Verso il Misticismo Neoplatonico. Un percorso filosofico (VII parte)
La nostra vita dipende dal Fato, che ci trascina impietosamente, a volte picchiando duro sui nostri volti. Davanti alle difficoltà quotidiane ed alla prospettiva di una morte certa, la felicità è un bene prezioso, difficile da raggiungere e soprattutto da assicurare. Nella nostra società alimentiamo un grande equivoco, quello secondo cui basti “avere” per essere felici. L’ostentazione di beni materiali o della nostra posizione sociale viene confusa con una felicità che si rivela effimera come un castello di carta, quando la sorte improvvisamente ci riporta alla realtà. Allora ci rammentiamo della divinità da troppo tempo dimenticata, ma solo per lamentarci del torto subito e per rimpiangere la passata stagione di felicità.
O forse si tratta di un grande malinteso, forse dobbiamo ritornare sui nostri passi e riprogrammare il nostro pensiero e l’interpretazione di tutta la nostra vita. Forse esiste una sobria pratica di vita che ci metta al riparo dall’inesorabilità del Fato e ci avvicini alla tranquillità degli Dei, ad uno stato di armonia interiore con il cosmo e con le divinità, una via che riproponga l’ideale della Pax Deorum su scala individuale. Ebbene, questa via esiste, non solo nella saggezza orientale della scuola Zen e del buddismo in generale, ma qui, a casa nostra, nella Tradizione Romana. Essa è stata proposta da una scuola filosofica che si è fatta romana nel suo pragmatismo, trovando esponenti come Seneca, Epitteto e uno dei miglior imperatori che abbiano mai governato Roma: Marco Aurelio. Scoprire e percorrere la via della felicità è quanto si ripropone lo Stoisicmo.
Facciamo un passo indietro, in quanto fino all’articolo scorso stavamo planando nei vasti spazi dell’alta metafisica di Aristotele e Platone, quasi neglettendo la nostra quotidiana condizione terrena. Effettivamente, dopo la nascita della metafisica con Platone e la sua affermazione con Aristotele, la filosofia cambiò bruscamente rotta. Già Antistene, seguace del metodo socratico e contemporaneo di Platone, polemizzò con il salto idealista di quest’ultimo, affermando di vedere i cavalli ma non l’idea di “cavallinità” (ἵππον μεν ὁρῶ, ἱππότητα δε οὐχ ὁρῶ), ossia di non riconoscere il mondo delle forme. La filosofia dopo Platone cambiò i propri obiettivi anche in seguito al nuovo ordine mondiale instaurato da Alessandro il Grande, dove la polis greca perse significato di fronte alle vastità dei nuovi regni. Il cittadino greco, che una volta era parte attiva nella politica della polis, si trovò ad essere un granellino insignificante nel vasto mondo, perdendo così l’interesse per la politica e concentrandosi sulla propria individualità di fronte all’incertezza del futuro. La filosofia del periodo identificato come “ellenismo” rispecchia i nuovi bisogni della gente: i tre principali movimenti filosofici del tempo, ossia il cinismo, l’epicureismo e lo stoicismo, perdono l’impegno politico e civico e si concentrano sull’etica e sui comportamenti dell’individuo, abbandonando la ricerca metafisica, ritenuta sorda alle necessità immediate della gente. La seconda navigazione di Platone viene così abbandonata in favore di vari tipi di materialismo. Dalla morte di Platone, occorrerà attendere fino alla metà del primo secolo a.e.v. per scorgere un nuovo progresso nella metafisica, con la comparsa del medioplatonismo.
Se da un punto di vista strettamente metafisico potremmo saltare a piè pari i secoli dei movimenti materialisti, tuttavia è opportuno soffermarci sullo Stoicismo, sia per la capacità che ha avuto di interpretare il carattere romano dopo il suo approdo alla nostra penisola, sia per il fatto che nel suo tardo sviluppo ha dialogato con il nascente medioplatonismo, contribuendo al concetto di divinità unica, etica e tranquillità d’animo, quest’ultima ritenuta importante dallo stesso Plotino quando descrive come raggiungere lo stato contemplativo dell’Uno.
