Una lettura “sapienziale” della tradizione romana che ha incantato per oltre tre ore la nutrita platea presente in sala, in Via Bezzecca. Giandomenico Casalino, noto scrittore e giurista leccese, nonché filosofo delle tradizioni, ospite del Movimento Tradizionale Romano ai Natali di Roma lo scorso 21 aprile per parlarci del Rito giuridico-religioso quale fondamento della civiltà Romana, ha voluto iniziare la sua ricca relazione prendendo spunto proprio dal simbolo dell’MTR, il cerchio iscritto nel quadrato, che “concilia i quattro elementi con la triade e rappresenta ermeticamente la Via Eroica al Sacro, essenza della Romanità”. Una Via questa, ha detto, tutta occidentale ed apollinea, che “evoca la forza indefinita (il cerchio) e poi la fissa immediatamente, e che farà affermare a Elio Aristide in “Encomio a Roma” (138 e.v.) che tutte le poleis si adeguano a questo modello ideale di forma urbis.
Casalino ha poi ricordato che “il rito è forma, è rinnovazione – non ricordo – e rende eterno: ogni religione è dunque tale solo se è fondata sul rito. Rito è ritus a Roma, rta in India, maat in Egitto e themis in Grecia”. Una linea rossa congiunge tutte le forme sapienziali indoeuropee, una coscienza comune che precede la conoscenza epistemica: il logos (la filosofia), infatti, arriverà al tramonto di queste civiltà, quando ormai si era andata perdendo la conoscenza suprema, la sophia (che, come noto, è prima del mito). Tutto questo, con la scissione moderna, galileiana, tra soggetto vedente e realtà veduta, non verrà più capito e rimarrà celato: poiché il rito stesso è il mondo come Ordine cosmico ed è l’eternarsi del mondo stesso, può essere compreso solo da una weltanschauung olistica. Se il rito dunque rinnova (rinnovava) e produce (produceva) effetti, col rito lo spirito dell’uomo ha (aveva) esperienza dello spirito del mondo.
Esiste poi un doppio livello di consapevolezza nella pratica del rito romano; uno essoterico ed uno esoterico. Quello essoterico distingue tra il soggetto che segue il rito e il sacro che viene creato. Diversamente il livello esoterico annulla il dualismo con l’identificazione del soggetto, senza necessità di mediazione fantastica del mito; non più dunque “io e il sacro”, ma “io che mi identifico e trovo somiglianza nel sacro”. È questo per Casalino è un atto “congiuntivo”. Nel livello esoterico, di nostro, di personale non c’è più nulla, ed anche il pensiero, col rito, diviene quindi potenza cosmica. E se a Roma questo è ascesi dell’azione (praticata da pontenfici, auguri, flamini), nella tradizione platonica diventa “ascesi della contemplazione” (praticata da filosofi). Inoltre detta tendenza all“impersonale” informa di sé tutta di civiltà romana. Per capire meglio, il principio moderno homo faber est suae quisque fortunae non sarebbe mai stato capito da un romano il quale, al massimo, avrebbe chiosato faber est civitatem cum diis. Per Casalino il rito romano è inoltre katekon, muro, limes. La funzione della Res Publica, dell’impero romano, fondata sul rito, è infatti quella di fermare le tenebre di Gog e Magog, che altrimenti avrebbero dilagato (come accade ora). Casalino ha poi rilanciato un suo cavallo di battaglia, la vicinanza tra platonismo e filosofia hegeliana (sua scoperta), ricordando come, nella Fenomenologia dello Spirito, tutta la coscienza dell’umanità sia movimento, sia lotta, sia insomma la “Via Eroica Romana”, e si concluda con il sapere assoluto. Da qui il discorso si è allargato, investendo il significato stessa della vita e della morte per la tradizione romana, ben racchiusa nelle scene scatenate di giubilo scolpite nei bassorilievi sepolcrali: secondo lo studioso, infatti, “quando muori la potenza vitale liberata si scatena nella gioia e nel ritorno all’essere unico” (i “diversi” esistono solo nella nostra realtà del divenire). Secondo questa visione olistica, dunque, il paradiso (l’Elisio) e l’inferno (il Tartaro) sono stati di coscienza dello stesso mondo: “tu conosci quello che sei e sei quello che conosci.” Per Casalino, Dioniso e Apollo, Samsara e Nirvana, Tempo ed Eterno, Divenire ed Essere sono facce della stessa medaglia.
E allora, sorge spontanea la domanda, perché oggi tacciono gli oracoli? “Tacciono perché ha prevalso la fede sulla consapevolezza. Ma la fede è un fatto psichico e il cristiano ha bisogno di credere perché non vede; la fede inoltre la puoi perdere (come accade oggi con la secolarizzazione), mentre la consapevolezza di Dio, no. I nostri antenati romani non credevano negli Dei perché … erano consapevoli di vederli”. “Siamo noi – ha concluso il filosofo leccese – che non siamo più visionari e non sappiamo più ascoltare. Solo “un” Dio ci può salvare”.