Il contenuto dei papiri sopravvissuti all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., ancora arrotolati e carbonizzati, potrà essere letto grazie alla tecnica messa a punto da Vito Mocella del CNR-IMM di Napoli in collaborazione con Emmanuel Brun e Claudio Ferrero dell’ESRF (il sincrotrone di Grenoble) e con Daniel Delattre del CNRS-IRHT di Parigi. Come riferisce il sito Nature comunications, periodico online di importanti scoperte, (http://www.nature.com/ncomms/2015/150120/ncomms6895/full/ncomms6895.html) i quattro sono, infatti, a riusciti a visualizzare lettere e parole vergate su una superficie nascosta all’interno di uno di questi rotoli.
Un passo indietro.
Nel 1754, una campagna di scavi archeologici a Ercolano voluta da Carlo di Borbone re di Napoli portò alla scoperta di una grande villa, oggi nota come Villa dei papiri, forse appartenuta a Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, suocero di Cesare. All’interno della villa vi era una biblioteca contenente milleottocento papiri manoscritti, ormai carbonizzati, ma accuratamente conservati in scaffali. Questa ricca collezione è un tesoro culturale unico in quanto è l’unica biblioteca antica giunta a noi con i suoi libri. Per esaminare i papiri furono escogitati diversi metodi di apertura – da quello ideato dall’abate Antonio Piaggio subito dopo la loro scoperta, fino al “metodo di Oslo” degli anni ottanta del secolo scorso – ma tutti vennero presto abbandonati dopo pochi tentativi. Anche applicandoli ai papiri carbonizzati più robusti e meglio conservati, provocano infatti la perdita irrimediabile di un numero eccessivo di testi; per questo si preferì preservare l’integrità fisica dei reperti, nella speranza di poterli leggere un giorno nella loro interezza grazie ai progressi tecnici. Le tecniche radiografiche convenzionali, nelle quali il contrasto dell’immagine è legato ai diversi modelli di assorbimento dei raggi X da parte dei vari materiali, non avevano finora dato alcun frutto perché i papiri erano scritti con un inchiostro a base di nerofumo, la cui densità è quasi identica a quella del papiro carbonizzato. E nemmeno la fluorescenza a raggi X, applicata con successo per la mappatura chimica (e quindi alla lettura) di antichi manoscritti e palinsesti coperti da altri scritti più recenti, e la tomografia computerizzata a raggi X avevano dato risultati soddisfacenti.
Ora, Vito Mocella e colleghi hanno adattato a questa applicazione archeologica la tomografia a raggi X in contrasto di fase, che permette non solo di distinguere i differenti livelli di avvolgimento del rotolo, ma anche di ottenere un discreto contrasto fra l’inchiostro e il papiro carbonizzati. I ricercatori hanno così esaminato due dei sei rotoli di Ercolano conservati all’Institut de France a Parigi, dove giunsero nel 1802 come omaggio a Napoleone (gli altri sono conservati nell’Officina dei Papiri della Biblioteca Nazionale di Napoli). Uno dei due rotoli era stato aperto in epoca passata ed è servito come campione di riferimento per l’identificazione delle lettere, mentre l’altro era ancora strettamente arrotolato. Ebbene, i ricercatori sono riusciti a leggere numerose lettere e parole scritte su superfici nascoste di questo secondo papiro. La nuova tecnica, simile a una TAC medica, applicata a due papiri arrotolati ha prodotto delle immagini tridimensionale nella quale alcune lettere del testo spiccavano sulle fibre carbonizzate del papiro grazie allo spessore (pochi micron) dell’inchiostro a base di nerofumo utilizzato dall’antico amanuense. Si tratta di due brevissime frasi (24 lettere in tutto) scritte in greco, la lingua in cui, anche nel mondo romano, venivano scritte le opere filosofiche. La tecnica usata combina diversi metodi di imaging. “Grazie alla potenza di fascio di sincrotrone di Esrf le analisi sono state molto veloci – un decimo di secondo a pixel – il che ci ha permesso di acquisire numerosi dati molto rapidamente e su tutti i campioni”, ha detto ancora il ricercatore, “abbiamo quindi la certezza della correlazione tra informazione chimica e la traccia visibile delle lettere”.
