L’11 febbraio 2013, 84° anniversario del Patti Lateranensi, lo Spirito Santo è volato via dal Vaticano.
Spezzando una tradizione millenaria papa Benedetto XVI ha, infatti, liberamente svestito la carca di Pontifex (Maximus), di “ponte” con la divinità, con decorrenza 28 febbraio alle ore 20. Semel abbas, semper abbas, si diceva: abate una volta, abate per sempre. Ma per Ratzinger non è stato così. Il suo gesto individuale è, tuttavia, di grande portata e lascerà il segno.
Come noto, la carica di Pontifex (Maximus) non è nata nella Chiesa cattolica, ma ha rappresentato il supremo ruolo di sorveglianza e di governo sul culto religioso appannaggio dei massimi magistrati romani, poi degli imperatori – che riunivano nella loro persona poteri temporali e spirituali. Così fu per secoli sino al 376 dell’era volgare, quando l’imperatore 16enne Graziano, succube del vescovo di Milano Ambrogio, ruppe la secolare unità tra microcosmo e macrocosmo declinando l’onore/onere del pontificato massimo perché incompatibile con la religione dominante. A seguire, dal 380, promulgò l’Editto di Tessalonica che dichiarava il Cristianesimo religione di Stato e ordinò la soppressione degli antichi collegi sacerdotali, la rimozione della statua della Dea Vittoria dal Senato, la demolizione dei templi e la persecuzione dei pagani.
Ora, a 16 secoli di distanza e ad Ambrogio piacendo, un rimbalzo di contrappasso centra il Cattolicesimo universale che quella carica aveva mutuato. Con la sua rinuncia, infatti, Benedetto XVI, Pontifex Christianorum eletto dai cardinali “per intercessione dello Spirito Santo”, ha anteposto all’Ufficio la sua personale inclinazione, ha rifiutato il sacrificio dell’individuo in funzione del rapporto con l’Ultraterreno, ha sconfessato il Magistero – facendo così compiere alla Chiesa il balzo decisivo che l’assomiglierà sempre più a un centro mondiale di carità e assistenza. Il paragone sostanziale non va fatto, dunque, tra Benedetto XVI e l’eremita templare Celestino V (che governò, ottantenne, 4 mesi) o con altri sette papi dei primordi, rinunciatari “per forza”, ma con l’imperatore Graziano: come lui, Ratzinger ha disertato di fronte alla nuova religione dominante: in questo caso il Relativismo secolarizzante.
Evidentemente, erano maturi i tempi perché la scelta fosse di vertice, visto che il terreno è ben seminato. Come narrava nel 1974, incompreso, Guido Morselli nel suo romanzo premonitore “Roma senza Papa – che ha dipinto un affresco della sbracatura spirituale e delle debolezze della Chiesa – la rotta si è dipartita dal Concilio Vaticano II. Da allora muove, con inesorabile cupio dissolvi, lo scisma silenzioso del popolo dei credenti apparenti che, incalzati dai laici militanti, dagli intellettuali benpensanti, dalle lobby gay, dall’Unione europea, uno dopo l’altro ha fatto saltare i tappi ai precetti cattolici. La conferma, subliminale e rivelatrice, arriva anche dalle reazioni al gesto del papa: è tutto un florilegio di apprezzamenti per la “tenerezza di un Ratzinger “profondamente umano, che si è dimesso “per raggiunti limiti d’età, “a causa di veleni e ricatti, “per liberarsi dalla cappa dello Ior, “per un tormento intellettuale.
Verissimo, tutto è così … umano, c’è ben poco di spirituale. Il processo di denudazione è inarrestabile e ora investirà la gerarchia, ormai scatola vuota: già svolazzano gli avvoltoi, imbeccati dai media, a mettere in discussione i cardinali (il primo a saltare è stato l’irlandese O’Brien).
Domus Lases