Suggestioni simboliche lontane dai canoni (cristiani) e in odor di paganesimo s’incontrano nella figura di un personaggio potente, tradizionalista e rivoluzionario insieme.
Si è concluso con un milione e mezzo di spettatori il 18 novembre scorso (ma continua la replica) lo sceneggiato di Sky in 10 puntate, “The Young Pope”, diretto da Paolo Sorrentino, con Lenny Berardo, al secolo Jude Law, nei panni di Pio XIII e venduto in 80 paesi che ancora la debbono vedere. E’ stata una scommessa originale di grande cinema e grande teatro insieme, in un panorama piatto e ricicciato: senza dubbio un gioiello di stile, di regia, di recitazione, di musiche (tra tutte, All along the watchtower di Dylan) e di doppiaggio (la voce di Law è molto più densa dell’originale).
Il senso dell’opera è stato quello di una storia forte, con contenuti di contrato e messaggi simbolici. Dovendo raccontare molto in poco tempo – il cinema è linguaggio che riassume tutto in un’immagine sola – ha prevalso la ricerca dell’approccio al soprasensibile nel confronto con le conformità contemporanee. Uno sceneggiato tra il visionario, il cerebrale e lo spettacolare che non ha rinunciato al sogno. Un lavoro sontuoso, insomma, girato e interpretato bene e con un finale all’altezza.
Sunteggiando, la vicenda è la parabola di un tradizionalista moderno catapultato a sorpresa dal conclave a governare un’istituzione antica, ingessata e anche svuotata di contenuti spirituali. E il pontefice si palesa subito come stupor mundi: politico che scansa il consenso come la peste, sacerdote che rincorre il mistero, uomo innovatore di un’istituzione ingabbiata dal politicamente corretto, personaggio rivoluzionario nella sua opera quotidiana di demolizione dell’io.
Saturno in testa e scarpe rosse, veste sfarzosa e sigaretta, sportivo e atteggiato a rock star, ironico, cinico e feroce coi corrotti coi potenti il papa è una figura inflessibile sui principi, indulgente con i sentimenti e costantemente alla ricerca del divino – “Dov’è dio?” – urla coram populi alla sua prima e quasi unica apparizione da s. Pietro, lasciando pietrificati i fedeli.
Lo sceneggiato – non poteva essere diversamente – non è piaciuto ai cristiani. Così Andrea Fagioli su Avvenire: “Al regista interessano ben poco le questioni religiose: gli interessa descrivere come secondo lui si gestisce e si manipola quotidianamente il potere in uno Stato che ha come imperativo morale la rinuncia al potere e l’amore disinteressato verso il prossimo. Molte le scene forti (…) a conferma di un intento provocatorio e irriverente, di una spinta sulla satira anticlericale, che non affonda il colpo definitivo. The young Pope appare sempre più verboso e meno spettacolare, nonostante le citazioni felliniane e l’impegno economico da kolossal, mentre continua a proporci un’immagine del papato agli antipodi di quello attuale e sicuramente anche di quello futuro”.
“Un bluff piuttosto che un flop” ha sentenziato Maurizio Turroni su Famiglia cristiana.
Qualche commentatore laico (non i più famosi però) a contrariis ha scritto che “pure i più feroci detrattori di Sorrentino, che non sopportano gli scambi di battute verbose e altisonanti, non possono negare l’efficacia che questo regista è riuscito a raggiungere attraverso Lenny Belardo, il papa portatore di un messaggio che nessuno riesce a decifrare”.
Già, è proprio così: si tratta di un pontefice agli antipodi sia dell’attuale papa gesuita che mette primo posto (non senza demagogia) l’infinita carità verso il prossimo, convinto com’è che le verità dogmatiche siano un ostacolo alla misericordia – sia della dottrina tradizionale cristiana centrata sui comandamenti e sulle tre virtù teologali che riguardano dio e sono infuse dalla grazia.
Ma non è vero però che nessuno riesce a decifrare il messaggio di Pio XIII: il messaggio è quello di un pontifex che, semmai, segue un percorso umanista a tinte neoplatoniche (virtù politiche, purificatrici e contemplative), lasciando quindi trasparire richiami metafisici pagani.
Vediamo come.
The Young Pope è un film lungo dieci ore, pieno di andate e di ritorni e di citazioni.
