In virtù di un innamoramento genetico, da genius, della Romanità, che consente l’ingresso in uno stato esperienziale dello spirito analogo a quello di cui parla Aristotele (1) a proposito dei Misteri (“ouk mathéin alla pathéin” – “nei Misteri non è questione di apprendere ma tutto è esperienza animico-emotiva“), non può non giungere alla coscienza la domanda filosofica fondamentale che, se riguarda il “che cos’è” della “cosa” amata, riguarda, anche e soprattutto e sotto un altro profilo, il “chi è” dell’amante: se la Romanità è la nostra Tradizione, come anima dell’Europa elleno-romano-germanica e cioè indoeuropea, cos’è la Romanità?
Essa si qualifica come l’ultima e riuscita Opera, in piena decadenza ellenistica, di un ciclo Eroico-Guerriero finalizzato alla ricostituzione dell’ordine spirituale-politico, soprattutto giuridico-religioso, come simile all’Ordine cosmico (Rtà vedico = ritus romano) che è l’Impero immagine dell’Universo (Ascesi dell’Azione). Questa risposta a quella domanda apre il Discorso, è la ragione come archè della stessa Romanità.
Da ciò consegue, infatti, il significato giuridico-religioso = rituale della guerra come via guerriera al Sacro (attraverso Mars si realizza Juppiter). Per mezzo della guerra (bellum justum => jus fetiale = guerra ritualmente ineccepibile) il Romano realizza il Cosmos, che è l’ordine di Juppiter, cioè il principio ordinatore = mente magico-giuridica (ed è la struttura funzionale della Triade Arcaica, struttura al contempo macrocosmica, microcosmica e social-politica: Juppiter, Mars, Quirinus…). Il Popolo Romano, peraltro, considera la Pace (giusta) il bene supremo che proviene dagli Dèi. Infatti, il rito di passaggio fondamentale nella vita del civis è il momento in cui indossa la toga virile e non le armi; esse, quindi, con tutto quello che comportano in tema di sangue, lutti e violenze devono essere purificate dal Furor belli alla chiusura della stagione della guerra in ottobre (e sono i Riti dell’armilustrium, tubilustrium). Il Romano sa però che, essendo il suo Destino quello di regere imperio populos, al fine di realizzare la Pax romana che è frutto della Pax deorum, deve affrontare tutte le Potenze (le Acque, la Donna, la Superbia e il negligere i Riti) prima spirituali e poi materiali, che sono l’ostacolo, l’impedimento alla realizzazione dell’Ordine che è l’immagine terrestre del Cielo (il Campidoglio). E questo è un ordine giusto, poiché è frutto di una guerra giusta. Ciò non deve essere inteso in senso moralistico-cristiano, ma in senso metamorale, cioè secondo la natura rituale dell’elemento giuridico-religioso: guerra dichiarata ritualmente e condotta nel rispetto della Tradizione religiosa. Tale concetto, tra l’altro, significa: esecuzione dell’antico rituale dell’indictio belli eseguito dai Feziali, i quali dichiarano il popolo che ha offeso la Majestas del Populus Romanus da (in) imicus (non amico) a hostis; ed è evidente che il termine hostis è all’origine del significato di vittima sacrificale della parola “ostia” presente nella liturgia cristiana della messa con tutte le sue implicanze di natura religiosa. La Ritualità è segno di arcaicità e di metamoralità. Come è il caso dello Scintoismo giapponese e della sua secca e asciutta ritualità, prima dell’incontro con il buddismo. L’Ordine romano è giusto anche perché la stessa guerra è sempre finalizzata a realizzare l’Ordine del Diritto, che è organizzazione, competenze, responsabilità, Officia come attribuzione di incarichi precisi ed inderogabili (vedi come esempio paradigmatico l’universo autonomo ed autarchico della Legione).
Tutto ciò è frutto tanto dello Jus, che è formula creatrice e che si identifica con il Mos Majorum come rituali osservati dagli antenati (che sono più vicini agli Déi… dice Cicerone) quanto della Lex, che è il comando (Jussus) del Popolo.