Come i pochi altri testi originari della Villa dei Papiri che negli anni gli studiosi sono riusciti a decifrare, anche in questo caso si tratta con ogni probabilità di frammenti di opere di Filodemo di Gadara, un filosofo del I secolo a.C vissuto tra il 110 e il 40 a.C.. Protetto da Lucio Calpurnio Pisone proprietario della villa, Filodemo trascorse ad Ercolano lunghi periodi e raccolse i suoi scritti nella biblioteca.
Un successivo approfondimento dei ricercatori ha poi dimostrato che i papiri erano scritti con inchiostro metallico. Quest’ultimo studio – pubblicato sui Proceeding of National Academy of Sciences of the United States of America (http://www.pnas.org/) e a cui hanno partecipato anche l’Institut national de la santé et de la recherche médicale, l’università di Grenoble – Alpes, il Cnrs (Francia) e l’università di Gand (Belgio) – retrodata l’uso dell’inchiostro metallico di quattro secoli. “Finora si pensava che prima del IV-V secolo d.C. il metallo non fosse presente nell’inchiostro dei papiri greco-romani, infatti la prima miscela ferro-gallica identificata come inchiostro di scrittura di pergamena risale solo al 420 d.C. In seguito, gli inchiostri metallici sono diventati la norma per i documenti della tarda antichità e per la maggior parte di quelli del Medioevo”, ha spiegato Mocella. Il lavoro dei ricercatori ha permesso di individuare la ricetta precisa dell’inchiostro: nero fumo, gomma arabica e piombo. I ricercatori hanno pochi dubbi: il metallo, hanno detto gli scienziati, è presente in una concentrazione tale che non può essere spiegata da una contaminazione del piombo presente nei sistemi idrici o da un calamaio di bronzo. Inoltre, rende più leggibili le lettere.
Di un’altra equipe al lavoro sui papiri di Ercolano ha dato notizia Luciano Canfora sul Corriere del 9 giugno che fa capo, scrive, “alla grande fucina dell’Istituto per il lessico intellettuale europeo e storia delle idee (Iliesi, Cnr, direttore Antonio Lamarra) fondato e guidato da Tullio Gregory. E’ appena apparso sui Scientific Reports di Nature – continua – un loro articolo (http://www.nature.com/articles/srep27227) che dà conto delle nuove ricerche, dei metodi, delle discipline coinvolte e dei primi risultati cui questo gruppo di studiosi è giunto (oggetto di un convegno a Roma il 14 giugno). A questa equipe collaborano, oltre a papirologi (Graziano Ranocchia), fisici, matematici e informatici, ma soprattutto storici della filosofia …”.
Speriamo dunque che questi progressi incrociati compensino gli sforzi. I prossimi passi dovrebbero essere quelli di ottenere fondi per sostenere una o più squadre dedicate all’immenso archivio e di riaprire il dibattito sull’opportunità di nuove campagne di scavo nella Villa, dove si pensa sia sepolto un patrimonio ben più vasto e si ritiene (sempre Canfora) che fossero due le biblioteche: una di testi greci e una di testi latini.
Centinaia, infatti, sono le opere latine scomparse che potrebbero trovarsi ad Ercolano. Basti pensare a quelle di Marco Terenzio Varrone (Rieti 116-Tuscolo 27 a.C.), il dotto insuperabile della romanità. Trattò di letteratura, di antichità, di retorica, di religione, di scienze: 74 opere in 600 libri. Dell’immenso suo corpus sono pervenute solo le briciole: il De re rustica (integro), 2 libri interi e sezioni di 4 del De lingua Latina, 600 versi delle Saturae Menippeae (poesia) e qualche altro frammento. Le Saturae Menippeae erano, invece, 150 libri. Sempre di poesia erano i 10 libri di Poemata, i 6 di Pseudotragoediae e i 4 di Saturae. De Sermone latino, De antiquitate litterarum, De poetis, De comoedis plautinis erano studi grammaticali e di letteratura. Di storia trattavano le Antiquitates: 25 libri di Rerum humanarum e 16 di Rerum divinarum. Ancora, i 76 libri di Logistorici, dialoghi morali e filosofici. Un’enciclopedia erano le Disciplinae, in 9 libri, sulle arti liberali. Pure di carattere enciclopedico erano i 15 libri delle Imagines, 700 ritratti di uomini illustri.
Ebbene, di tutto questo monumento ci è rimasto pressoché nulla. Possibile che a Ercolano ve sia traccia?
Paolo Casolari