Facendo un minimo di storia, ricordiamo che il fondatore dello stoicismo fu Zenone di Cizio (336/335 – 263 a.e.v.). Egli spostò l’attenzione dalla cosmologia metafisica alla ricerca di un metodo per ottenere la pace spirituale, usando la ragione, o meglio il Logos, per superare l’impatto degli eventi del mondo sull’individuo e dominare le passioni distruttive. Egli ricusò la seconda navigazione platonica così come ogni trascendenza e considerò le idee come mere rappresentazioni mentali. Nello stoicismo, non essendoci una dimensione “psichica”, tutto risulta essere materiale, immanente, corporeo: non solo l’intero universo e i suoi astri, ma anche l’anima, senza escludere nemmeno gli Dei. La materia tuttavia non è quella del caotico atomismo, ma al contrario è una materia con ordine e finalità, impregnata di Logos, la ragione universale immanente, che dà razionalità, divinità e vita. Seguendo l’antica filosofia di Eraclito, tutto è divino per la presenza del Logos (panteismo), tutto è vivo attraverso il Logos (ilemorfismo), tutto è unificato nel Logos. La presenza di scintille di logos in noi umani ci rende privilegiati e ci dà la possibilità di comprendere l’universo e la natura di cui facciamo parte. Questa è la base dello stoicismo sin dall’antico stoà, base che in seguito permane anche nel neostoicismo romano, il quale accentua la meditazione morale, accoglie aspetti religiosi e si fa influenzare dal neoplatonismo a tal punto che Marco Aurelio accetta anche l’esistenza di un Nous cosmico, rinunciando così al puro materialismo.
Lo stoicismo, pur non concedendo spazio alla metafisica, tuttavia prova a spiegare il meccanismo della conoscenza e delle scelte etiche dell’individuo proponendo un’interessante fisica. Nell’ottica stoica, dal momento che tutto è materiale e tutto contiene logos, l’uomo può conoscere ogni cosa poiché egli compartecipa al mondo con lo stesso logos. La conoscenza è empirica, acquisita in prima istanza attraverso i sensi. L’anima, materiale anch’essa, è priva di idee innate o rappresentazioni a priori, presentandosi inizialmente come una tabula rasa. Il primo passo per la conoscenza di qualcosa è la sensazione (aisthesis), ossia l’impressione di un oggetto percepita passivamente dagli organi sensoriali. La sensazione è trasmessa all’anima, materiale, come rappresentazione (phantasia). Nell’anima si forma un’impronta materiale dell’oggetto. L’impressione, che avviene in maniera più o meno inconsapevole e automatica, non dipende da noi ma dall’oggetto esterno. A questo punto sta a noi considerare se la rappresentazione ricevuta corrisponde o meno con l’oggetto. Questo passaggio, guidato dal logos presente nell’anima e che sovente avviene in maniera involontaria, è l’attivo assenso o dissenso (synkatathesis). Con questo passaggio il logos in noi controlla l’evidenza oggettiva della rappresentazione. La parte volontaria è quella che guida l’etica dello stoicismo, pur essendo secondaria nel processo di conoscenza. Questa parte avviene nel giudizio di fronte alla rappresentazione, che può essere di assenso, dissenso o sospensione (rinvio del giudizio). Si è nel vero quando si assente all’evidenza e si dissente dalla non evidenza, si è nel falso quando si assente alla non evidenza e si dissente all’evidenza. In altre parole, per essere nel vero, occorre accettare l’oggettività e farla propria, altrimenti se ne è trascinati (Seneca diceva: uolentem fata ducunt, nolentem trahunt). Quando dunque si dà l’assenso a una rappresentazione con le caratteristiche oggettive, si ha l’apprensione (katalepsis) e l’oggetto diventa pienamente comprensibile (φαντασία καταληπτική o, secondo Cicerone, conceptus). Una rappresentazione acatalettica invece non corrisponde alla realtà.