La meta del Romano è quella di realizzare la piena sovranità magico-giuridica di Juppiter Optimus Maximus che è il Pactum; tale sovranità è aliena, è lontana dalla guerra (il Flamen Dialis – che è il Sacerdote di Juppiter ed è, secondo Plutarco, statua vivente del Dio, tra le tante limitazioni rituali a cui è sottoposto, gli è inibito di avere qualsiasi rapporto con il mondo della guerra), perché consiste nella potenza della Parola e del Rito, potenza magica che crea la Realtà; è la potenza del Tribunale, delle sue formule pronunciate secondo il Rito (2), è il Cielo luminoso, è lo “Stato” romano, ed è Juppiter che è la Res Publica in Idea, che viene dopo il Cielo rosso di Marte, ed è l’Ordine gradito agli Dèi (Pax Deorum) ed agli uomini. La Guerra e il Rito (Jus e Mos) sono, pertanto, le due facce dell’anima della Romanità, che è bifronte ed è espressa dal Nume Giano come simbolo che è gli “Inizi” che coincidono con la Fine che è il “Fine”.
Il rito giuridico-religioso è pertanto il fondamento della Civitas romana. La Res Publica è Res Populi, ma è anche Res Sacra, poiché il publicus è Sacer e se Publicus = Populus e Publicus = Sacer, allora Populus = Sacer!
Per mezzo del Rito il Romano crea l’Ordine fenomenico per effetto della sua Azione sulla realtà Numenica mediante l’Ascesi dell’Azione che si esplica nella sfera del Fas (Assise Mistica), e che si riverbera così dall’Invisibile (fas) nel visibile ed è lo jus, cioè la formula (il Rito) secondo la legge degli Dèi ed è simile al processo magico del Dhàrman del Rtà, di cui parlano i testi vedici, che è il romano Fas dello Jus.
India e Grecia sono invece l’Ascesi della Contemplazione e cioè la visione del Rtà = Cosmos che viene accettata quale dato dagli Dei ed è la spiritualità del dato come voluto che è il contrario della spiritualità romana che si qualifica per il voluto come dato la cui ragione è radicalmente di natura magica, atteso che il voluto è frutto dell’Azione Sacra del romano che letteralmente crea dal nulla una situazione, una realtà, una legge, un ordine e questo voluto equivale al dato dei Greci e della civiltà vedica.
Qui sta la ragione profonda per cui nella romanità il Cosmos è la Res Publica e quindi il Cosmos è “statale”, “terreno”, “non cosmico” da creare mediante l’azione (come si crea il magistrato [creatio]). Se la cultura romana, a differenza di quella greca, è giuridico-religiosa, qui il Sacro è sopra tanto al Jus quanto alla Civitas, ma gli Dèi sono “governati” dai Magistrati, nel senso che è il Populus, per mezzo degli esecutori del suo jussus (comando) e cioè i magistrati, che regola ed amministra il culto dovuto agli stessi Dèi. E qui risiede la radicale differenza, tutta indoeuropea, dalle teocrazie orientali.
L’Universo romano è, quindi, la Res Publica che è Res Sacra, perché è immagine creata (ritualmente) simile all’universo di Juppiter, esso, come abbiamo già accennato, è lo “Stato” romano come Idea, infatti esso (lo “Stato”) nasce quando Juppiter diviene Ottimo Massimo! Nasce (lo “Stato”) quando nasce la Res Publica, cioè la Cosa del Popolo e se essa è l’Idea di Juppiter; allora il Populus Romano è l’idea di Juppiter che si fa storia cioè è il Popolo del Dio!
Pertanto abbiamo così la equivalenza dialettica fondamentale della Romanità dove il Pubblico equivale al Sacro ed il Privato al Profano. L’equivalenza è Sacro – Profano > Pubblico – Privato dove al Sacro corrisponde il Pubblico e al Profano il Privato e tale processo spirituale coincide ed è il fondamento della Civitas e del diritto pubblico occidentale, conosciuto e sistematizzato solo dall’Occidente: l’Oriente infatti ignora la categoria dello spirito del diritto pubblico.