All’inizio dello sceneggiato Pio XIII esordisce come ortodosso e profondamente tradizionalista su temi come il celibato dei preti, il ruolo definito delle donne nella chiesa, la percezione della presenza del soprasensibile, l’atteggiamento nei confronti dell’aborto e degli omosessuali e infine la condanna senza pietà della pedofilia. Sviluppa poi il suo cinismo, lo mette a frutto, lo spiega innanzitutto a se stesso e poi al mondo intero. Attraverso le puntate fa capolino l’amore per il divino e l’amore platonico per una donna. Pio XIII è dunque un papa alle prese col divino e col terreno insieme, dimensioni che si mischiano e si confondono e compenetrano di sé tutti e tutto. C’è una ricerca continua di punti fermi. E c’è spazio pure per due “miracoli”. In progressione si riduce lo spazio per le vicende della corte (il gigione segretario di stato Voiello/Silvio Orlando, la materna suor Mary/Diane Keaton e il mefistofelico decano Caltanissetta/Toni Bertorelli) e si alza il tiro a livello simbolico e filosofico. L’ultima scena poi, con la morte di crepacuore e l’ascesa al cielo del papa a Venezia, dal balcone di s. Marco, tra i maestosi cavalli bronzei del Carro del sole di Lisippo trasuda di simbologia apollinea ed ammicca ad altre ascensioni seguite a morti non naturali di eroi di miti classici (Romolo, Enea).
Il giovane papa non è dunque – come ha scritto qualcuno – il Frank Underwood del Vaticano (personaggio di “House of Cards”), ma ben altro: è una figura solare e verticale.
E’ un papa che, al contrario dell’apparenza, maneggia il potere senza goderne ed è capace di ricattare con successo il capo del governo di turno (nello specifico un premier italiano “progressista”) pur di imporre i suoi principi.
In un mondo di selfie, è un caparbio inseguitore della dimensione impersonale.
E’ un papa in grado, in una società dove conta solo l’immagine, di sentenziare contro tutti e tutti, che “ognuno deve trovare dio da solo, dentro di sé”.
E’ un pontefice capace, in un mondo di materialità, di ricercare l’anima e il proprio genio. Lo sceneggiato, infatti, è anche la parabola della sua solitudine, dei suoi soliloqui – segnati dallo straziante abbandono di due genitori senz’anima – e dei suoi ricordi d’amore per una donna.
E’ un personaggio dotato di poteri sottili ed appare capace di maneggiarli, senza cadere nel ridicolo, nel superstizioso o nello spiritualismo new age.
Infine, in un vortice di rilanci al ribasso sulle forme, è un papa che indossa in scioltezza il triregno e, nell’unico viaggio “apostolico” fuori Roma (che poi apostolico non è), veste di rosso, con il codazzo di corte in bianco.
Probabilmente quest’ultima di Sorrentino è stata solo una scelta estetica. Ma tant’è. Nella filologia cattolica è sicuramente sbagliata perché il rosso il papa lo veste solo in particolarissime occasioni, nelle feste cioè che richiamano sangue: martiri, santi Pietro e Paolo, venerdì santo, pentecoste. Nell’antica Roma il rosso era invece il colore che per secoli vestì l’imperator/generale vittorioso nel trionfo, per assimilazione a Iuppiter optimus maximus; imperator che spesso era anche pontifex maximus. Ed era il colore che impastava potere sovrano e potere sacerdotale. Quando Graziano e Teodosio ruppero questa unità e fecero del cattolicesimo duale l’unica religione dell’impero bandendo i pagani, i papi – aggrappandosi al nome pontifex – scelsero proprio il bianco per marcare la differenza e l’avvenuta scissione tra potere temporale e potere spirituale (monopolizzando quest’ultimo).
Ora, vestendo di rosso, The Young Pope/Pio XIII ribalta intrinsecamente il paradigma.
In conclusione, occorre chiedersi che significato attribuire a questi messaggi simbolici. Si tratta di suggestioni casuali, per quanto ben costruite, o c’è forse un’intuizione dietro il progetto?
Non lo sappiamo.
Senza quindi far dietrologia (è solo un film), ci basti segnalare che The Young Pope non solo ha messo il dito, proiettandola da dentro, nella piaga della debolezza dell’attuale corso della chiesa cattolica, ma è andato oltre lanciando sassi di celluloide (linguaggi, simboli, parole, immagini) alle sue stesse fondamenta tradizionali – sassi presi a prestito da fuori, da un terreno “altro”, che il grande pubblico di oggi ha completamente dimenticato.
Rem tene, verba sequentur.
Paolo Casolari