Con profonda tristezza salutiamo Alberto B. Mariantoni che, da pagano, è giunto ai Campi Elisi precedendoci nel cammino. Amico dell’ MTR, partecipò a varie nostre attività sia di carattere rituale che culturali. Lo ricorderemo sempre per le conferenze tenute nella nostra sede, per le nottate solstiziali passate intorno al fuoco sacro a parlare di Romanità e di Tradizioni e per i suoi interventi lucidi e brillanti. Qui di seguito pubblichiamo l’estratto di un suo scritto sul Solstizio d’Inverno.
Il giorno del “solstizio d’inverno”, non è un giorno come gli altri. E’ il giorno del perenne ritorno della vita e dell’eterno ricominciamento! Anche se, oggi, la nostra coscienza collettiva ne ha perso la memoria storica, quell’avvenimento iniziò ad essere celebrato dai nostri antenati già in epoca preistorica e proto-storica. Esso, inoltre, ispirò il “frammento 66” dell’opera di Eraclito di Efeso (-560/-480) e fu allegoricamente cantato da Omero (Odissea 133, 137) e da Virgilio (VI° libro dell’Eneide). Quell’evento, fu invariabilmente atteso e magnificato dall’insieme dei Popoli-Nazione europei e fu ugualmente individuato da un certo numero di tradizioni religiose del mondo per fare nascere o emanare i loro esseri divini o soprannaturali. Da un punto di vista astrofisico, il “solstizio d’inverno” è il giorno dell’anno nel quale – nel cielo dell’emisfero Nord del nostro Globo – il Sole viene a trovarsi alla sua minima declinazione sulla linea dell’orizzonte (Nadir), rispetto al Parallelo locale. In altre parole: nel giorno del “solstizio d’inverno”, il Sole sorge nel punto più meridionale dell’orizzonte Est della Terra, culmina a mezzogiorno alla sua altezza minima (a quell’ora, cioè, è allo Zenit del tropico del Capricorno) e manifesta la sua durata minima di luce (all’incirca, 8 ore e 50/55 minuti). A partire da quel momento, la luce cessa di diminuire e ricomincia ad aumentare. Dal latino “Sol” (il Sole) e “status, a, um” (fisso, periodico) – la parola “solstitium, ii” (nel senso di “brumale” o di “hibernum”, dunque, di “solstizio d’inverno”) era utilizzata molto raramente dagli autori classici della Roma antica per due ragioni. La prima, è che la tradizione romana della festa del dies solis novi affondava le sue radici, sia nel passato preistorico delle genti Indoeuropee che in quello, più recente, delle sue stesse basi cultuali (la divinità solare – precisa Julius Evola – appare già fra i dii indigetes, cioè fra le divinità delle origini romane, ricevute da ancor più lontani cicli di civiltà”). La seconda ragione, è che la festa che nei tempi arcaici di Roma era definita Diualia (o ricorrenza del Diua Angerona: il Numen che permetteva l’attraversamento degli “stretti passaggi”, come quello che compie il Sole nel giorno più corto dell’anno) e che più tardi, dopo l’introduzione, sotto l’Imperatore Aureliano, del culto del dio indo-iraniano Mithra e l’edificazione del suo tempio nel campus Agrippae, l’attuale piazza San Silvestro a Roma, assumerà il nome di Dies Natalis Solis Invicti, era praticamente inclusa all’interno di un più vasto ciclo di festività che i Romani chiamavano Saturnalia, festività che si prolungavano dal 17 al 25 Dicembre e finivano con le Larentalia o festa dei Lari.
I Saturnalia che i nostri antenati facevano morfologicamente derivare dal vocabolo latino “sata, orum” (i “seminati”) e che, in un secondo momento, solennizzarono antropomorficamente in una celebrazione religiosa dedicata al dio Saturno (in un primo tempo, una divinità agraria latina e successivamente, assimilato al dio greco Cronos – a Roma, sposo di Ops o Opi, come madre dei frutti e dei campi – fu adorato come Creatore), avevano, in realtà, una più antica origine: quella che gli stessi Romani – senza conoscerne l’effettiva provenienza e la reale genesi – avevano ereditato dalle popolazioni Latine dell’antico Latium a cui, nel tempo, si erano culturalmente e politicamente sovrapposti. Quella provenienza e quella genesi vanno ricercati – a mio avviso – nel contenuto semantico dei nomi di due specifiche divinità latine che erano festeggiate, nel Lazio, nel corso del mese di Dicembre: Consus (Conso) e Ianus (Giano bifronte). Il dio Conso (dal latino, “condere”, indica l’azione del “nascondere” e/o del “concludere”) che – oltre al 21 Agosto (data in cui presiedeva all’azione del “mettere al sicuro il raccolto”) – era festeggiato il 15 Dicembre, nel corso delle Consualia, le feste dedicate alla conclusione sacrale del vecchio anno ed il dio Giano – antica divinità latina dalle “due facce”, “dio del tempo” e, specificamente, “dell’anno”, ed il cui tempietto, a Roma, consisteva in corridoio con due porte, chiuse in tempo di pace e aperte in tempo di guerra – che, sulla base della sua ancestrale accezione latina designa “l’andare” e, più particolarmente, la “fase iniziale del camminare” e del “mettersi in marcia”, regolava e coordinava l’inizio del nuovo anno, da cui “Ianuarius, ii”, il mese di Gennaio. Come conferma Franz Altheim, “Ianus e Consus, nella realtà religiosa romana, si riferivano all’inizio ed alla fine di un’azione”. E facevano ugualmente riferimento “(…) ad eventi fissati nel tempo, ma che si ripetevano periodicamente”. Quella e quelli – mi permetto di aggiungere – dell’eterno ritorno della luce a discapito delle tenebre!