Zenone paragona l’intero processo cognitivo con le posizioni della mano. La mano destra aperta simboleggia la rappresentazione, con le dita leggermente chiuse corrisponde all’assenso, il pugno indica la catalessi, mentre la stretta del pugno destro tenuto saldamente nella mano sinistra rappresentano la conoscenza riservata al saggio.
Se lo stoicismo originario accentuava il materialismo e non considerava la società come qualcosa di cui occuparsi, a causa del declino della politica nel mondo ellenistico, quello introdotto a Roma da Panezio di Rodi (185 a.e.v. circa – 109 a.e.v. circa), amico degli Scipioni, si adatta molto meglio alla mentalità romana cambiando non solo veste ma anche contenuti, a tal punto da essere distinto dallo stoicismo di Zenone con l’etichetta di “mediostoicismo”. Il cambio forse più ragguardevole è l’atteggiamento verso la società. Come già detto, la crisi dei valori della polis aveva portato gli individui a disinteressarsi della politica e a ricercare la felicità concentrandosi sui propri diretti bisogni. Panezio invece, trovandosi in una Roma vittoriosa con una società in pieno sviluppo, recupera il senso della politica, rifiutando la possibilità di raggiungere la felicità attraverso l’apatia promossa dai maestri antichi.
L’accettazione della politica nell’orizzonte del saggio stoico fu accompagnata da uno sviluppo del concetto di “azione”. Ai tempi di Zenone si era introdotta una visione dicotomica del bene e del male. Secondo la dottrina originaria, essendo la natura impregnata di logos, vivere secondo natura coincide con vivere secondo la virtù e con la felicità stessa. Lo stoico, la cui etica è guidata dalla virtù, si rende autosufficiente e guadagna la felicità, perché la virtù influenza tutti gli atteggiamenti morali, non solo nella sfera razionale ma persino nel subconscio. Tuttavia solo ed esclusivamente un’azione nella direzione della virtù è efficace. Questo tipo di azione è chiamata katòrthoma “azione perfetta” (κατόρθωμα, purale katorthómata) e dev’essere guidata esclusivamente dalla ragione, anche a costo di superare la comune morale. Un azione invece contro la virtù è definita vizio. Tutte le altre azioni sono irrilevanti. È da notare che per tutto lo stoicismo la bontà dell’azione virtuosa non si basa sul suo esito, che spesso non dipende da noi, ma sull’intento di chi compie l’azione. Come conseguenza, nessuno stolto può compiere azioni rette. Comunque sia, lo stoicismo purista delle origini non considerava azioni al di fuori dei katorthómata, ma il suo rigore lo rendeva poco praticabile e lo portava a paradossi difficili da accettare.
In seguito, pur accettando le linee dello stoicismo originario, si considerarono anche azioni non virtuose in senso assoluto ma vantaggiose per tutti. Queste erano definite kathékon (καθῆκον, al plurale kathékonta). Oltre alle azioni morali (virtuose o viziose) le azioni possono avere valore relativo o disvalore relativo se legate al corpo. Ci sono quindi azioni convenienti o doveri e il loro opposto, azioni sconvenienti e anche azioni indifferenti. In questa maniera lo stoicismo si occupava anche di azioni comuni.
Panezio introduce a Roma questo sviluppo perché non limita la sua attenzione alle azioni perfette, ma considera anche le azioni intermedie, le kathekonta, accentuando l’interesse per i doveri. Egli divide la virtù in due tipologie: quelle teoretiche e quelle pratiche. La virtù teoretica è legata al sapere, o alla sophia, che coincide con la conoscenza del logos. Le virtù pratiche invece sono la grandezza d’animo, intesa come capacità di rimanere nei propri propositi; la temperanza, ossia la capacità di moderare con la razionalità le proprie passioni; la giustizia, come desiderio di conservare l’armonia con la comunità e lo Stato. Quest’ultima rappresenta la novità romana rispetto alla filosofia dell’ellenismo, e un parziale recupero dei temi morali della polis. Il senso di armonia non si limita più a ciò che è strettamente naturale ma anche al rapporto giusto con lo Stato e le sue leggi. Appare quindi tra i valori anche lo stesso senso del dovere, molto importante nella tradizione romana. La via della felicità dunque passa anche per l’adempimento dei compiti del cittadino.