La ragione della forma mentis del Romano, che con il rito giuridico-religioso, come abbiamo detto, crea l’Ordine sacro, induce a concludere che nella spiritualità romana, essendo Ascesi dell’Azione guerriera ed equivalendo quindi alla formula che abbiamo già indicato: il voluto è come dato; la Natura tanto nella dimensione dello spazio quanto in quella del tempo è magicamente creata e quindi pensata giuridicamente, poiché l’essenza intima dello Jus (il nostro diritto) è magica attribuendo a tale termine il semantema a cui fa riferimento Evola e che si può sintetizzare in una natura attiva dello Spirito nei confronti del Mondo (in tale contesto si inserisce tutto il processo tipicamente romano della fictio legis e cioè della straordinaria capacità di creare letteralmente qualcosa che nella realtà spazio-temporale non esiste affinché tale realtà creata sia adiacente o efficace ai fini giuridico religiosi della stessa Res Publica) quindi nella romanità non vi è mai quel “decadente” conflitto tra natura e diritto (e quindi nemmeno la dottrina asiatico-femminile del cosiddetto “diritto naturale”), come nella grecità postarcaica dove, in virtù del principio caratteristico della spiritualità greca, che è il dato è come voluto, il Greco della decadenza, non vedendo più il dato come Ordine (razionalismo = sofisti) patisce il conflitto tra nòmos e phýsis a cui solo il divino Platone reagì.
L’intera storia di Roma è quindi Storia del suo Diritto Pubblico che è Sacro e, di conseguenza, è Storia Sacra!, cioè Storia degli Instituta che sono comportamenti rituali tipicizzati che il Popolo Romano si è dato nella Pax Deorum – e che, nel tempo, vengono trasmessi (Tradizione) attraverso gli Annales Pontificum, i libri dei collegi sacerdotali, i fasti consulares ed il racconto di Tito Livio, che su questi si fonda.
La Civiltà di Roma, nonostante sia la più efficiente del mondo antico, la più specialistica nonché “avanzatissima” sul piano della struttura sociale, politica e giuridica, non è precipitata mai nella modernità (individualismo prevalente, dominio culturale della borghesia mercantile ed utilitaristica e dell’industrialismo capitalista). La natura indoeuropea di Roma, sempre rinnovata in virtù della circolazione della classe dirigente, le ha consentito di salvare l’Europa e l’intero ecumene greco-romano dalle derive tanto teocratico-asiatiche quanto laico-agnostiche della modernità contrattualistica tipica della decadenza greca. Roma, pertanto, supera il dramma e l’impotenza della grecità nei confronti della modernità borghese (oligarchia o democrazia caotica) e realizza l’autentica sovranità sacrale-religiosa del Populus (proprio perché il termine democrazia è assente dal lessico politico-giuridico romano) per mezzo della sovranità degli Ordini-Corpora-Sociali; ciò in virtù di un’eroica e graduale romanizzazione di chi si associava al suo destino, che è come dire ingresso nella Civitas e tra la classe dirigente di plebei, liberti, barbari.
