In largo Argentina, a Roma, sotto un pino marittimo al confine dell’area templare sacra prospiciente il teatro omonimo dove duemila anni fa si trovava la curia di Pompeo (sede provvisoria del senato, distrutto da un incendio) il 15 marzo del 709 a.U.c (44 Era comune) si consumò la fine di Caio Giulio Cesare.
Il dictator si presentò in Senato nonostante i presagi avversi e i tentativi di dissuaderlo di uno schiavo, del maestro Artemidoro di Cnido e dell’aruspice Spurinna.
Secondo le fonti, alle 11 Cesare uscì di casa senza scorta e percorse la Via Sacra tra due ali di folla acclamante. Una volta nella Curia, mentre Trebonio, un congiurato, tratteneva il generale Marco Antonio con una scusa, Cesare venne circondato dai cesaricidi. Tullio Cimbro si gettò ai suoi piedi, come per implorarlo, tirandogli la toga: era il segnale. Publio Casca colpì il condottiero con il pugnale, ferendolo. Poi gli altri congiurati gli furono addosso, compreso l’adottivo Marco Bruto, Caio Giulio cadde ai piedi della statua di Pompeo, suo nemico nella guerra civile del 49 a.C., e morì colpito da 23 coltellate.
Di sicuro non pronunciò la frase Tu quoque, Brute, fili mi; secondo Svetonio emise solo un gemito.
Così dunque moriva Cesare, il più grande romano, il più grande italiano di tutti i tempi: costruttore, stratega, soldato, pontefice, legislatore, fondatore dell’impero (de facto primo imperatore) nonché padre del calendario che tutto il mondo scandisce quotidianamente, senza ricordarsene.
Una rappresentanza del M.T.R. ha oggi doverosamente reso omaggio all’Immortale deponendo una corona di alloro ai piedi del suo simulacro, ai Fori Imperiali.
Nella foto, da destra: Italo, Georgios, Paolo, Stefano, Daniele, Marco, Ermes.