti gli altri personaggi scompaiono davanti al dictator.

Cesare è stato il profeta (da pro-fas, in aderenza al Fato) capace di vedere l’invisibile con gravitas, con la ferma consapevolezza cioè di avere la Fortuna e gli Dei dalla sua parte.

Ecco un passo significativo (e romanzato) del volume (Cap. XXIII) che traccia la nascita dell’esemplare intesa con Pompeo e Crasso e segna l’inizio della sua apoteosi terrena.

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Cesare allarga le braccia, a palme aperte. Volge lo sguardo a Pompeo, poi a Crasso, ma né l’uno e nell’altro si muove. Sembrano non aver visto il suo gesto, ignorano i due seggi uno di fronte all’altro da una parte e dall’altra del tavolo coperto da un drappo rosso su cui sono collocati piramidi di frutta e di brocche di vino fresco.

Cesare li osserva per qualche istante, sono come due bestie feroci sospinte nell’arena.

Pompeo ha il comportamento imperioso di un capo di guerra, gambe aperte, mento all’insù, braccia conserte. Un leone sicuro della sua forza. Sa di essere sostenuto da quella migliaia di veterani che hanno fatto le campagne d’Asia sotto il suo comando. Gode dell’appoggio di alcuni membri del Senato. E la plebe è sensibile alla sua gloria, plaude al suo trionfo.

Di fronte a lui Crasso sembra piccolo, quasi insignificante, eppure dalla sua grossa testa, incassata tra le larghe spalle, emana una forza inquietante. I suoi tratti esprimono l’avidità, la ferocia e il disprezzo. Non guarda Pompeo, ma Cesare lo sente pronto a balzare come un leopardo.

Cesare fa un passo avanti. Se lasciasse quei due uomini soli, si salterebbero alla gola e si potrebbe separarli solo a patto di troncare loro la testa.

Si piega leggermente in avanti, ripete il suo gesto, le braccia tese, a indicare i seggi, poi prende posto sul suo, che ha fatto collocare al centro della stanza dagli ospiti.

Dice “Voi siete le due possenti colonne di Roma”. Si volge a Pompeo. “Chi può impedire ai veterani di amarti? Eppure rifiutano a te, che con le tue legioni hai conquistato l’Asia, la possibilità di dare ai tuoi soldati le terre alle quali hanno diritto”.

Pompeo ha un’esitazione, quindi si siede, sempre a braccia conserte.

Cesare guarda Crasso che, il volto contratto, la bocca imbronciata, occupa finalmente il suo posto. “Tu Crasso, puoi comprare Roma. Senza di te, nulla si può fare in città. E tuttavia non ti si assegna il glorioso comando al quale hai diritto.”

Si alza, comincia a camminare per la stanza, andando dall’uno all’altro.

Indica le colonne del peristilio, il giardino di cui si vedono i grandi pini ad ombrello.

“Tutti e tre” prosegue “abbiamo servito bene Roma, io che sono pontifex maximus e imperator, voi che siete stati già consoli e senza i quali Roma sarebbe stata vinta, la plebe affamata, in rivolta. Ma chi si ricorda che avete schiacciato le bande di schiavi, crocifisso quegli animali selvaggi che seguivano Spartaco?” S’interrompe, si risiede. “E noi siamo costretti, tutti e tre noi che abbiamo pacificato le Province, sterminato gli schiavi e i pirati, noi che la plebe e le legioni acclamano, noi siamo costretti a riunirci qui, in questa Domus publica , fuori dal Pomerium, quasi fossimo sospetti. E’ giusto?”

Tace. Si sente il chioccolio delle fontane. Batte le mani e gli schiavi entrano nella stanza, riempiono le coppe di vino, le porgono a Crasso e Pompeo, escono.

“Se ci insultano in questo modo” riprende Cesare “e non ci accordano ciò a cui abbiamo diritto, è perché siamo disuniti e così possono prendersi gioco di noi”. Si rivolge a Pompeo. “Cicerone ti lusinga, Pompeo, va dicendo dappertutto che basta farti promesse perchè tu sia mansueto come un cane ammaestrato. Non ti sei forse sottomesso congedando il tuo esercito? Ed ecco che il Senato si rifiuta di riconoscere le Province d’Asia che tu hai conquistato”.

