Nell’opera “Freud e la tradizione mistica ebraica” (Edizioni Comunità, 1977, p.162) l’autore David Bakan, scrive: “Secondo la tradizione ebraica Roma è la dimora leggendaria del Messia e il luogo in cui il Messia si rivelerà. Si dice che il Messia abiti nascosto alle porte della città”.
Il Bakan trae la leggenda dal “Sanhedrin”, folio 98b.
A nostro vedere una tale tradizione nasce da un richiamo dal fascino esercitato dal mondo dei “gentili” greco-romano sulle più alte gerarchie sacerdotali ebraiche, partecipi, in certa misura, della civiltà ellenistica.
Richiamo e fascino non meramente culturali se uno studioso quale Robert Graves, particolarmente approfondito nei miti e nei culti dell’Oriente classico e dell’antichissimo mondo mediterraneo (cfr. R. Graves,”La Dea Bianca”, Longanesi 1962), ritiene che il Nome ed il culto di Jehovah siano di origine non semitico (“Jesus Rex”, Bompiani, 1982, p.181). Tra l’ altro egli ricostruisce il Nome del Dio degli Ebrei dopo aver affermato che è composto di 7 lettere dell’alfabeto ebraico lette seguendo del corso del sole. Le lettere sono II, I, E, V, O, AA, che, trascritte in caratteri romani, danno IEOVOAA, ma lette dagli Ebrei, in forma volutamente sviante, JEHOVAH.
La tesi dell’origine non semitica del Nome di Jahveh è ricorrente e la troviamo in autori del passato tra cui Nieupoort (“Rituum qui olim apud Romanos obtinuerant, etc.” 1774, voce Juppiter), i1 quale riporta l’affermazione di Salmasio e di Capella per la quale Jehovah è l’ebraico di Joupitar, Joupiter, Juppiter.
Aggiunge il Graves (op.cit. p.256) che il Nome era conosciuto dagli antichi Frigi ,che ne avevano annodate le lettere sul giogo di Gordio, i1 cui nodo fu tagliato poi da Alessandro il Grande.
Un più antico autore, lo storico Flavio Giuseppe (“Lo guerra giudaica”, 1,26) allude dal canto suo ad una pretesa affinità di stirpe tra Giudei e Spartani sulla base d’uno lettera del re di Sparta Areo I al Gran Sacerdote Onias (in I,”Machabaei”,12, 20, segg., scritto verso il 100 a.C.), lettera che, anche se falsa, attesta il collegamento istituito nella storiografia giudaica fra Eraclidi ed Abramidi (S. Mazzarino, “Il pensiero storico classico” II, I, p.232),
Lo stesso Flavio Giuseppe, Ebreo di cultura ellenistica, appartenente alla prima delle 24 famiglie sacerdotali per parte di padre tre per parte di madre discende dalla famiglia reale degli Asmonei, sacerdote egli stesso, consapevole della profezia secondo la quale dall’Oriente sarebbe uscito un Imperatore che avrebbe dominato il mondo (e dai sapienti ebrei visto come il Messia), vaticina l’ascesa di Vespasiano. Non solo, ma solleva Roma dalla responsabilità della distruzione del Tempio di Gerusalemme (70 d.C.) affermando che gli Ebrei ribelli avevano suscitato l’ira di Ieovah (op.cit. II, 10) allorché avevano interrotto i sacrifici in onore di Augusto e del Popolo Romano. Sacrifici che effettivamente si svolgevano nel tempio due volte al giorno sin dal tempo di Augusto. Il Dio, sostiene Flavio Giuseppe, era intervenuto a salvare il popolo ebraico, osservante della giustizia, contro l’ingiusto Sennacherib, ma ora ad essere ingiusti erano gli Ebrei ed i Romani i giusti. Così Egli non soltanto ha abbandonato il Tempio ma addirittura è passato dalla parte dei Romani, garantendo loto la vittoria (op.cit. V, 9 e VI, 1). Che un Dio abbandonasse il proprio tempio per passare al nemico ero un’eventualità comunemente accettata nel mondo classico. Esistevano, anzi, dei riti appropriati, ad esempio l’Evocatio dei Romani, per indurre una divinità ad abbandonare il suo tempio ed il suo popolo per trasferirsi dalla parte del “più forte”. Se a ciò si aggiunge il fatto che gli Ebrei più antichi davano al termine Messia il valore di “Re del Popolo di Dio” ed anche di “Re Sacerdote” e che era visto sempre come un essere umano (M. Eliade, “Storia delle credenze e delle idee religiose’, II, p.272), si intravvede un possibile fondamento della leggenda del Messia che si rivelerà in Roma.
Il Dio aveva abbandonato il Tempio: l’Imperatore romano era un uomo che rivestiva la duplice qualità di re e di sacerdote e in fatto e in diritto era il sommo sovrano degli Ebrei mentre Gerusalemme, abbandonata dal Dio, non svolgeva più la sua funzione di centro religioso (più precisamente: cultuale) tuttalpiù un nostalgico punto di riferimento. Roma era invece il centro del mondo e non soltanto da un punto di vista meramente politico, come è provato dal fatto che ad esso tendevano le tante religioni del mondo classico. Incidentalmente facciamo notare come l’attrazione di Roma verso le religioni non sia mai cessata: dopo la sinagoga e la chiesa si sta erigendo anche la moschea.
Come la religione romana, fondata sul rito, aveva la sua esplicazione a Roma (cfr. C. Rutilio, “Pax Deorum”, Arx, Messina, 1983), parimenti il culto di Jehovah si teneva solo ed esclusivamente a Gerusalemme (le varie sinagoghe essendo luoghi in cui non effettuano sacrifici al Dio ma lo si prega solo). Una volta privati del Tempio, essendo limitato il culto alla preghiera ed alle cerimonie, l’attrazione di Roma per gli Ebrei dovette essere fortissima, specialmente per quelli tra essi che non condividendo la rivolta, causa prima della distruzione del Tempio, pensavano – d’accordo con Flavio Giuseppe – che il Dio ora risiedesse a Roma, luogo “fatale” unico al mondo a poter ospitare tutte le divinità, mentre Gerusalemme era diventato un luogo disanimato.
Ci si potrà obbiettare che, in base al nostro stesso ragionamento, si potrebbe dire che pure gli Dei hanno abbandonato Roma. L’obiezione non si applica una volta che si tenga conto della sopravvivenza degli antichi Dei, sopravvivenza assicurata da forme e manifestazioni diverse, non tutte istituzionalizzate.
Claudio Rutilio