Nello stoicismo dei primi secoli dell’era volgare comparvero elementi neoplatonici. Il filosofo stoico Musonio parla dell’uomo a immagine di Dio e spiega che fare filosofia significa seguire Giove, anticipando il neoplatonismo che avrebbe cercato l’assimilazione al divino attraverso imitazione della divinità. Non basterebbero cento pagine per descrivere superficialmente la ricchezza di Seneca, Musonio, Epitteto, Marco Aurelio ed altri autori. La filosofia abbandona una volta per tutte l’astrazione e diventa la medicina dell’anima. Secondo Seneca le problematiche astratte della filosofia non ci aiutano a divenire virtuosi ma solo eruditi, mentre la saggezza può solo essere un percorso di semplicità. La felicità, per quanto difficile da raggiungere, può essere conseguita vivendo secondo natura, in armonia interiore e con il mondo. L’uomo felice è padrone e artefice della propria vita, poiché non si lascia perturbare dagli eventi esterni, ma si basa su se stesso e sulle proprie capacità, pronto ad accettare tutte le conseguenze delle proprie azioni. La felicità quindi non è il frutto della virtù ma coincide addirittura con la virtù stessa. Scrive Seneca: Il bene dell’uomo non è nell’uomo se non quando la ragione è perfetta. Ma qual è questo bene? Te lo dirò: un’anima libera, nobile, che sottomette le altre cose a sé, senza lasciarsi sottomettere da nessuna.
L’ultimo dei filosofi stoici del mondo romano di cui abbiamo traccia fu Marco Aurelio (Roma, 26 aprile 121 e.v. – Sirmio, 17 marzo 180), uno dei più grandi imperatori di Roma, il quale praticò uno stoicismo adogmatico ed eclettico, accogliendo concetti dal medioplatonismo, dall’epicureismo e anche dallo scetticismo, seguendo una filosofia morale con elevati richiami religiosi. Uno dei punti spesso richiamati dall’imperatore fu la caducità delle cose. Tutto il mondo con la sua continua trasformazione è una nullità davanti al sapiente, che impara per mezzo della filosofia a dare un senso alle cose e a scartare come filosoficamente irrilevanti i ruoli che ci troviamo a vivere. Ognuno ha il suo compito, chi nasce schiavo, chi nasce potente. Ma il saggio sa distinguere tra vacuità del ruolo che sta vivendo e il significato etico di portare avanti il proprio ruolo con stoica responsabilità. Il senso della vita proviene dall’Uno-Tutto (ripreso un secolo più tardi da Plotino), sorgente che riscatta le singole esistenze dalla nullità. Sul piano etico ed antropologico è il dovere morale che dà senso al vivere. Come si vede, con Marco, il materialismo stoico perde il dogmatismo degli inizi in favore di un’etica quotidiana, mantenendo comunque parte della fisica originaria. Diceva il nostro imperatore: Se ti addolori per qualche oggetto esterno, non è questo a crearti afflizione, ma il tuo modo di giudicarlo. Parole che da una parte richiamano la katalepsi e dall’altra mantengono oggi la stessa potenza psicologica di quando furono scritte. L’imperatore di Roma, considerando la propria posizione di potere come accessoria al senso della vita, ancora oggi ci parla non come un sovrano orientale irraggiungibile sul suo trono dorato, ma come un pater familias che siede alla mensa con i suoi familiari. Non come un vestito indossato, ma come un essere umano. Un vero essere umano. La lezione dello stoicismo è da tenere a mente.
Mario Basile
Bibliografia essenziale:
“Meditazioni” di Marco Aurelio – “Manuale” di Epitteto – “La condizione umana” di Seneca