Pompeo abbassa la testa. Cesare adesso guarda Crasso.

“Tu ….” Ma lo vede alzarsi di scatto, mettersi a camminare per la stanza.

“Cosa proponi Caio Giulio Cesare?” esclama Crasso. “Ci inviti qui, in questa Domus Publica, noi veniamo da te, e tu ci parli di noi. Sappiamo benissimo chi siamo, quali sono le nostre forze e le nostre debolezze”.

Si avvicina. E’ brutto, il volto contratto da tic, gli occhi nascosti dai ciuffi delle sopracciglia. “Potremmo parlarti delle tue!” riprende. “La plebe ti ama, è vero. Le bande del tuo alleato, Clodio, battono il quartiere della Suburra. Tutti le temono. Tu sei imperator e pontifex maximus. Ma è tutto, ed è ben poco! Nei tuoi forzieri non hai neppure oro a sufficienza per comprare i voti che ti permetterebbero di esser console …..”

Si china su Cesare. “Ed è quello che vuoi! Io posso prestarti il denaro che ti occorrerebbe.” Ride. “Ne ho più che a sufficienza. Posso comprare tutte le magistrature di Roma. Ma tu, cosa mi offri?”

Con un gesto Cesare lo invita a risedersi. Crasso esita, quasi avesse ricevuto uno schiaffo. Torna tuttavia al suo posto.

“A te Crasso, io non offro nulla” dice.

Crasso si alza a mezzo. Cesare tende il braccio.

“Neppure a te Pompeo, io offro niente. E nulla domando né all’uno né all’altro.”

Si alza, incrocia lentamente le braccia.

“Ma a noi tre, se saremo uniti, un Triumvirato, nessuno potrà imporci la sua legge!”

Si volge a Pompeo

“Tu Pompeo, che Cicerone lusinga e insulta, disporrai delle terre da distribuire ai tuoi veterani”.

Si accosta a Crasso.

“Tu, Crasso, che hai creduto di trovare in Catone un alleato e che ogni giorno scopri che ti inganna, che ha un unico scopo, il dominio dei patres, la loro vittoria su di te, su Pompeo, su di me, che è il nemico di tutti e tre, tu, Crasso, avrai il tuo comando e potrai venire rimborsato di quanto ti sarà costata Roma.”

Apre le dita della mano sempre levata. Torna a chiuderle.

“Ma dobbiamo unirci. In tre, siamo invincibili. Noi siamo il governo di Roma.”

Indica Pompeo.

“Tu, Pompeo Magno hai la tua gloria, i tuoi soldati.”

Indica Crasso. “Tu hai la potenza del denaro, il coraggio del soldato e la crudeltà del capo”.

Cesare si siede. “Io, …” Sorride.

“Siete venuti qui, vi siete sottomessi alla legge del Senato per incontravi con me fuori dal Pomerium, e dunque voi sapete chi sono, ciò che posso.”

D’un tratto Crasso scoppia a ridere. A grandi passi si dirige al tavolo, si riempie la coppa di vino e ingolla una lunga sorsata. “Io so persino quello che tu vuoi, Cesare, vuoi essere eletto console per l’anno 59.”

“Se sarò console…” comincia Cesare.

“Sarai console!” dice Pompeo. “Io ti appoggerò. E se Crasso aggiunge la sua potenza alla mia, chi potrebbe venire eletto al tuo posto?”

Cesare abbassa la testa.

Sarà console, lo sa.

Disporrà dell’imperium.

A quarantadue anni ricoprirà la più alta carica della Repubblica.

Dirigerà gli eserciti di Roma e, allo scadere dell’incarico, sarà proconsole, alla testa di una Provincia.

E allora potrà tornare, imporsi come il solo signore di Roma. Il capo unico, l’eguale di un dio e di un re di cui ha bisogno questa città dacché è divenuta padrone del Mondo.

“Console” afferma. “Io sarò colui che vi unisce.” Chiude il pugno. “Noi saremo il governo di Roma”.

Pompeo si alza, Crasso lo imita. Si avvicinano l’uno all’altro. Cesare si unisce a loro. Tendono le braccia, e loro mani si intrecciano, si annodano.

Paolo Casolari