Da tutto ciò si evince che, contrariamente a quanto certa storiografia (cristiana e/o liberale) stupidamente miope ed in malafede ancora osa affermare, non è assolutamente vero che il Romano sarebbe un popolo carente di spiritualità e di progettualità politico-sociale. Infatti, le concrete res gestae del Popolo Romano smentiscono come meritano simili perverse menzogne: chi ha edificato quel miracolo che è l’Ecumene di pace e di prosperità, di giustizia e di benessere economico, di ordine e di legge valida per tutti i popoli dell’Impero universale, come mai era accaduto prima di Roma e come drammaticamente mai più è accaduto dopo la sua caduta? Roma ha ideato ed attuato quell’immensa fenomenologia giuridica (unica nella storia di tutti i popoli di tutto il pianeta) relativa sia alla dimensione della guerra che alla successiva realtà della Pax romana: ordinamenti, leggi, diritto privato, tribunali, commerci e contratti tutelati, benessere economico diffuso e diritti della persona e dei popoli riconosciuti e difesi giuridicamente e giudiziariamente come mai era stato solo pensato; migliaia di strade romane per centinaia di migliaia di chilometri dalla Britannia alla Persia e dalla Gérmania all’Africa; migliaia di chilometri di acquedotti che portano gratuitamente l’acqua a tutti i popoli dello sterminato mondo romano e tutte le libere città di questo mondo si autogovernano avendo i loro liberi magistrati e le loro assemblee popolari, (in una forma, mai veduta, di sovranità popolare a livello mondiale…!) hanno terme, biblioteche, anfiteatri, teatri, basiliche aperti gratuitamente a tutto il popolo (i romani hanno inventato ed attuato la prima forma di Stato sociale). Il Romano, a differenza del Greco, non ha scritto trattati sullo Stato o sul buon governo (unica eccezione può essere Cicerone); il Romano non ha scritto sulla pergamena, ma ha scritto nella storia, nella società, nell’animo di milioni di persone per oltre mille anni e le sue opere sono a fondamento attuale del nostro essere europei; e questo è il Mito di Roma! Tutta la Civitas, quindi, si fonda sulla sovranità del Populus Romanus e sulla sua Majestas, in quanto ritualmente organizzato e ordinato (per Ordines,) nei Comizi. Da ciò consegue l’assenza del concetto di rappresentanza politica, che è invenzione del moderno diritto pubblico inglese, come unico tra i suoi contemporanei, comprese il Rousseau. Il magistrato romano è, infatti, esclusivamente un commissario, cioè esecutore del comando del popolo e non suo delegato poiché il popolo non delega la sua sovranità a nessuno. Sullo jussus populi è emblematico l’episodio del Legato Senatorio Popilio Lenate e Antioco IV Epifane Re di Siria.
È tipico del pensiero giuspubblicistico e giusfilosofico moderno e quindi è errato tradurre Res Publica con la parola “Stato”. Nella cultura romana, essa è l’insieme organico e funzionale degli uomini vivi, liberi e concreti (concezione fattuale e rituale della comunità); è Senato e Popolo Romano (ed i suoi magistrati) cioè S.P.Q.R.; ciò in virtù dell’assenza del concetto moderno e quindi astratto di persona giuridica. Nell’età annibalica, infatti, il Senato ed i trecento senatori legati da rapporti fondati sulla Fides con gli altri componenti delle aristocrazie italiche loro alleati, sono gli autentici “pignora imperii” della potenza romana.
Libera Res Publica Romanorum è tale anche il cosiddetto “Impero” che è in sostanza la Res Publica universale, di cui fanno parte come cives romani, con gioia e consenso, sterminati popoli e genti, con tutte le loro tradizioni conservate, senza alcuna preclusione razzista (Constitutio Antoniniana – 212 d.C.). Con la circolazione delle elite si avranno Senatori di etnia gallica e britannica una sola generazione dopo Giulio Cesare, così come in seguito i migliori Principi (imperatori) romani saranno provenienti dalle province: arabi, libici, spagnoli, dalmati, germani, siriaci. Ecco il Mito di Roma, come eterna idea della Mente Divina, ecco la Grande Madre delle genti, ecco la Città che diviene Mondo, essa è la fratellanza giusta, perché fondata sul comune Jus e sul Pactum, ed è universale poiché è lo stesso Juppiter e, come il Cielo luminoso, non ha confini né di tempo né di spazio.
Giandomenico Casalino
(1) R. PETTAZZONI, I misteri. Saggio di una teoria storico-religiosa, Bologna 1924, p. 54.
(2) “…I tre celebri verbi pronunciati dal giudice, «do, dico, addico», creano davvero una situazione, concludono un dibattito, legittimano una pretesa…”: G. DUMÉZIL, La religione romana arcaica, Milano 1977, pag. 119.